IL PROCESSO
Ma che cosa conteneva il " Dialogo "?
Come spiegare il cambiamento d'atteggiamento repentino e inspiegabile del papa Urbano VIII, quando scorse il Dialogo di Galileo? Per cercare di rispondere a questa domanda cruciale, è indispensabile esaminare prima il contenuto del Dialogo, poi analizzare brevemente la congiuntura politica intorno al 1630. L'unione di queste due analisi ci permetterà di proporre, con la debita prudenza, una risposta alla domanda che rimane controversa dal 1632.
Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo mette in scena tre personaggi che discutono fra loro. Questi dialoghi occupano quattro "giornate", che formano le quattro grandi parti del libro. I tre personaggi sono: Salviati, Sagredo e Simplicio. Ognuno dei personaggi svolge un suo ruolo. Salviati è il portavoce di Galileo. Sagredo è quello che solleva delle domande intelligenti e che in generale si lascia convincere dai ragionamenti di Salviati. Simplicio impersona la parte del tradizionalista, discepolo di Aristotele. Il nome di Simplicio dato al terzo personaggio è stato a volte mal interpretato. Non ha niente a che vedere con "sempliciotto". Simplicio non è affatto una specie di buffone ottuso che rende ridicolo tutto ciò che gli esce dalla bocca. Per Campanella, Simplicio "par il trastullo di questa commedia filosofica, ch'insieme mostra la sciocchezza della sua setta, il parlare, e l'instabilità, e l'ostinazione e quanto ci va".
Campanella è evidentemente accecato dal suo astio contro i sostenitori della tradizione. In realtà Simplicio era un matematico e astronomo del VI sec. che commentò Euclide e Aristotele. Il suo nome era però caduto nell'oblio. Salviati e Sagredo erano due amici di Galileo, morti tutti e due qualche anno prima.
Nella prima "giornata" del Dialogo, Galileo dimostra che la distinzione tradizionale, ereditata da Aristotele, fra una regione celeste e una regione sublunare non resiste alla prova dei fatti. Durante la seconda "giornata", procede alla confutazione delle obiezioni formulate tradizionalmente contro la rotazione quotidiana della terra. Nel corso della terza "giornata" riprende il problema della parallasse. Nella quarta "giornata", infine, sviluppa l'argomento principale, quello delle maree e dei venti alisei.
Il Dialogo è un'opera sconcertante per un lettore d'oggi. Il filosofo e, storico delle scienze Alexandre Koyré, nei suoi Etudes Galileennes (1906), afferma che il Dialogo non è un libro d'astronomia (nonostante il titolo) e neppure di fisica, ma essenzialmente una "macchina da guerra contro la scienza e la filosofia tradizionali".
Leggendo il Dialogo, grazie al gioco abile della composizione e del dosaggio sottile delle domande e delle risposte, grazie anche all'uso d'uno stile polemico, si arriva alla conclusione che la teoria copernicana è infinitamente superiore a quella di Tolomeo. In altre parole, le due ipotesi non si equivalgono. Questa convinzione, che è condivi- sa dall'autore, traspare chiaramente dalla lettura, anche se non è affermata. A questo punto, si è tentati di saltare il muro, cioè di pensare che una delle due ipotesi (quella di Copernico), sia più vicina alla realtà delle cose e anche che corrisponda a questa realtà. E proprio quello che voleva evitare Urbano VIII. Ed egli vide nell'opera di Galileo un'appassionata arringa a favore del realismo dell'eliocentrismo, ciò che urtava le sue convinzioni teologiche. Certo, l'argomento del papa su1l'onnipotenza divina era presente nel testo dell'opera. Compare alla fine della quarta "giornata" e conclude in qualche modo i quattro giorni di dialogo. Galileo mette l'argomento del papa in bocca a Simplicio, ciò che indubbiamente è una cantonata.
Nel contesto dell'opera, quest'argomento si presenta decisamente come una specie di aerolito, un corpo estraneo che non armonizza con lo spirito generale del libro. Di conseguenza, l'argomento perde valore e al limite sembra anche ridicolo.
