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Disegnare il mondo di…Gogi

“Gogi” con la sua disegnatrice, Nigar Nazar

Quante volte abbiamo sentito guardando in tv eloquentissimi comici cimentarsi in monologhi basati su stereotipi e luoghi comuni che hanno la capacità di rendere un banale accaduto in un episodio divertente? Personalmente molte. Quante volte dopo aver riso però abbiamo riflettuto su ciò che abbiamo sentito dire? Poche. A quanto pare invece è un ottimo mezzo per esprimere concetti non sempre condivisibili soprattutto se si vive in un paese poco aperto alla libertà di stampa e di pensiero.

Non sto presentando un affermato comico, ma una disegnatrice pakistana di nome Nigar Lazar. Il suoi mezzi di comunicazione sono carta e penna a china e il risultato finale si chiama “Gogi“, personaggio femminile estremamente brillante amato dai grandi ma soprattutto dai piccini, grazie alla sua ampia diffusione sulla tv pakistana.

Nelle vignette Gogi mette in luce situazioni mondane che lettori sbadati potrebbero intendere finalizzate solamente a far sorridere, ma, come spiega Nigar, “lo scopo principale è far cogliere alle persone ciò che accade con un occhio critico, l’ironia è solo il mezzo per facilitare la comprensione del concetto che vorrei trasmettere”.

Per Nigar non è sempre facile trattare alcuni argomenti, come ad esempio la religione o la politica (tanto che non sempre le sue vignette sono pubblicate dai media locali), ma la disegnatrice è sempre stata brava a non eccedere nell’essere controcorrente, ottenendo comunque grandi risultati per la sensibilizzazione al riconoscimento dei diritti delle donne in oriente, come ad esempio il diritto all’educazione scolastica per le bambine. Nigar infatti sa quanto sia importante una corretta formazione culturale, malgrado abbia lasciato l’università di medicina anzitempo, poichè quella facoltà non la realizzava a pieno.

Ma grazie a questa presa di coscienza ha capito che non poteva vivere senza disegnare e che gli scarabocchi che lasciava sui bordi dei libri di anatomia un giorno sarebbero diventati famosi non solo agli occhi dei suoi compagni.

Sfido chiunque a trovare un’arma più semplice e funzionale di un disegno per avviare un processo di cambiamento lento ma efficace, perchè oggi Nigar grazie a Gogi rallegra la giornata di milioni di bambini e ragazzi in tutti i paesi del medio oriente, ma un domani saranno proprio quei bambini a dettare il cambiamento. E non dobbiamo ringraziare abili pionieri di guerra se un cambiamento ci sarà, ma l’essenza che ognuno di noi trasmette ad un movimento inciso su una superficie: un disegno.

Riccardo Sisinni

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La partita dei sessi

 

Billie Jean King vs Bobby Riggs

20 Settembre 1973 “King contro Riggs”. La più importante partita di tennis del mondo vede come protagonisti la paladina del movimento di liberazione della donna, Billie Jean King, contro Bobby Riggs, migliore giocatore del mondo negli anni ’40. Quest’ultimo dichiarò pubblicamente che la competizione femminile sarebbe stata inferiore a quella maschile e che qualunque uomo sarebbe riuscito a battare la miglior giocatrice del mondo, sifdando le migliori giocatrici del momento a dimostrare il contrario. La King accetta la sfida spinta dal desiderio di fare rispettare anche il tennis femminile; attraverso un gioco di attacco è riuscita a vincere. Questo incontro è ricordato come “la battaglia dei sessi”. Gia in precedenza la King aveva lottato per il genere femminile muovendo delle proteste contro la USTA (United States Tennis Associtation) attraverso conferenze stampa criticando il riconoscimento economico, da parte delle associazioni, per le donne rispetto a quello degli uomini. Nel 1974 la King assieme a delle colleghe fonda la Women’s Sports Foundation che promuove borse di studio per le ragazze sportive, affinchè possano coltivare i loro sogni. Nel 2014 ha chiesto alla FIFA di garantire dei campi di erba alle giocatrici di calcio per il mondiale del 2015. Billie inoltre fu una delle prime giocatrici a fare coming out, dichiarando apertamente la propria omesessualità. Ella inoltre fece parte della delegazione che rappresentò gli Stati Uniti alle olimpiadi invernali di Sochi nel Febbraio del 2014 per lottare per protestare contro le leggi anti-gay di Putin.

