Macerata: l’esempio di come il terrorismo nasca da pazzia e da incapacità politica

Le ultime settimane sono state tragiche per il nostro Belpaese, tra l’omicidio della giovane Pamela ed un attentato terroristico senza precedenti. Nello sfondo un odio crescente e scelte politiche errate.

Il 3 Febbraio 2018 è uno di quei giorni non facili da dimenticare, in cui la pazzia, dettata da un’adesione assoluta ad ideali razzisti ispirati dalla retorica nazista e fascista, si è incarnata direttamente nelle membra di un uomo, Luca Traini, armando le sue mani di una pistola e non di meno pericolose munizioni d’odio. Non lo chiamerò fascista, perché ai suoi occhi parrebbe un complimento e perché citando Giorgio Almirante, storico fondatore del Movimento Sociale Italiano, “nessuno potrà dare del fascista a chi è nato nel dopoguerra”; mi limiterò a definirlo un depravato xenofobo, razzista, ignorante, violento, nemico dell’ordine dello Stato, della legalità, della libertà, del nostro tricolore e con evidenti problemi mentali. Una persona ignobile che si è presa il lusso di ferire sei povere persone innocenti e di infangare la memoria dei Caduti, il dolore di una ragazza uccisa da un uomo che non avrebbe dovuto trovarsi nel territorio italiano, e la nostra Bandiera, il simbolo più rappresentativo ed iconico della nostra Patria. Sono gravissimi i messaggi di solidarietà arrivati a Traini, che non difendono assolutamente la nostra nazione, bensì la minacciano, per il semplice fatto che minacciano la fedeltà alle nostre istituzioni, che si dovrebbero attivare per preservare l’ordine e la giustizia, essi istigano all’anarchia, al vivere senza leggi, alla giustizia privata, ad un odio irrefrenabile. Queste persone inoltre deturpano in grave maniera gli ideali di Destra, che includono il rispetto per l’ordine, per la legalità, per la nostra identità nazionale e l’amore nei confronti della nostra Nazione, della nostra Patria, creando un’immagine rovinata, rozza di un pensiero politico nobile. Seppur le responsabilità del gesto siano imputabili unicamente a Traini, un’analisi accurata degli eventi e della situazione non nasconde però il fallimento di una politica che in questi anni non è riuscita ad affrontare in maniera adeguata i gravi problemi sociali inerenti alla crisi e l’ingente immigrazione. Continua la lettura di Macerata: l’esempio di come il terrorismo nasca da pazzia e da incapacità politica

Gli errori di Ridley Scott

Le Crociate (Kingdom of Heaven) – Errori storici

Balian è un maniscalco che ha perso la famiglia e che ha rischiato di perdere anche la fede. Le guerre di religione che sconvolgono la remota Terra Santa gli sembrano lontane anni luce. Ma il destino bussa alla porta di Balian sotto le spoglie di un grande cavaliere, Godfrey di Ibelin, un crociato che dopo aver combattuto nel lontano Oriente ha fatto momentaneamente ritorno in patria, in Francia. Dichiarando di essere suo padre, Godfrey mostrerà a Balian che cosa voglia dire essere un cavaliere e lo porterà con sé in un favoloso viaggio attraverso i continenti per giungere fino in Terra Santa.

La pellicola di Scott è quasi totalmente frutto di invenzione narrativa e quindi scarsamente basata su veridicità storiche: le uniche sono costituite dai racconti di Guglielmo di Tiro. Il regista inglese, infatti, non ha mai smentito il fatto di tenere poco alla veridicità storica e di preferire una reinterpretazione personale di una vicenda storica: la storia d’amore tra Baliano di Ibelin e la regina Sibilla, le stesse vicende biografiche dell’eroe sono infatti inventate.

Baliano era un signore maturo, non un giovane come mostrato nel film ed era un importante nobile, non un fabbro francese di certo; inoltre non ci sarà mai una storia d’amore (come nel film) tra Baliano e Sibilla, infatti egli sposerà Maria Comnena, vedova del re di Gerusalemme Amalrico I e sua matrigna. Tuttavia i due erano realmente uniti nella difesa di Gerusalemme. Riguardo invece al feudo di Baliano non si trattava di Ibelin ma di Nablus.

Altri personaggi poi vengono interpretati in modo molto personale dal regista. Saladino, anche se non è mai stato il feroce sultano dipinto in occidente, non era neppure un sovrano così riluttante alla guerra come nel film di Scott e certamente avrebbe fatto di tutto per riconquistare la città di Gerusalemme. Allo stesso modo Baldovino IV, il re lebbroso, aveva dimostrato come sovrano in primo luogo doti militari, mentre il regista ha amplificato un’iconografia da “re filosofo”; piccolo dettaglio è quello che, Baldovino IV, non indossò mai una maschera come invece è mostrato nel film. Il ritratto del film di Rinaldo di Châtillon come folle e ottuso non è supportato da fonti contemporanee, anche se le stesse fonti lo ritraggono come un inclemente, aggressivo signore della guerra che spesso violava le tregue tra il Regno di Gerusalemme e il Sultanato d’Egitto.