Per tutte queste ragioni, il papa poteva sentirsi ingannato e pensare che da parte di Galileo ci fosse come una rottura del contratto morale che avevano stipulato in precedenza. Questo può spiegare la sua violenta collera.
La congiuntura politica
Esaminiamo ora la congiuntura politica durante gli anni 1630-1633. Ci troviamo in uno dei momenti più drammatici della guerra dei trent'anni, condotta dall'imperatore cattolico Ferdinando II contro i principi protestanti. Nel gennaio 1631 Richelieu, nel quadro della sua politica antimperiale, si allea con la Svezia protestante. Il re di Svezia Gustavo Adolfo, alla testa di un temibile esercito, spinge le sue truppe fin dentro la cattolicissima Baviera, seminando il panico in campo cattolico tedesco e spagnolo. Urbano VIII, che fino a quel momento faceva una politica filofrancese, si trova per questo fatto in una situazione delicata. Poteva rimanere al di sopra della mischia e non unirsi al campo degli Stati cattolici, quando questi si trovavano in cattive acque? La Compagnia di Gesù è in tutta Europa in prima linea nella lotta contro l'avanzata dell'eresia protestante. I gesuiti, difensori zelanti della Controriforma, si ritrovano nel "partito spagnolo" che detiene dei solidi bastioni nella Roma pontificia. Il loro tema preferito consiste nel denunciare il lassismo dottrinale, minaccia per la fede. Essi rimproverano al papa la mancanza di fermezza verso coloro che propagano le idee nuove, pericolose per la religione. Criticano anche la sua politica estera titubante, mentre i nemici del cattolicesimo sono in Baviera, dove saccheggiano i collegi dei gesuiti e cacciano i padri.
Le sventure del tempo presente: la guerra, la peste, il risveglio del Vesuvio non sono dei segni dell'irritazione divina contro coloro che governano la Chiesa? Il venerdì santo 1631 Grassi pronunzia un sermone apocalittico alla presenza del papa. Poco dopo pagherà la sua audacia.
Il capo dell'opposizione al papa era il cardinale Borgia, ambasciatore del re di Spagna presso la Santa Sede e membro del Sant'Uffizio. Le riunioni del Sant'Uffizio furono spesso il teatro di diverbi fra il papa e il potente ambasciatore. Uno scontro di rara violenza avvenne nel marzo 1632, in occasione di un concistoro segreto. Poco mancò che gli avversari venissero alle mani. Borgia diede lettura di un documento scritto che accusava apertamente il papa di compiacenza verso i nemici della religione. Quest'incidente rivelò al papa il suo relativo isolamento. Qualche suo avversario, come il cardinale Ludovisi, arrivavano fino a brandire la minaccia di una deposizione di un papa protettore dell'eresia. Il papa, gravemente offeso, si limitò a inviare una nota di protesta a Madrid. Se espulse da Roma il focoso cardinale Ludovisi, membro del partito spagnolo, si guardò bene dal prendersela col potentissimo cardinale Borgia, rappresentante della cattolica Spagna.
Alla pressione della Spagna s'aggiunse quella degli Asburgo, che non davano tregua al papa. In marzo, gli mandarono un inviato speciale. Urbano VIII dovette far fronte a una crisi di estrema gravità. In un documento diplomatico destinato a una larga diffusione, egli cercò di calmare le acque affermando che le accuse dirette contro di lui erano false e prive di fondamento: si tratta "di falsissime suspicioni e congetture senza fondamento", ed è sicuro di poter darne le prove.
L'anno 1632 segna una svolta nel pontificato di Urbano VIII. E la fine dell'epoca in cui i sostenitori della nuova filosofia trovavano aiuto e protezione nel papa. Galileo fu una vittima di quel cambiamento di rotta. Alla domanda che facevamo all'inizio di questo capitolo sulle ragioni che spinsero il papa a mutar atteggiamento verso Galileo, ora possiamo proporre una risposta.