Billie Jean King è una “cattiva ragazza” poichè si oppose a ciò che per i suoi tempi sembravano la normalità.

Omar Al-Sabbagh

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Musulmani e cristiani: un’unica comunità

Né la razza, né la religione, né il sesso permetteranno di deviare da un gran obiettivo

 

Ibtihaj Muhammad ne è la prova e vive per dimostrare sulla propria pelle tale frase: vive per realizzare il suo sogno di diventare la miglior schermista, nonostante gli stereotipi sulla sua comunità musulmana.

“La scherma mi ha insegnato tanto di me stessa e quello che sono capace di fare. Voglio essere un esempio per minoranze e giovani musulmani, insegnando che tutto è possibile con la perseveranza. Voglio che sappiano che nulla deve mai impedirgli di raggiungere i loro obiettivi: né la razza, né la religione, né il sesso”

Sebbene fosse amante degli sport, non trovava nessuna attività adatta a sé, poiché voleva conciliare la sua religione.

Così conobbe la scherma, disciplina sportiva sia conforme alle norme della religione musulmana, in quanto le permetteva di indossare il velo sotto la maschera bianca, sia libera da disagi, poiché non si sentiva più fuori posto tra i suoi compagni di squadra.

Lo sport scelto le permise di diventare un tassello per il miglioramento della condizione della sua comunità islamica.

Combatté e superò situazioni di incomodità, imbarazzo e inferiorità, assiduamente vigenti nel corso sua vita e non solo. Fu sospettata di terrorismo, vittima di stalker, destinataria di denunce irrazionali e pregiudiziali in quanto musulmana. Non era l’unica.

Gli stereotipi sono un ostacolo da superare. L’America, avendo come presidente Trump, è condizionata dai suoi pensieri che hanno il proposito di “proteggere” il paese, separandolo anche dagli islamici. Ibtihaj vuole invece dimostrare che la sua comunità non è affatto un pericolo o degrado per la società statunitense, bensì le può apportare benefici, persino in campo sportivo.

Muhammad Ibtihaj riuscì ad affermarsi di fatto nel 2016 come la prima donna musulmana a rappresentare gli Stati Uniti nelle Olimpiadi, indossando l’hijab, velo tradizionale delle donne di fede musulmana, ma anche come la prima donna islamica che vinse la medaglia di bronzo nella gara a squadre di sciabola femminile ai “Summer Games” di Rio.

Grazie alla sua presenza alle Olimpiadi, ebbe l’opportunità di parlare a nome di chi non ha voce a un vasto pubblico, diffondendo il suo punto di vista.

La sua determinazione nella lotta contro gli stereotipi, ci permette di inserirla nel gruppo delle “cattive ragazze”, poiché, come afferma con pertinacia in prima persona, “io voglio rompere le norme culturali. Un sacco di gente crede che le donne musulmane non abbiano voce o che non possano partecipare agli sport. E non si tratta solo di sfidare pregiudizi al di fuori della comunità musulmana ma soprattutto all’interno di essa”. Aggiunse inoltre: “Devo contestare questa idea che in qualche modo noi (musulmani) non apparteniamo agli Stati Uniti a causa della nostra razza o della nostra religione. Voglio che la gente sappia che faccio parte della comunità”.

Pertanto è ritenuta “cattiva ragazza” in quanto rappresenta un’ icona alla lotta contro razzismo e discriminazione, sottolineando che non vi è alcun motivo per non essere considerati americani e musulmani al contempo.

