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La scelta di non essere ignoranti

Di norma nel percorso scolastico di ognuno di noi, dal punto di vista didattico, si dimenticano inevitabilmente diversi degli argomenti studiati e previsti dai programmi; tuttavia, per fortuna mi verrebbe da dire, ci sono certi passi, certi concetti, certi personaggi che per un motivo o per l’altro attirano la nostra attenzione, si insinuano e si imprimono nella nostra memoria: principalmente capita, almeno secondo la mia esperienza personale, con ciò che riporta l’attenzione sulla propria vita e che spesso la fa osservare da un’angolazione diversa rispetto a quella da cui eravamo soliti osservarla.

Certamente un personaggio affascinante e, azzarderei, molto moderno come Socrate non può passare inosservato: mentre scrivo quasi temo di definirlo, rinchiuderlo in un’etichetta, come molti suoi contemporanei facevano…”Socrate, l’uomo più sapiente di Atene!” oppure “Socrate, il corruttore di giovani!”.
Ciò che ho assorbito maggiormente del pensiero socratico riguarda la sua concezione della filosofia come attività profondamente congiunta con la vita, quindi il non limitarsi alla ricerca teorica e razionale della verità, ma anche all’azione che ne deriva nella vita quotidiana.

Riguardo alla componente della ricerca teorica, essa può avvenire se si presuppone di essere in uno stato di ignoranza: d’altra parte non si può riempire qualcosa di già pieno, esso va svuotato e posto in uno stato di squilibrio per poter cogliere aspetti che nella (falsa) certezza e nella stabilità non si percepiscono. Da qui deriva la tecnica socratica della confutazione, con la quale il filosofo tormentava i cittadini di Atene: il demolire sistematicamente certi principi generali secondo i quali comunemente le persone agiscono, spesso senza neanche essersi interrogati a fondo su tali idee. Nell’Apologia di Socrate Platone riporta la critica del filosofo rivolta ai suoi contemporanei, che sono convinti di sapere (quando, in realtà, così non è neanche nell’ambito limitato delle loro professioni e abilità) ma agiscono inconsapevolmente, e quindi nel male.

Relativamente all’azione, Socrate sapeva che mettendo in causa le opinioni teoriche, anche la condotta di vita deve essere rivalutata e sottoposta ad esame, non per niente molti suoi contemporanei hanno cercato di eliminarlo (e alla fine ci sono anche riusciti). Essi peccavano di superbia, tracotanza, un concetto che i greci chiamavano hybris, cioè quella dannosa presunzione che Socrate tanto criticava: egli sapeva che nel suo non-sapere, solo chi si riconosce ignorante è in condizione di imparare, come precedentemente detto.
Ma a livello pratico, cosa significa agire? Agire significa “compiere delle scelte”.

Ecco, il punto è esattamente questo: avendo capito che la ricerca interiore si sovrappone alla vita fino a coincidervi, e che dalla ricerca razionale interiore si sviluppano delle idee, conseguentemente queste idee devono avere un peso sul nostro agire, e quindi su ogni singola scelta della nostra vita.