Il papa abbandona Galileo
È certo che Urbano VIII fu preso da una grande collera per il tono generale del Dialogo, che intese come un'arringa a favore dell'astronomia copernicana. Questo, malgrado il titolo dell'opera, malgrado la prefazione e la conclusione, in cui l'argomento del papa sembrava una semplice concessione verbale in contraddizione con tutto ciò che precedeva. Agli occhi del papa, Galileo non aveva rispettato il tacito patto concluso con lui.
L'unico documento in cui si parla della reazione del papa è la lettera molto sibillina del padre Riccardi all'inquisitore di Firenze per cercare di arrestare la diffusione del libro. Vi si legge:
È pervenuto in queste bande (a Roma) il libro del signor Galileo, e ci sono molte cose che non piacciono... Intanto è di ordine di Nostro Signore che il libro si trattenga...
Si ignora se il papa fu sensibile alle voci che circolavano a Roma, dopo che il Dialogo cominciò ad esservi letto e commentato. Accanto all'accoglienza entusiasta dello stravagante fra Campanella che poté solo nuocere a Galileo, si rilevano degli attacchi che secondo il padre Riccardi hanno origine nell'ambiente dei gesuiti, incoraggiati dall'opposizione violenta del cardinale Borgia. Galileo fu informato dalla lettera di un amico che "i padri gesuiti devono sotto sotto lavorar gagliardissimamente perché l'opera sia proibita, che questo me l'ha detto egli (il padre Riccardi) con queste parole: "I gesuiti lo perseguitano acerbissimamente"".
Abbiamo qualche idea delle lagnanze diffuse dai nemici di Galileo. Alcuni sostengono che il papa potrebbe riconoscersi in Simplicio, il "sempliciotto" tradizionalista. Altri se la prendono con l'emblema che orna il frontespizio del Dialogo, che raffigura tre delfini, nei quali vogliono vedere un simbolo mistico-politico. Il delfino appartiene alla mitologia greca e interviene poi nella fondazione leggendaria della dinastia regale francese, diventando il nome stesso dell'erede al trono di Francia. L'emblema è forse il segno dell'adesione al partito filofrancese? Il padre Riccardi in persona non aveva forse confidato, sotto il sigillo del segreto a un amico di Galileo, che l'emblema dei delfini "aveva molto offeso"?
Un uomo esperto come il padre Riccardi poteva ignorare che l'emblema dei tre delfini era semplicemente quello di Landini, lo stampatore fiorentino e che si trovava in molti altri libri stampati da lui? Si può anche pensare, e questa è l'opinione formulata da Pietro Redondi, che i lettori attenti del Dialogo poterono ritrovarvi certi temi già sviluppati nel Saggiatore, per cui riprendono l'accusa d'eresia a proposito dell'Eucarestia. Noi sappiamo che tutte queste lagnanze non resistono a un esame serio dei fatti. Il papa non aveva bisogno di prestar orecchio a queste calunnie, perché aveva delle ragioni personali di prendersela con Galileo.
Sotto la spinta della collera; Urbano può aver pensato di lasciar iniziare una procedura giudiziaria contro Galileo. Far condannare Galileo è un gesto abile da un punto di vista politico. Va nella direzione auspicata dai suoi avversari e fornisce la prova che non è il protettore incondizionato degli innovatori, smentendo così le accuse insistenti che gli muovono.
Galileo appare come una vittima, innanzi tutto di certe sue imprudenze, ma soprattutto di una congiuntura politica drammatica che obbliga il papa a fare un gesto destinato a placare i suoi numerosi avversari. Galileo ha dimenticato troppo facilmente che, malgrado le preferenze filosofiche, il papa rimane innanzi tutto un sovrano e un capo politico, capace di sacrificare anche un amico a un interesse superiore. Galileo è una vittima della ragion di Stato. Il papa lo confesserà quasi apertamente all'ambasciatore di Firenze nel settembre 1632: a volte è necessario dimenticare ogni sentimento di rispetto e d'affetto per concorrere "a riparare a ogni pericolo per il cattolicesimo". Se era necessario che il papa desse una manifestazione pubblica di fermezza, lo vedremo esaminando lo svolgimento del processo di Galileo, in cui Urbano VIII non chiese che la giustizia usasse la mano troppo pesante. L'accusato Galileo ebbe diritto a certi riguardi abbastanza eccezionali; e questo fa pensare che il papa gli conservasse una certa stima, se non un resto d'amicizia. D'altra parte, nel settembre 1632 afferma all'ambasciatore di Firenze "ch'ancora Galileo era suo amico".