 

Stacy Villa

 

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Una guerriera contro la mutilazione

Nice Nailantei Leng’ete

«Non voglio essere tagliata. Io voglio studiare, non mi interessa il matrimonio», queste sono le parole che sono state pronunciate all’età di 9 anni da Nice Nailantei Leng’ete, una guerriera masai che vive in un villaggio in Kenya alle pendici dell’imponente monte Kilimangiaro.

Nice come tutte le bambine del suo villaggio giocava, studiava e andava a scuola, ed è proprio nell’ambiente scolastico che viene a conoscenza, per “voci di corridoio”, del terribile e temibile rito di passaggio che doveva compiere ogni bambina per poter diventare una donna adulta. Tale rito consiste nella mutilazione dei genitali con l’ablazione totale o parziale del clitoride. La pericolosità del rito, però, nasce dal modo con cui viene praticata la mutilazione, cioè, in assenza di un medico e, nella gran parte dei casi, anche distanti ore da un ospedale, con la possibilità che la mutilata possa morire dissanguata o a causa di infezioni che si sviluppano successivamente.

Nice il giorno in cui avrebbe dovuto subire quel rito barbaro, terrorizzata dai racconti, decise, insieme a sua sorella, di scappare dal nonno per poter evitare la mutilazione. Una volta giunte dal nonno, che oltretutto era uno dei capi tribù, Nice riuscì a convincerlo di farle proseguire gli studi e non essere mutilata; sua sorella, invece, non riuscì a scampare al rito e venne mutilata come tutte le altre bimbe del villaggio.

Da quel fatidico giorno, Nice era diventata una “cattiva ragazza”. Da quel giorno, infatti, iniziò a lottare contro le mutilazioni genitali e grazie al supporto di Amref, la più grande organizzazione sanitaria no profit presente in Africa, dal 2009 è riuscita a salvare più di 10.500 bambine da questa atrocità.

Gruppo di ragazze che stanno compiendo il rito alternativo

Nice, però, dovette affrontare un altro problema: con cosa sostituire il tradizionale rito di passaggio? A mio parere ha preso la decisione più opportuna che si potesse prendere: sostituire il rito tradizionale con una altro rito privo di sofferenze e lacrime.

Il rito alternativo unisce parte della cerimonia tradizionale con l’educazione alla salute sessuale e all’istruzione delle future donne e coinvolge le figure chiave delle tribù: gli anziani, le madri e i giovani guerrieri Moran. Oggi centinaia di bambine giungono al villaggio di Nice per potersi sottoporre al rito alternativo.

Nice è una donna straordinaria che è stata capace di opporsi alle regole e cambiare il mondo in meglio, ogni giorno, passo dopo passo.

Marco Canitano

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“Nera, bassa e formosa”

Io adoro il ballo, perciò non potevo che scegliere Misty Copeland come cattiva ragazza. Ma si può veramente definire una “cattiva ragazza” una persona che insegue i propri sogni?

“unfortunatly you have not been accepted… at thirteen you are too old to be considered” queste furono le parole che ricevette Misty Copeland dalla prestigiosa American Ballet Theatre.

Misty Copeland  lottò sia con le difficoltà dovute al colore della pelle sia con il suo corpo fuori dai canoni. Aveva 13 anni quando provò ad entrare nella scuola di ballo, ma era considerata troppo grande per intraprendere un futuro da ballerina. “Nera, bassa e formosa”, sentiva ripetersi, non aveva i piedi giusti per stare sulle punte, era troppo muscolosa e aveva il petto troppo largo : non aveva il corpo per diventare una ballerina classica. La madre, a causa delle condizioni economiche, aveva deciso che non poteva permettersi di mantenerla a scuola e quindi le aveva comunicato che avrebbe dovuto lasciare il sogno del palcoscenico. “Mia madre è sempre stata chiara nel dirmi che sono una ragazza nera” dice misty in un’intervista “e che come tale sarei stata considerata”.