Noi non ce ne accorgiamo neanche, ma quotidianamente compiamo una serie di scelte, nella maggior parte delle volte inconsapevolmente, che non solo condizionano la nostra vita, ma anche quella degli altri, anche se apparentemente non sembrerebbe: cosa mangiamo, cosa compriamo, cosa guardiamo in televisione, che giornale acquistiamo sono tutte scelte che molti di noi fanno senza la giusta consapevolezza di che cosa c’è dietro a ciò che accogliamo nella nostra vita e alle quali ci conformiamo prima con l’atteggiamento e poi con altri tipi di scelte, come quelle politiche. Senza saperlo, quindi per pura ignoranza, noi compiamo delle scelte politiche ogni giorno e purtroppo anche il non fare niente e l’indifferenza sono delle scelte politiche, il cui peso non sembra caderci addosso, quando in realtà così non è, perché, in fondo, viviamo tutti nella stessa società e, metaforicamente parlando, “siamo tutti sulla stessa barca”.
Il nodo della questione, che riporta immediatamente al pensiero socratico, è la mancanza di consapevolezza: da una scelta inconsapevole, che per molti neanche tale può sembrare, ma solo un atteggiamento “conforme” e “normale” nella nostra società, non può che sfociare qualcosa di dannoso. Purtroppo noi uomini siamo egoisti e spesso se non sentiamo direttamente sulla nostra pelle il male che provochiamo non ci poniamo neanche il problema: ma se rincorriamo tanto la felicità, dobbiamo capire che è la scelta consapevole che ci rende non solo uomini, ma anche cittadini e membri di una comunità attivi, e non passivi (sinonimo di “ignoranti”). Ognuno di noi dovrebbe avere il coraggio di ammettere la propria ignoranza, alzare lo sguardo, ricercare e osservare la realtà che ci circonda, il sistema in cui siamo inseriti, e prenderne atto, per poi misurare le nostre scelte alla realtà.

Io credo che in troppi siamo naturalmente inclini alla non-osservazione, al non-ascolto, all’ignoranza, perché pensiamo di non averne bisogno, di avere già fin troppi problemi, di “farci gli affari nostri” e ci accontentiamo, ci lasciamo trasportare, viviamo nel buio della massa e non ci rendiamo conto che le scelte che non compiamo noi le compirà qualcun altro al nostro posto, e a quel punto magari borbotteremo per un po’, ma poi ci adegueremo di nuovo alla nostra vita di sempre, ricadendo del vortice della passività.
Ma è solo con l’osservazione e la riflessione che possiamo elaborare una consapevolezza, e quindi compiere delle scelte consapevoli, che giuste o sbagliate esse siano. Dobbiamo avere il coraggio di ammettere la nostra superbia, abbatterla e capire che con la consapevolezza e con la ricerca ci è possibile compiere delle scelte dignitose e produttive, inclini verso il bene comune, e non quello, fasullo, del singolo.

Ma anche la consapevolezza è una scelta: la consapevolezza espone l’uomo a delle libertà che spesso non sapeva di avere e che forse non vorrebbe neanche avere, per quanto difficili sono le scelte che ne conseguono. Ma ecco, la parola chiave forse è proprio “libertà”: sono la conoscenza, il sapere, la consapevolezza che ci rendono veramente liberi, non le sicurezze fasulle che ci trasmette il sistema in cui viviamo, che, politicamente parlando, sia democratico o meno.
Scegliere di voler diventare consapevoli è un atto di coraggio e pone l’uomo nel mezzo di un percorso, il percorso della ricerca, della libertà e della scelta che porta al bene.

Socrate, “Chi era costui”?

La figura di Socrate è fondamentale per lo sviluppo non solo della filosofia greca, ma di tutto il pensiero occidentale.

Il suo insegnamento, infatti, ha aperto la strada alla ricerca del sapere ed esercita tutt’oggi una grande influenza su filosofi e intellettuali.

Quella di Socrate, nell’Atene del V sec.  a.C. fu una vera e propria “missione”, un esame incessante su se stesso e sugli altri condotto sempre con umiltà propria di chi  “sa di non sapere”. È proprio questa consapevolezza che funziona come uno stimolo alla ricerca, una ricerca, però, portata avanti con quel gioco di parole comunemente conosciuto con il nome di eironeia.

Così in un “variopinto teatro” di finzioni, il maestro, perché soprattutto questo era in fondo Socrate, spinge i suoi discepoli ad aprire le menti e a liberarle da quelle pseudo – certezze che le imprigionano.

Ecco appunto il filosofo simile alla levatrice che con la sua abilità e con il suo assillante “Che cos’è?” aiuta gli uomini a “partorire” quelle verità che tengono nascoste da tempo dentro di sé.

Così grazie a Socrate ciascuno ha imparato anche il mestiere di vivere, a distinguere il bene dal male.

Insomma, in poche parole, a essere un uomo.