Processo e procedure
Galileo è convocato al Sant'Uffizio nel settembre 1632. Sconcertato e preso alla sprovvista, cerca di guadagnar tempo a suon di certificati medici, dicendo che non può affrontare le fatiche del viaggio da Firenze a Roma in pieno inverno. Minacciato d'arresto, si mette in cammino e arriva faticosamente a Roma il 13 febbraio 1633; è trattenuto presso il Sant'Uffizio, non in una cella ma in un bell'appartamento. Galileo sa che dall'agosto 1632 il caso è esaminato in alto luogo. Per non affidare la fase istruttoria al Sant'Uffizio, ciò che avrebbe costituito la procedura normale, il papa decide di nominare una commissione straordinaria, presieduta da suo nipote, il cardinale Barberini. il papa aveva delle buone ragioni per diffidare del Sant'Uffizio, dove si trovavano dei personaggi troppo felici di regolare i loro conti con Galileo. Il cardinale Barberini ci aveva tenuto a rassicurare l'ambasciatore di Firenze a Roma dandogli la certezza che malgrado un'inevitabile imputazione, si sarebbe mostrata "buona volontà verso il signor Galileo".
La commissione speciale comprendeva tre teologi:
- Il primo esperto, monsignor Oreggi, teologo personale del papa, consultore del Sant'Uffizio, è di spirito aperto, assai lontano dalle idee difese dai gesuiti.
- Il secondo, padre Pasqualigo, è un giovane teologo che appartiene all'ordine dei Teatini, un ordine impegnato in numerose controversie contro i gesuiti. ,
- Il terzo, padre Inchofer, è un gesuita (uno ci voleva!). Questo gesuita serve da alibi, è vagamente astronomo e ferocemente anticopernicano, ma soprattutto amico personale del padre Riccardi.
Una commissione del genere, composta abilmente, non poteva che essere sensibile ai desideri del papa, trasmessi dal nipote cardinale che la presiedeva. Dopo cinque riunioni in un mese, riunioni segrete, la commissione presentò il rapporto finale, che enumerava i capi d'accusa presi in considerazione contro Galileo. In mezzo a reati minori, come aver mancato di rispetto verso autori consacrati, aver ridicolizzato gli argomenti di Tolomeo, emerge l'accusa principale: quella di avere, nel Dialogo, infranto il divieto, fermamente comunicato nel 1616 a Galileo dal cardinale Bellarmino, di difendere la teoria copernicana condannata dal Sant'Uffizio. Si noterà che la principale di queste incriminazioni è un'infrazione d'ordine disciplinare a un precetto ecclesiastico e non un'eresia dottrinale, ciò che sarebbe stato molto più grave.
La commissione istruttoria allora trasmette la pratica al Sant'Uffizio, al quale spetta pronunziare una sentenza, senza potersi allontanare dalle imputazioni formulate dalla commissione. Il caso Galileo era così ben inquadrato. Nella pratica trasmessa al Sant'Uffizio figura il famoso verbale d'ingiunzione formale del 1616, che però non aveva nessun valore giuridico, perché non era stato firmato ne da Galileo ne dal cardinale Bellarmino. La presenza di quel documento provocherà, al momento del processo, un incidente di cui dovremo riparlare.