Misty Copeland non si fermò solo alle parole o offese, il suo unico obiettivo era realizzare il suo sogno e  in lei si è scatenata “ la rabbia di spingersi oltre”.

A 17 anni finalmente fu  accettata dall’American Ballet Theatre, ma non immaginava che sarebbe stata l’unica donna nera lì dentro.

Nonostante i pregiudizi iniziali, Misty scelse di inseguire i suoi sogni, disobbedendo alla madre, ignorando gli insulti e le considerazioni sul suo corpo e sulla sua pelle, solo così, comportandosi da “cattiva ragazza”,  raggiunse il suo obiettivo! Ma Misty ribadisce “Credo che ci voglia più diversità in tutti gli ambiti, sul palco, tra il pubblico, nella direzione, e che le nuove generazioni vadano sollecitate in questo senso. il razzismo è una piaga che forse non verrà mai debellata”. Misty è diventata l’esempio da seguire per tutte le ragazze afroamericane e non che vogliono raggiungere il proprio sogno, qualunque esso sia.

Laura Faiella

 

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Un mondo in continuo cambiamento

Ci troviamo in un mondo in cui le donne non hanno le stesse possibilità in ambito lavorativo e sociali di un uomo, nonostante l’epoca in cui siamo dovrebbe permettere lo sviluppo di una mentalità più aperta nei confronti delle donne permettendo di avere la parità dei sessi, tenendo conto di ciò che è successo nella storia, di donne che hanno cercato di farsi valere per cambiare la loro condizione e che molto spesso ci sono riuscite. Ma come si può vedere da diversi esempi, ci sono ragazze e donne che solo recentemente per la prima volta riescono ad ottenere le stesse cariche, lavori, possibilità degli uomini. Una dei personaggi che voglio presentare in questo articolo, come donna che è riuscita a raggiungere un traguardo mai raggiunto da nessun’altra è Fabiola Gianotti.

Fabiola Gianotti è una fisica nata il 29 ottobre 1960 a Roma. Studia a Milano al liceo classico, dove grazie alla lettura della biografia di Marie Curie, una scienziata, si appassionò alla fisica.

É stata una scienziata, Marie Curie, a ispirarmi e influenzarmi nella scelta di studiare fisica.”

 

Così si iscrisse alla facoltà di fisica. E grazie alle sua grandi aspirazioni e alla sua determinazione riesce nel 1987 ad entrare al CERN di Ginevra (organizzazione europea per la ricerca nucleare) contribuendo a diversi esperimenti. L’esperimento più importante a cui prende parte è l’Atlas, a cui migliaia di fisici partecipano e ne diventa coordinatrice.

Non abbandonare mai i tuoi sogni. Potresti rimpiangerlo per il resto dei tuoi giorni.”

 

È una donna che ha saputo valorizzarsi in un ambiente prevalentemente maschile; poche donne tendono a diventare scienziate e fisiche poiché poco incentivate dalla società in cui viviamo. Gianotti però non è una di quelle, anzi per i suoi meriti viene addirittura inserita nella rivistaTime”e nella rivista “Forbes”tra le cento donne più potenti al mondo.

La svolta decisiva nella sua vita sia come donna che come fisica si ebbe nel 2014, quando viene scelta per la carica di direttore generale, è la prima donna nella storia a cui viene assegnato un incarico del genere. Dopo 60 anni il CERN è guidato da una donna. È proprio questo quello che riuscì a raggiungere Fabiola Gianotti, un posto fino ad allora destinato agli uomini. Come si può capire dalla sua vita, fu una donna che si contraddistinse per le sue spiccate doti nell’ambito della fisica e divenne una delle donne più influenti del tempo. Una donna che a poco a poco, passo dopo passo ha raggiunto lo stesso livello dell’uomo. Gianotti è una donna che è riuscita farsi vedere per quello che è, cioè prima di tutto un essere umano che ama la fisica e poi una donna. Si è dimostrata alla pari di un uomo, se non meglio in quanto diventata direttore generale del CERN. Questo è quello che sta accadendo nella società, sta cambiando in meglio facendo diventare a poco a poco il mondo un posto dove anche le donne possono avere le stesse opportunità degli uomini.