David - La morte di Socrate

Socrate: Innovatore?

Socrate fu, senz’ombra di dubbio, un innovatore nel campo della filosofia, proprio per il suo modo di vederla e considerarla.
Egli spostò l’attenzione della filosofia dall’ambito della natura a quello dell’uomo, inquadrandolo da tutti i punti di vista, soprattutto per quanto riguarda la vita interiore. Da qui l’utilizzo di confutazione e ironia, due “armi” utilizzate da Socrate per esaminare gli interlocutori con i quali si fermava a parlare. Socrate li sottoponeva al suo esame e li smascherava: non sapevano ciò che credevano sapere.
Ecco: proprio la tematica del “Sapere di non sapere” è caratteristica dell’ideale Socratico.
Grazie alla visione di una rappresentazione teatrale dell’Apologia di Socrate, ho potuto cogliere questa tematica fondamentale. Anche nel mezzo del discorso per difendersi dall’accusa rivoltagli da Meleto, Socrate sottopone i giudici al suo esame e, con un’eloquenza straordinaria, pone loro davanti una realtà semplice: Socrate sa di non sapere, ed è per questo che desidera la verità. Questo è il messaggio che mi è stato trasmesso dall’Apologia.
Oltre a un nuovo modo di pensare all’uomo, Socrate introdusse anche un nuovo rapporto vita-filosofia: la filosofia come modo di vivere. Egli fu probabilmente il primo a vedere la filosofia così ed è questo che lo ha reso tanto celebre e affascinante.
Socrate, inoltre, non lasciò nulla di scritto, perché egli pensava che la sapienza andasse cercata nel dialogo delle anime che si fecondano reciprocamente.
Dunque, per me, il grande merito di Socrate fu quello di aver capito che la ricerca della verità è possibile solo a partire dalla consapevolezza di non sapere. Egli rimase sempre coerente con sé stesso, tentando di coinvolgere gli altri nella sua ricerca della verità: un Innovatore.

L’anima è l’essenza dell’uomo

“EUTIFRONE: A un’altra volta, Socrate: ho furia; l’è ora ch’io vada.

SOCRATE Che fai, amico? tu vai via e mi togli la speranza ch’io aveva, dopo imparate da te le cose sante e le empie, di potermi districare dall’accusa di Melito; mostrando a lui che Eutifrone m’ha fatto dotto in religione, che io non sono uno sciocco che parlo di mia testa, ch’io non fabbrico nuovi Iddii, che io da oggi in poi avrei menato vita un po’ meglio.”

Così si conclude l’Eutifrone, uno dei dialoghi socratici scritti da Platone.

Trovo interessante il modo in cui Eutifrone si congeda dal filosofo, sbrigativo, quasi scocciato; probabilmente non fu l’unico che, esasperato dall’interlocutore, decise di troncare l’argomento di discussione.

E come dargli torto? Chi di noi, al suo posto, avrebbe fatto diversamente?

Il metodo di Socrate consisteva nell’interrogare le proprie “vittime” su argomenti che essi credevano di conoscere perfettamente, riuscendo a smentirle con ironia. Grazie alle sue domande, infatti, si riusciva a capire l’invalidità delle proprie opinioni: al termine delle discussioni, gli interrogati risultavano confutati dal filosofo e si rendevano conto di non sapere ciò che erano convinti di sapere. Ed era per questo che, feriti nell’orgoglio, alla fine decidevano di andarsene.

Il fine di Socrate era quello di far scoprire ai suoi concittadini la loro ignoranza, in modo da spingerli a migliorarsi per raggiungere l’Aretè, l’eccellenza. Infatti egli credeva che solo alimentando la propria anima, arrichendola di conoscenza, si potesse capire la differenza tra Bene e Male e raggiungere la felicità. “L’anima è l’essenza dell’uomo” diceva, ed egli stesso cercava di nutrirla sempre più di sapienza, tramite il dialogo con gli altri. Insisteva molto a volte e, proprio per questo, era paragonato a un tafano, un insetto fastidioso la cui puntura fatica a guarire.