Il processo propriamente detto incominciò il 12 aprile 1633. Galileo comparirà tre volte da- vanti ai giudici. Fin dalla prima udienza, a ragione l'imputato contesta il documento presente nel- la pratica che parla dell'ingiunzione formale notificata dal cardinale Bellarmino ne1 1616. Per giustificarsi, produce la lettera che lo stesso Bellarmino gli aveva inviato poco dopo gli avvenimenti del 1616, certificando così che si trattava di una semplice notifica della decisione del Sant'Uffizio. Questa risposta getta lo scompiglio nel tribunale. I testimoni diretti del colloquio de11616, Bellarmino e Seghizzi, non potevano più portare la loro testimonianza, perché non erano più in questo mondo. Questo fu il granello di sabbia che rischiò di far grippare un meccanismo perfettamente oliato. Le udienze sono sospese. Dopo averne riferito al cardinale Barberini, il 27 aprile il commissario Maculano si reca personalmente dall'accusato per un colloquio senza testimoni e il cui segreto è stato ben conservato. Si noti che un tale passo non è assolutamente previsto nel codice di procedura. E facile immaginare l'oggetto di questo colloquio. Si tratta di chiedere a Galileo di mostrarsi conciliante, nel suo stesso interesse. Si deve supporre che gli argomenti del giudice fossero convincenti. Fin dal giorno dopo Maculano, felicissimo che la sua missione abbia avuto successo, scrive al cardinale Barberini per dirgli:
il tribunale sarà nella sua reputazione e col reo si potrà usare benignità. Sua Santità e I'E.V. resteranno soddisfatti.
In effetti, nella seconda seduta Galileo fa umilmente autocritica. Riconosce che rileggendo il suo libro s'è reso conto d'aver difeso la teoria di Copernico quasi suo malgrado, trascinato dalla penna alla ricerca di effetti letterari.
Il verdetto
Il mattino del 22 giugno 1633, l'ultima seduta del processo si svolgerà nel salone del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva. E il momento solenne del verdetto. Galileo, davanti ai giudici tutti riuniti, ascolta la sentenza del tribunale.
Questo ricorda la condanna delle tesi copernicane, avvenuta ne11616. Il tribunale ritiene che la pubblicazione del Dialogo costituisca una violazione esplicita dell'ingiunzione fatta in passato all'autore di non sostenere ne difendere l'opinione falsa di Copernico che va contro la Sacra Scrittura. Si nota che Galileo ha confessato come, leggendo il libro, un lettore "potrebbe formar concetto che gl'argomenti per la parte falsa fossero in tal guisa pronunziati, che più tosto per la loro efficacia fossero potenti a stringere che facili ad essere sciolti". È ricordato l'attestato fornito dal Bellarmino, che pare aggravi la colpevolezza dell'imputato. Gli si rimprovera di non aver "detto intieramente la verità", anche se si riconosce che alla fine ha risposto "cattolicamente". Segue poi la sentenza propriamente detta. Dato che Galileo s'è reso sospetto d'eresia sostenendo una falsa dottrina, contraria alla Sacra Scrittura, gli è chiesto di abiurare "con cuor sincero e fede non finta" gli errori e le eresie ricordati precedentemente. Il Dialogo è "proibito". Galileo è condannato alla carcerazione e si deve sottomettere a una pratica penitenziale.
Dopo la lettura della sentenza, Galileo in ginocchio, con la mano sui Vangeli, recita la formula d'abiura. Dopo un segno di croce, sigla l'attestato d'abiura. Rialzandosi, non pronunziò mai la frase che la leggenda gli attribuisce: "Eppur si muove".
Le conseguenze del processo
La condanna al carcere consisteva in effetti in un domicilio obbligato. Dopo il processo, soggiornò per qualche tempo nella Villa Medici, presso l'ambasciatore di Firenze, poi nel palazzo dell'arcivescovo di Siena suo amico, e quindi, fino alla morte, nella sua casa di campagna, Il gioiello, ad Arcetri, nella periferia di Firenze. Vi poteva ricevere i suoi allievi e nel 1638 vi terminò il suo capolavoro, in cui getta le fondamenta della nuova meccanica. L'opera è intitolata: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica ed ai movimenti locali. Completamente cieco a partire dal 1638, Galileo morì 1'8 gennaio 1642.
Se il processo di Galileo comporta dei passaggi mai chiariti perché circondato dal segreto, non sarà lo stesso per il suo epilogo. La condanna di Galileo fu annunciata a tutte le grandi potenze attraverso le nunziature di Vienna, Madrid, Parigi, Praga, Bruxelles, ecc. Evidentemente, per il papa si trattava di un affare di Stato, perciò politico, e non d'un semplice caso interno della Chiesa, anche se a quel tempo i due aspetti erano molto legati fra loro.