Continueremo a incoraggiare le giovani scienziate a impegnarsi nella ricerca, vigileremo perché abbiano sempre le stesse opportunità dei loro colleghi maschi.” 

Chiara Martini

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“La unica lucha que se pierde es la que se abandona” – Rigoberta Menchu Tum

 

                       “L’unica lotta che si perde è quella che si abbandona”.

 Le parole di Rigoberta Menchu , esprimono bene la tempra e il carattere di questa donna.. Rigoberta Menchu Tum fin da giovane ha lottato per ciò che ritiene giusto. E’ appunto,secondo me, una cattiva ragazza: si merita anche lei l’etichetta linguistica affibbiata alle donne che non sottostanno alle regole del loro paese, Rigoberta Menchu è una di loro.

                                                     

Siamo abituati ad una vita tranquilla noi studenti; scuola,compiti,amici. In molti paesi i nosrti coetanei non sono così fortunati. In Guatemala, negli anni 60,la vita riservava molte sorprese. Nelle fincas del Guatemala la vita era molto dura ed il padre di Rigoberta, un uomo forte,si batteva come guida (l’eletto) della comunità contro i proprietari terrieri, i quali approfittando dell’analfabetismo degli indigeni, volevano togliere loro la terra. Le condizioni di lavoro degli indigeni provocavano molte malattie dovute agli sbalzi di temperatura tra l’altopiano e la costa . Rigoberta, all’età di cinque anni, vide morire davanti a se i suoi fratelli e successivamente sua madre. Ciò suscitò in lei la volontà di riscattare se stessa e l’ intero popolo. Nel 1977 entrò a far parte clandestinamente di un’organizzazione, il CUC (Comitato di Unità Contadina), in cui gli indigeni si battevano contro i proprietari terrieri e chiedevano un aumento del salario nelle fincas, avviò molte battaglie per le dignità del suo popolo, finché nel 1992 ricevette il premio Nobel per la pace,diventando anche ambasciatrice dell’ONU.

Lei ha sempre creduto nel cambiamento delle condizioni di vita e di lavoro e nel rispetto per i diritti delle popolazioni indigene. Negli anni della lotta la sua determinazione divenne famosa in tutta Europa e furono molti i parlamentari italiani e europei, docenti universitari e numerosi giornalisti che la sostennero.

Ancora Rigoberta Menchu lotta per i diritti del suo popolo:

MI TIERRA

[…] Tierra mía, madre de mis abuelos,            

         Il mio paese, la madre dei miei nonni,             

 quisiera acariciar tu belleza,                                      

         vorrei accarezzare la tua bellezza

contemplar tu serenidad                                                              

       contemplare la tua serenità

acompañar tu silencio.                                                                     

      e accompagnare il tuo silenzio.

Quisiera calmar tu dolor,                                                               

      Vorrei lenire il tuo dolore,

llorar tu lágrima al ver                                                                

       piangere le tue lacrime a vedere

tus hijos dispersos por el mundo,                                                      

       i tuoi figli sparsi in tutto il mondo

regateando posada en tierras                                                      

       mercanteggiare terre lontane

lejanas sin alegría, sin paz,                                                           

     senza gioia, senza pace,

sin madre, sin nada.                                                                           

    senza madre, senza nulla. 

 

Una mujer con imaginación es una mujer que no sólo sabe proyectar la vida de una familia, la de una sociedad, sino también el futuro de un milenio.

Una donna con l’immaginazione è una donna che non solo sa come pianificare la vita di una famiglia, di una società, ma anche il futuro di un millennio.

 

Lisa Orsini

I regolamenti possono fermare la determinazione di un’atleta?