Egli non lasciò nulla di scritto, tutto ciò che sappiamo di lui ci è stato tramandato da altri, come Platone e Senofonte. Questo perché per Socrate non era importante elaborare dottrine impersonali e oggettive, valide per tutti, ma fare chiarezza nell’animo, tramite il contatto diretto con le persone, per poter “partorire” pensieri riguardanti la vita dell’uomo. Non per niente si paragonava alle levatrici, le donne che, ormai madri, aiutavano le altre a far nascere i propri figli, così come lui aiutava a far nascere delle verità.

Non condivido la sua convinzione che il Male sia compiuto unicamente per ignoranza e che solo alimentando la propria virtù si possa conoscere il Bene, ma trovo molto interessanti il suo metodo e il suo pensiero, perché credo che il dialogo tra gli uomini sia importante per stimolare la ricerca di verità.

Ho cercato di immedesimarmi in uno dei suoi interlocutori e, molto probabilmente, mi troverei più che in difficoltà in uno scontro diretto con lui e faticherei parecchio a portare avanti le mie idee, pur non essendo molto incline a cambiare opinione. Però credo anche che essere stimolati ad interrogarsi, per capire e conoscere a fondo qualcosa che ci interessi, non sia sbagliato e che possa portare, in alcuni casi, al raggiungimento della felicità.

Socrate e la ricerca del sapere

Molto spesso gli studenti non sono stimolati allo studio, perché trovandosi davanti ad intere pagine piene di nozioni all’apparenza senza significato, concepiscono questa attività come passiva e noiosa. Ci si imbatte, infatti, nel limite di dover studiare problemi già risolti e discussioni già concluse, senza poter prendere parte a un processo che invece dovrebbe coinvolgere in prima persona, in quanto riguarda lo sviluppo della propria conoscenza.
Socrate aveva compreso che lo studente deve partecipare attivamente nella ricerca del sapere, per sviluppare una concezione critica del mondo che lo circonda. Lo studio dunque non deve concretizzarsi come una presuntuosa conquista della saggezza, ma piuttosto come un’umile accettazione della propria ignoranza, in vista di un confronto con il proprio insegnante, che porti entrambi a sviluppare un’opinione che sia allo stesso tempo personale e universale, riguardo le forze e i principi che regolano il mondo.
In questo senso lo studio porta anche a evadere dalle rigide discipline scolastiche e a evolvere una mente consapevole in grado di cogliere concetti etici che indichino la giusta via per raggiungere la felicità. Questa infatti non può concretizzarsi nelle persone che non abbiano maturato l’attitudine al ragionamento, la quale si può apprendere solo attraverso un confronto diretto con altre menti fertili: non a caso i regimi dittatoriali si basano su un’istituzione unilaterale che non permette il contatto con correnti di pensiero alternative.
Socrate sembra riassumere ciò nel concetto ripreso da Platone nel Gorgia con le seguenti parole: “Di tutte le ricerche la più bella è proprio questa: indagare quale debba essere l’uomo, cosa l’uomo debba fare”. Ecco perché è importante capire quale sia il giusto metodo con cui rapportarsi alla realtà, per comportarsi virtuosamente e raggiungere la felicità.