Galileo non fu l'unica vittima del cambiamento di rotta nella politica estera di Urbano VIII. Monsignor Ciampoli, l'amico di Galileo, difensore della nuova filosofia, ispiratore della politica filofrancese seguita da Urbano VIII all'inizio del pontificato, fu destituito, nell'aprile 1632, dalle sue funzioni nella segreteria dello Stato Vaticano, e poco tempo dopo si ebbe il colpo di mano del partito spagnolo nel concistoro dell'8 marzo. Da molto tempo, i gesuiti ne chiedevano la testa. Monsignor Ciampoli fu esiliato sugli Appennini ma con certi riguardi. Il papa non abbandonava mai completamente i suoi amici, se la ragion di Stato l'obbligava a punirli o ad allontanarli.
Urbano non esitò invece a infierire contro coloro che gli mancarono di rispetto. È la disavventura capitata al padre Grassi, che fu senza dubbio l'avversario più virulento e più subdolo di Galileo, oltre che uno degli oppositori più decisi alla politica d'apertura praticata dal papa dopo l'elezione. All'inizio del 1633, prima ancora della condanna di Galileo, Grassi fu improvvisamente destituito dai suoi incarichi e inviato in esilio nella città nativa di Savona. Diversamente da monsignor Ciampoli, non beneficiò di nessun compenso e rimase in esilio fino alla morte di Urbano VIII.
La tesi di P. Redondi
Prima di terminare questo capitolo, bisogna ritornare sulla tesi sostenuta nel 1983 dallo storico italiano Pietro Redondi nell'opera Galileo eretico, tradotta anche in francese. Riassumiamo il suo pensiero.
Galileo fu accusato e denunciato al Sant'Uffizio dai gesuiti non per il copernicanesimo ma perché aveva sostenuto la concezione atomistica della materia che a loro sembrava incompatibile con il dogma della transustanziazione eucaristica definito dal concilio di Trento. Una tale accusa è molto più grave di quella d'aver difeso le idee di Copernico. Chi osa attaccare l'Eucarestia, dogma centrale del cattolicesimo, può finire diritto sul rogo. Immaginiamo lo scandalo, se si poteva dimostrare davanti al mondo cattolico che il papa era stato il protettore di un grosso eretico! Colpire Galileo è colpire il papa stesso. Quando, dopo gli anni 1630, la posizione di Urbano VIII diventa più delicata a motivo della congiuntura politica e militare, egli giocò d'anticipo e fabbricò un processo imperniato sull'imputazione benigna di Copernicanesimo. Questo capo d'accusa poteva portare solo a una condanna moderata del suo protetto, e soprattutto evitare al papa d'essere implicato in un processo che riguardava un dogma della Chiesa. In sostanza, il processo di Galileo nasconde un altro processo molto più grave che non ebbe luogo grazie all'abilità tattica di Urbano VIII. Il processo del 1633 fu solo una cortina di fumo.
La tesi di Redondi si basa essenzialmente sulla denuncia anonima contro l'autore del Saggiatore, che lui stesso ebbe la fortuna di scoprire negli archivi vaticani. A suo parere, quella denuncia fu presentata da Grassi nel 1624.
Un altro argomento sarebbe il cambiamento d'atteggiamento di Galileo fra i due primi interrogatori del processo. Egli rinuncia improvvisamente a difendersi, quando gli fanno capire il vero rischio del processo. A questo si può rispondere che l'uomo comparso davanti al tribunale è un vecchio di settant'anni, in cattive condizioni di salute, sorpreso dagli eventi e che ha perso la maggior parte degli amici. C'è da stupirsi se quest'uomo stanco morto rinuncia a combattere?
È certo che nel Saggiatore Galileo sostiene una teoria atomistica della materia, del calore e della luce. Ma in nessun momento pensa di trarne le conseguenze a proposito dell'Eucarestia, di cui non parla e non ha mai parlato. Galileo manifestò sempre la sua adesione alla fede cattolica e ai suoi dogmi. E noto che le speculazioni filosofico- teologiche alla maniera d'un Bruno o d'un Campanella non destano in lui nessuna eco, salvo un certo disprezzo. Il suo campo è quello della "filosofia naturale", cioè della scienza.