Inizio della maratona

Kathrine Switzer: una ragazza che non si arrese mai

“Nella vita ho avuto fortuna. I miei genitori ed Arnie mi hanno sempre detto che potevo fare qualsiasi cosa. Come donna non mi sono mai accontentata di giocare con le bambole o fare solo la cheerleader. Sì, mi piaceva giocare con le bambole od indossare bei vestiti, ma mi divertivo anche ad arrampicarmi sugli alberi e a fare sport. Dopo la mia esperienza a Boston, capii che vi erano milioni di donne al mondo che erano cresciute senza credere di poter superare i limiti a loro imposti. Volevo fare qualcosa per migliorare le loro vite. Ciò di cui abbiamo bisogno è il coraggio di credere in noi stesse ed andare avanti passo dopo passo.”: le parole di Kathrine Switzer sicuramente la collocano tra le cattive ragazze.

Fin da bambina ha amato lo sport, tanto che quando ha avuto l’età adatta anziché diventare una cheerleader ha scelto di diventare un’atleta. Il primo sport è stato l’hockey su prato, uno sport poco apprezzato al college, perciò decise di dedicarsi all’atletica; eppure anche in questo ambito ebbe difficoltà ad emergere perché negli anni sessanta le corse erano riservate unicamente agli uomini , inoltre la sua presenza nella squadra non era accettata dalla mentalità conservatrice della Virginia. Nel 1966 però avvenne una svolta nella sua vita poiché conobbe Arnie Briggs, il postino dell’università che aveva partecipato alla maratona di Boston per ben quindici edizioni e che divenne il suo mentore. A lui svelò il desiderio di partecipare alla maratona, un progetto per cui si era allenata tenacemente anche nelle fredde giornate d’inverno. Arnie rimase colpito dal progetto ardimentoso, le donne non potevano prendere parte alla maratona. Il postino decise di supportarla, non solo allenandola all’impegno ma anche esortandola a prenderne parte in maniera ufficiale, iscrivendosi alla corsa. Insieme escogitarono un modo per aggirare la burocrazia, iscrivendo Kathrine a nome K.H. Switzer, un nome anonimo che non avrebbe destato sospetti.

Qualche sera prima della gara Kathrine espose il suo obiettivo al fidanzato, Tom Miller, suscitando a lui molta ilarità, tant’è che sostenne che se lei ce l’avesse fatta anche lui ne avrebbe preso parte, d’altronde anch’egli era un atleta seppur di lancio del martello. La corsa proseguì senza intoppi per i primi chilometri di gara, grazie anche alla collaborazione sportiva degli altri partecipanti, finché il direttore di gara si accorse della presenza di un’atleta donna a causa dello scompiglio creato dai fotografi.

John Semple cerca di strattonare e fermare Kathrine

Malgrado i tentativi di fermarla, Kathrine giunse al traguardo grazie all’aiuto del suo stesso fidanzato, che la protesse durante il corso della gara. Ovviamente Kathrine non fu inserita nella classifica finale, ma questo fu un motivo di lotta e negli anni successivi cercò di cambiare il regolamento della associazione affinché comprendesse anche le donne alla maratona.

Nel 1972 Kathrine vinse la sua battaglia, così le donne furono ammesse alla Boston Marathon. Successivamente si dedicò alla sua attività giornalistica promuovendo lo sport, partecipò ancora alla maratona vincendola nel 1974. Grazie alla sua determinazione ed alla sua tenacia,è riuscita a cambiare il regolamento ottuso della corsa in un’opportunità per tutti.