Socrate sbagliava

L’uomo, inconsciamente, cerca, sempre e comunque, la felicità. Chi riesce a capire che essa si trova solamente facendo del bene, riuscirà a raggiungerla. Chi non avrà abbastanza ragione da capirlo, commetterà il male senza mai essere felice.
Questo è, riassunto, il pensiero di Socrate, filosofo del V secolo prima di Cristo.
Colui che non sa, colui che ignora, commette quindi crimini involontariamente, solo a causa dell’ignoranza, credendo di agire nel bene. Questo pensiero porta a dire che sia meglio subire un’ingiustizia piuttosto che commetterla.
Nonostante il pensiero di Socrate non abbia nulla a che vedere con la dottrina cristiana, a mio parere si ritrova una delle più celebri frasi del cristianesimo: “porgi l’altra guancia”. Invece di commettere ingiustizie, sopportane una tu.
Ma com’è possibile pensare ciò nel XXI secolo, fatto di violenza, cattiveria ed egoismo? Dove chi porge l’altra guancia sa che c’è una grande probabilità che venga colpito una seconda volta.
Se è vero che la cattiveria nasce dall’ignoranza, il mondo oggi sarebbe un “se potrei” verbo congiuntivo.
La gente è cattiva non perché è ignorante, ma semplicemente perché fare del male è più semplice che fare del bene. Perché chi fa del bene non viene ripagato, perché la voglia di essere più forti, più degli altri, porta alla violenza.
O per “farla pagare”. Nel mondo di oggi, la frase giusta sarebbe “occhio per occhio, dente per dente”, non “porgi l’altra guancia”.
Probabilmente non si potrebbe nemmeno chiedere a una madre che ha perso un figlio di non augurare il peggio alla persona che le ha portato via per sempre il suo bambino, o di non metterlo in atto quel peggio se ne avesse la possibilità.
La domanda che resta è: chi commette ingiustizie, reati, chi commette del male, è felice?
Se si pensa ai grandi dittatori della storia, quali Hitler o Stalin, credo che la risposta sia si. Il loro sogno era sconfiggere il più debole, e più ebrei morivano, più Hitler era felice.
Chi vince una guerra, nonostante abbia causato milioni di morti in molti casi, è felice. Felice di aver ottenuto ciò che voleva.
Il male nasce dall’egoismo. Dal non saper condividere con gli altri, dall’ossessione del potere.
Socrate sbagliava: chi è cattivo, malvagio, è consapevole di farlo. Agisce consapevolmente. Qualcuno lo farà anche perché nessuno gli ha mai insegnato a fare diversamente, ma molti dei “cattivi” lo fanno per interessi personale, scegliendo quindi di farlo.

Chi sa di non sapere può mettersi alla ricerca della verità. Ma come trovarla?

Secondo Socrate la ricerca della verità può avvenire solo se non si sopravvaluta il proprio sapere e se si ammette la propria ignoranza. In effetti solo chi è consapevole di non sapere può imparare qualcosa, e chi, invece, contrariamente all’ignorante, presume di sapere, non solo non potrà imparare (perché già sa, o meglio, crede di sapere), ma non rifletterà, se non per cercare conferme a quanto crede, e assumerà inevitabilmente una posizione immobile, tra una presunta conoscenza della verità e la verità stessa, che non raggiungerà mai perché fermo in una situazione immutabile.

Ora mi chiedo: si può raggiungere la verità?
La si può certamente cercare, ma secondo chi o cosa, la presunta verità raggiunta è la verità “vera”? E poi, al momento del raggiungimento di ciò che si ritiene verità, si può affermare di aver finalmente concluso la ricerca? O ci si trova nella situazione iniziale, in cui si crede di sapere e quindi non si sa?

Per Socrate la verità si trova solo nel dialogo. Il filosofo, infatti, grazie alle sue domande, dimostra l’ignoranza dell’interlocutore, lo purifica dall’errore perché sia disposto a cercare la verità. Da quel che ho capito, Socrate desidera un ampio confronto per rendere così più complete le risposte. Grazie alla confutazione ed alla maieutica, indica il percorso per giungere alla verità. Eppure, non sono convinta. Qual è il criterio per stabilire se abbiamo, finalmente, raggiunto la verità o soltanto crediamo di averla raggiunta? Socrate non si esprime al riguardo.

Così siamo tornati al punto di partenza e per procedere si suppone di non sapere, in modo da poter riprendere la ricerca della verità. Ma quando questa avrà una fine? O meglio, avrà mai una fine?