È perfettamente vero che il dibattito sull'Eucarestia era ancora molto vivo al tempo di Galileo, e Redondi l'ha dimostrato in maniera magistrale. Del problema si occuparono degli spiriti brillanti come Cartesio, Malebranche e Pascal. Contro la Riforma protestante, il concilio di Trento riaffermò solennemente la presenza reale di Cristo nel- l'Eucarestia con la transustanziazione, che è in qualche sorta la modalità esplicativa di questa presenza reale.
Già nel concilio di Trento questa spiegazione aveva incontrato un'opposizione, certo minoritaria, ma vigorosa, dei padri conciliari. Furono numerosi i teologi che, come il cardinale Pierre de Bérulle, videro il grave inconveniente di legare la sorte di una verità di fede (la presenza reale) a una spiegazione basata sulla fisica aristotelica con la sua distinzione tra "accidente" e "sostanza".
Padre Pasqualigo, un membro della commissione istruttoria, era un teologo che sull'Eucarestia sosteneva un punto di vista molto moderno, assai vicino a quello del cardinale de Bérulle e della scuola teologica francese. Egli scrisse saggiamente:
Non vedo come la fisica e la teologia debbano essere confuse in una sola scienza.
Pasqualigo non fu mai infastidito per le sue prese di posizione eucaristiche, mentre lo fu per la sua teologia morale. Questo tende a relativizzare l'importanza del dibattito eucaristico. Perché il papa avrebbe inserito un religioso che poteva essere sospettato d'eresia eucaristica nella commissione incaricata di giudicare Galileo?
Si può rimproverare a Redondi d'aver affrontato il caso Galileo accrescendo indebitamente l'importanza della disputa eucaristica e al contrario minimizzando quasi oltraggiosamente l'importanza del dibattito sulla nuova astronomia.
Non bisogna neppure dimenticare che la Chiesa, anche se fu lenta a muoversi, alla fine condannò molto decisamente le idee di Copernico definendole eretiche, e questo ne1 1616, molto prima che uscisse il Saggiatore. Ne1 1633, riprende questa condanna, praticamente negli stessi termini. Redondi vuol far credere ai lettori che al tempo del processo di Galileo il copernicanesimo fosse un caso archiviato. Allora come spiegare che si dovette aspettare un secolo e mezzo per veder abolito il decreto de1 1616? Redondi crede di dover fare una distinzione fra oltraggio alle "Sacre Scritture" e oltraggio alla fede. La teoria di Copernico sarebbe soltanto contraria alle Scritture. In questo modo, non si dimentica che la fede cattolica è fondata sulle Scritture? Si può credere che scacciare la terra, e quindi l'uomo che l'abita, dal centro del mondo non abbia nessuna ripercussione ne sull'antropologia ne sulla teologia cristiana? Lo sconvolgimento dell'edificio gerarchizzato della filosofia scolastica poteva lasciare indifferenti i responsabili della Chiesa? La "rivoluzione copernicana" merita il suo nome e la Chiesa non è mai stata entusiasta delle rivoluzioni.
Le altre discussioni sulle affermazioni di Redondi sono effettivamente secondarie rispetto ai problemi che abbiamo ricordato. Redondi, ad esempio, ha rilevato ripetutamente che la commissione d'istruzione avrebbe esaminato "le opere" di Galileo. Bisogna dedurne che non era in causa soltanto il Dialogo e perché volervi mischiare Il Saggiatore come se Galileo non fosse stato l'autore di tutt'e due le opere?
Redondi attribuisce la denuncia anonima del 1624 a Grassi, in base a un'analisi grafologica contestabile e contestata. Quest'attribuzione è solo un'ipotesi fra le altre.
In sostanza, costruire tutta un'impalcatura, certo ingegnosa, su basi così fragili, quando si ignora il ruolo preciso che poté giocare ulteriormente un documento unico e anonimo, significa fare un brillante esercizio di stile al servizio di una tesi in fondo poco convincente.