 

 

Davide Fioletti

Kathrine alla Women’s Marathon con il “suo” numero 261

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Una “cattiva ragazza” eccezionale

 La prima volta che ho letto la storia di Oriana Fallaci mi ha ricordato molto quella di Nelly Bly, una giornalista statunitense, anche lei  inviata speciale nelle zone di guerra, e anche lei “ cattiva ragazza” per il solo fatto di essere una giornalista donna. Anche Oriana Fallaci può essere considerata una “cattiva ragazza” perché nonostante tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare nella sua vita, sia per il fatto stesso di essere una donna, sia per  il suo pensiero spesso anticonformista, è riuscita a portare avanti la sua passione di giornalista e scrittrice, andando anche in zone molto pericolose come il Vietnam durante la guerra, affermando le proprie idee senza nessuna censura e senza paura delle conseguenze diventando una scrittrice affermata e apprezzata da molti, a tal punto da riuscire con i suoi dodici libri a vendere  venti milioni di copie in tutto il mondo. “Cattive Ragazze” può sembrare un’ espressione negativa ma in realtà nasconde un significato più complesso, infatti, indica tutte quelle ragazze che per raggiungere i propri obiettivi (ottenere un diritto, un lavoro) hanno dovuto infrangere le regole dell’ epoca in cui vivevano e per questo motivo sono state soprannominate “cattive ragazze”. Tra le tante donne che sono state considerate in classe, io ho scelto Oriana Fallaci proprio per il suo carattere determinato nell’ affermare le proprie opinioni.

Come non definire “cattiva ragazza”una donna che dopo aver ottenuto un’intervista con Khomeini,   leader della rivoluzione iraniana del 1979, si tolse il chador impostole prima di accordare l’intervista, in un estremo atto di indipendenza e affermazione di identità. Davanti a tale gesto “l’ayatollah si alzò con uno scatto così svelto, così improvviso, che per un istante credetti d’esser stata investita da un colpo di vento. Poi, con un salto altrettanto felino, scavalcò il chador e sparì”.

Intraprese la carriera da giornalista subito dopo la scuola al “Mattino dell’Italia centrale, un quotidiano d’ ispirazione cristiana, dove si occupò di vari argomenti, tuttavia fu licenziata dal quotidiano quando si rifiutò di scrivere un articolo contro Palmiro Togliatti, come le era stato chiesto dal direttore. Oriana, perciò fin da giovane si dimostrò forte e tenace  nell’ imporre il proprio punto di vista. Nel 1961 realizzò un reportage sulla condizione della donna in Oriente ,che poi divenne il suo primo vero successo editoriale intitolato “Il sesso inutile”. Fu anche la prima donna italiana ad andare al fronte in qualità di inviata speciale, infatti, nel 1967 si recò come corrispondente di guerra per il quotidiano “L’Europeo” in Vietnam dove  raccontò sette anni di guerra, documentando menzogne e atrocità, ma anche eroismi e umanità di un conflitto che definì una “sanguinosa follia”. Nel 1975 la Fallaci e Panagulis, suo compagno di vita fino alla morte di lui, collaborarono alle indagini sulla morte di Pier Paolo Pasolini, amico della coppia e sarà proprio lei la prima a denunciare il movente politico dell’omicidio dell’ intellettuale. Anche la sua stessa storia d’amore con Panagulis leader dell’ opposizione greca al regime dei Colonnelli, segnò la sua vita; in lui Oriana vedeva un uomo con la “U maiuscola” che si era battuto per la verità, giustizia e libertà del suo paese e raccontò la sua storia  nel libro “Un uomo”. Durante i suoi ultimi anni di vita Oriana Fallaci scrisse un articolo, subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York, intitolato “La rabbia e l’orgoglio”, in cui oltre ad attaccare l’islam  accusa soprattutto  l‘Occidente di non aver saputo imporre la cultura occidentale su quella islamica. Nel 2006 Oriana Fallaci muore per un cancro ai polmoni, fu suo preciso desiderio morire nella città in cui era nata e , nonostante fosse atea, decise di donare gran parte del suo patrimonio librario e altri suoi oggetti alla Pontificia Università Lateranense di Roma, poiché il rettore Rino Fisichella era suo personale amico. Questa fu l’ultima contraddizione di una donna ricca di chiaroscuri.