La schiavitù dell’animo

Socrate, Museo del Louvre
Socrate, Museo del Louvre

“L’ignoranza fa giustamente chiamare schiavi gli uomini”: con questa frase, riportata nei Memorabili di Senofonte, Socrate secondo me non vuole alludere alla schiavitù in senso stretto, ma ad una schiavitù diversa, una schiavitù dell’animo, come del resto non vuole alludere all’ignoranza del povero analfabeta.

L’ignoranza a cui Socrate fa cenno ha infatti origine dal non conoscere se stessi. C’è da sottolineare però che, seppur la conoscenza sia ovviamente preferibile all’ignoranza, non è possibile arrivare ad una piena e vera conoscenza di noi stessi e della verità: la parte conscia dell’uomo, dice Sigmund Freud, è solo la punta dell’iceberg che emerge dal mare. Quella, seppur piccola, conoscenza che raggiugiamo è però molto importante: ci permette infatti di fare una distinzione su ciò che è Bene e cio che è Male. Bisogna tuttavia rammentare che questa “porzione di verità” che abbiamo faticosamente raggiunto va poi discussa con le altre persone attraverso il dialogo, l’unico strumento per avvalorare e trovare i punti critici del ragionamento. Gli uomini possono quindi essere depositari della verità, ma non da soli. Gli uomini “ignoranti” invece, che non hanno una sufficiente conoscenza della verità che risiede in loro, sono più portati a compiere il Male, proprio perchè non sanno che cosa esso sia. Ma l’ignoranza rende questi ultimi, oltre che malvagi, anche schiavi?

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Socrate: fastidioso tafano o amorevole levatrice?

Giornata soleggiata. Leggera brezza. Sei immerso nel verde di un meraviglioso giardino, all’ombra di un albero. Tutto è tranquillo. Ma ecco che questa tua serenità finisce: in agguato c’è il fastidioso insetto di turno, che arriva all’improvviso e inizia a ronzarti intorno e a punzecchiarti. Tu non stavi facendo niente di male, cercavi solo un po’ di calma, e invece ora sei di nuovo “sveglio”, tornato alla realtà.

Questo per farvi capire come si sentivano gli abitanti dell’antica Atene quando, girovagando per la città, godendosi una tranquilla passeggiata, si imbattevano in Socrate. Questo (filosofo del V secolo a.C.) era considerato una vera scocciatura per gli ateniesi, a tal punto da meritarsi l’appellativo di tafano, in quanto riusciva a “smuovere” ogni cittadino, lo punzecchiava per stimolarlo. Ma veramente Socrate era così seccante, così irritante, così sgradevole?

La filosofia, a partire da Socrate, muta radicalmente: abbandona lo scenario della natura e inizia a concentrarsi più sull’uomo e sui suoi problemi, che possono essere di carattere morale, religioso, politico, ecc. Infatti Socrate fu, con tutta probabilità, il primo  filosofo a vedere la natura dell’uomo espressa nella sua coscienza e nella sua visione interiore. Sulla base di questa convinzione, egli passò tutta la sua vita a interrogare ed esaminare la gente, sia per far comprendere loro l’importanza di questa dimensione interiore, sia per far si che essi si migliorassero attraverso la conoscenza. Già, perché per Socrate l’obiettivo di ogni uomo è essere felice, e la felicità si raggiunge solo facendo il bene. Ma come si può distinguere il bene dal male? Lui ne era sicuro: grazie alla conoscenza, attraverso il sapere. Ma come posso arricchire la mia anima di sapere? Come posso fare chiarezza dentro di me? Semplice: con il dialogo, con il confronto, attraverso la “fecondazione” con un’altra anima. Così, Socrate andava in giro interrogando su qualsiasi questione i suoi interlocutori, che nella maggior parte dei casi credevano di sapere tutto dell’argomento; ma egli, dichiarandosi tuttavia ignorante, riusciva sempre a confutare le loro ipotesi. Poi, grazie all’arte della maieutica, ossia l’arte della levatrice, come sua madre aveva aiutato le gestanti a partorire, allo stesso modo Socrate si comportava con l’anima dei suoi interlocutori, aiutandoli a “partorire” non bambini, ma pensieri e discorsi. Il suo intento era stimolare le menti, attivarle, renderle fruttuose, smuoverle dalla convinzione di sapere, invogliarle ad avvicinarsi quanto più possibile alla verità.