“Essere donna è cosi affascinante, è un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida, che non finisce mai ”
(Oriana Fallaci)

Chiara Virzì

H.I.P. H.O.P.

Ho idee potenti, ho obbiettivi precisi

“You can take my falafel and hummus, but don’t fucking touch my keffiyeh”. Così inizia l’esibizione di Shadia a New York nel suo tradizionale abito lungo, Shadia Mansour, la giovane rapper ed MC inglese di origine araba che combatte per il riconoscimento dei diritti dei palestinesi attraverso la musica, l’Hip-Hop.

Shadia è la prima rapper donna araba, infatti è un membro della Arab League of Hip-Hop, ed una delle poche rapper donne che hanno avuto un successo internazionale – tra le altre  Lauryn Hill, leggenda del rap americano e prima donna rapper della storia-.

 

La rapper ed Mc Shadia Mansour

 

I testi di Shadia sono scritti sia in inglese che in arabo e parlano della situazione politica del medio oriente, si schierano apertamente contro l’occupazione, l’integralismo e gli stereotipi sulla donna sia nella società palestinese sia che nell’ambiente Hip-Hop. Ha ricevuto diverse intimidazioni per il suo essere così spregiudicata ed esplicita ma non si arrese, anzi disse invece: “My music sometimes sounds hostile. It’s my anger coming out and it’s resistance. It’s non-violent resistance.” ovvero che la sua musica a volte può sembrare ostile, è frutto della  rabbia che fuoriesce e diventa resistenza, resistenza non violenta, una “Intifada Musicale”

Shadia nasce a Londra nel 1985 da una coppia di cristiani palestinesi originari di Haifa e Nazareth ma rifugiati in Inghilterra, il legame con la sua terra però rimane vivo perché passa le estati della sua infanzia nelle città di origine dei genitori dai parenti tra cui l’attivista, attore, scrittore e regista Juliano Mer-Khamis ovvero suo cugino. È influenzata da musicisti arabi, perciò inizia a cantare sin da bambina partecipando alle manifestazioni e ai cortei di protesta dei Palestinesi e si fece conoscere nella comunità londinese dei Palestinesi..

Nel 2003 intraprende la carriera da rapper con il suo primo singolo: Al Kufiyyeh 3arabeyyeh (The Kufiyeh is Arab) con la partecipazione di M1 del duo newyorkese Dead Prez in cui usa il kufiyeh (il tipico copricapo arabo) come un segno di nazionalismo arabo. Il pezzo nacque alla scoperta di Shadia di un kufiya americano con i colori della Stars and Stripes e con le stelle di Davide, infatti la frase con cui introdusse questo pezzo durante i concerto di New York significa proprio “puoi prendere i miei falafel, il mio hummus ma non azzardarti a toccare il mio kufiyeh”

La rapper divenne in breve tempo conosciuta e rispettata dalle comunità Hip-Hop europee, arabe e americane e ottenne collaborazioni internazionali tra cui Johnny Rosado a.k.a. (also know as) Juice, il produttore dei leggendari Public Enemy.

Shadia tuttora viva e risiede a Londra anche se non ha più rilasciato pezzi dal 2008, anno in cui pubblicò il singolo “Kulun ‘Andun Dababat” (They All Have Tanks) assieme a Tamer e Suhell Nafar del collettivo Hip-Hop israeliano e Palestinese DAM.

Shadia è in tutto e per tutto una “cattiva ragazza”, contro corrente, non solo per il tipo di cultura di strada di cui è diventata parte attiva ma anche per i testi aggressivi e diretti che pochi altri al di fuori dell’ambiente Hip-Hop adottano.

Grazie alla sua musica è anche riuscita a creare un movimento per la liberazione della Palestina di cui fanno parte persone di tutto il mondo, un movimento senza nome ma molto forte.

E’ la prova vivente e concreta che questa musica e questa cultura “unisce gente a distanza di chilometri” (Esa, The industry don’t understand, 2004)

 Bimal Bellomi

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