Allora, dopo aver detto tutto ciò, secondo me, Socrate è più definibile non come un fastidioso tafano, ma come una dolce levatrice, a cui, alla fine del suo lavoro, bisogna dire grazie. Grazie per averci aiutato a “partorire” ciò che è dentro di noi; grazie per il contributo a migliorare la nostra anima.

E voi cosa ne pensate?

L’uomo secondo Socrate: “misura di tutte le cose”?

Socrate
Socrate, particolare della Scuola di Atene di Raffaello Sanzio

Il sofista Protagora è ricordato soprattutto per una massima che sembra riassumere tutto il suo pensiero: «l’uomo è misura di tutte le cose». Possiamo affermare che anche per Socrate è così, ma il pensiero socratico è tutt’altro che in accordo con quello sofista.
Perché?
La risposta ruota attorno al diverso significato che si attribuisce al termine uomo. Protagora, dice Platone, ha una visione relativista della realtà e con il termine uomo intende il singolo individuo. E allora non esistono più né un vero né un falso, perché ogni uomo ha una propria visione del mondo e ciò che appare giusto a qualcuno può essere sbagliato per qualcun altro.
Socrate invece, il cui merito è proprio quello di aver rivoluzionato la filosofia legandola a problemi etici e alla cura dell’anima, non potrebbe mai negare la presenza di un criterio oggettivo di giustizia o di verità. Con uomo egli intende il genere umano, l’umanità intera.
Per Socrate solo l’uomo può giudicare ciò che è creato dall’uomo stesso, e ciò che non lo riguarda non dovrebbe interessarlo. In effetti quando affermiamo un concetto o esprimiamo un’opinione l’unico punto di vista che possiamo utilizzare è quello umano. E quale altrimenti?
Non siamo in grado di immaginare ciò che va oltre la nostra realtà e per questo cerchiamo di attribuirgli caratteristiche umane. È questo il motivo per cui ci è impossibile tentare di comprendere chi sia Dio e che sembianze abbia e per questo non siamo capaci di immaginare il nulla. Parallelamente ciò vuol dire anche, come scrisse il poeta latino Terenzio che «se sono un essere umano, nulla di ciò che è umano può apparirmi estraneo». L’uomo infatti secondo Socrate deve sempre andare alla ricerca della verità e ciò non è davvero possibile se non si vive in relazione con altri esseri umani. Solo attraverso il dialogo e il confronto con gli altri è possibile la confutazione delle nostre idee e quindi un arricchimento della conoscenza. Ma quella che egli chiama dialettica non è utile solo al fine della confutazione e al raggiungimento della verità. Socrate afferma infatti che «nessuno compie di male volontariamente, ma solo per ignoranza». Questo vuole forse dire che l’uomo è naturalmente incline al bene? Sarebbe impossibile affermare una cosa simile: basta basarci sull’esperienza. Ma l’affermazione di Socrate si basa su un fatto: l’uomo è naturalmente incline alla felicità che nasce dal compiere il bene.
Chi compie il male dunque semplicemente non sa cosa sia il bene. E come è possibile sapere cosa sia il bene? Semplice, il bene è ciò che ci rende felici. E come facciamo a sapere ciò che realmente ci rende felici? Conoscendo noi stessi. È proprio questa l’altra utilità del dialogo con gli altri, la conoscenza di noi stessi. Anche se è vero che Socrate non prende in esame quelli che sono gli aspetti emotivi dell’uomo, attraverso cui la ragione può essere offuscata, io credo che se una persona riuscisse davvero a capire cosa desidera, la ragione e i sentimenti allora riuscirebbero a convivere pacificamente. Anche perché in fondo, si può davvero parlare di una netta distinzione tra i due all’interno dell’essere umano?