L’immagine del film di Guido che incoraggia Rinaldo di Châtillon ad attaccare i convogli di pellegrini musulmani diretti a La Mecca per provocare una guerra con Saladino è falsa. Guido era un re debole e indeciso che voleva evitare una guerra con Saladino e che era semplicemente incapace di controllare il temerario Rinaldo. La marcia fallita di Saladino su Kerak seguì l’incursione di Rinaldo sul Mar Rosso, che scioccò il mondo musulmano dalla sua vicinanza alle città sacre della Mecca e Medina. Guido e Rinaldo hanno anche molestato carovane e pastori musulmani, e l’affermazione che Rinaldo catturasse la sorella di Saladino si basa sul racconto dato nell’antica continuazione francese di Guglielmo di Tiro. Questa affermazione è generalmente ritenuta falsa. In realtà, dopo l’attacco di Rinaldo su una carovana, Saladino si assicurò che la prossima, nella quale viaggiava sua sorella, fosse adeguatamente sorvegliata e la donna non ebbe alcun danno.

Altri piccoli dettagli sono dati da imprecisioni storiche quali: il termine “crociate”, introdotto solo nel quattrocento; la lingua italiana (citata nel film) che ancora non esisteva al tempo della vicenda; la “mezzaluna” come stemma dell’esercito musulmano, infatti la “mezzaluna” verrà introdotta soltanto nel 1453 dai turchi.

Infine, il luogo reale della battaglia di Hattin non è la pianura desertica illustrata nel film, ma una regione collinosa ricca di boschi situata presso il lago di Tiberiade.

A parte le differenze storiche, Scott dipinge un monumentale e fantasioso affresco della Palestina del XII secolo, nel quale si ritrovano una fotografia e un’illuminazione molto ricercate, una regia talvolta imponente e tutta la grandezza del cinema bellico di Hollywood. Con un efficace dispiego di mezzi ed effetti speciali, il film non manca di sequenze spettacolari (l’attacco a Gerusalemme e tutta la battaglia finale), anche se, come già detto, alla cronaca dei fatti si preferisce una parabola più romanzata, dove la giustizia e la rettitudine sconfiggono l’avarizia e la malvagità.

Parere di F. Cardini sul film…

«Ridley Scott non è certo Bergman, non riesce a esprimere il succo storico delle cose. Il suo film risente molto delle allusioni un po’ stucchevoli allo scontro di civiltà in atto e del messaggio di convivenza, del dialogo, della tolleranza da dare agli spettatori. Va benissimo: il biglietto lo paga la gente del ventunesimo secolo, non del dodicesimo. Però, ripeto, la storia delle crociate è un’altra cosa. A cominciare dal termine stesso. Nel film i crociati si chiamano con questo nome. In realtà questa parola è stata introdotta dopo il Quattrocento».

Nonostante non abbia apprezzato il film, alla domanda:

“Lo ritiene un film da bocciare?”

ha risposto:

 «Non ho detto questo. Tutto ciò non significa che il film non sia valido dal punto di vista cinematografico. Ci sono, ad esempio, reminiscenze del Settimo sigillo di Bergman. Il film di quel genio di Bergman è un capolavoro, uno dei pochissimi film in cui lo spirito della crociata si coglie sul serio. Ma con Le crociate la storia non c’entra, è un’altra cosa. Questo film è l’ennesimo malinteso in cui sembra confluire tutto: il conflitto di civiltà, l’Islam, l’Occidente eccetera. Questo gioco di bussolotti abbastanza ridicolo in cui i crociati e i cristiani vengono presentati come gente che al loro interno ha i falchi e le colombe, quelli che vogliono lo scontro di civiltà e quelli che vogliono la convivenza. Tutto questo è ridicolo».

…Il nostro parere

Il film si presenta come lento e leggermente confuso all’inizio, evolve poi in una serie di avvenimenti fondamentali per lo svolgimento della storia che accelerano molto il ritmo narrativo. Il finale è inaspettato e quasi aperto, come del resto in molti film di Ridley Scott.

Nonostante i molti e frequenti errori storici, la storia segue un senso logico e nell’insieme lascia un messaggio: “il bene vince sempre sul male, e civiltà diverse possono convivere in pace”. Nel complesso comunque questi errori non sono “fastidiosi” e servono a rendere la trama più interessante, anche se talvolta vanno a modificare totalmente la veridicità della storia (il personaggio di Baliano ad esempio). Tuttavia è un film cinematograficamente ben fatto, con inquadrature e immagini molto ben studiate, ed altrettanto le sequenze di battaglia. Quindi, dando un giudizio finale complessivo del film, che tenga conto sia delle verità storiche sia della chiave interpretativa di Scott, diciamo che è interessante, anche se troppo lungo e faticoso a tratti.

Binario 21

Nell’ambito del progetto sulla “legalità”, la classe VaD ITE, accompagnata dalla professoressa Maria Teresa Avaldi, si è recata presso il Binario 21. La visita non ha lasciato di certo indifferenti gli studenti, i quali hanno descritto sentimenti e stati d’animo suscitati da tale esperienza.

Memoriale della Shoah binario 21
Memoriale della Shoah di Milano

È un giorno qualunque della settimana, in cui generalmente la scuola è il tuo unico pensiero. Ma oggi è diverso, io e la mia classe andremo a visitare il Memoriale della Shoah. Mi alzo e mi preparo. Come tutte le mattine pensando a quello che avrei visto e conosciuto quest’oggi. Appena varcato il portone della mia palazzina, scruto il cielo e mi soffermo sul grigiore di quest’ultimo, l’acquerugiola mi accarezza il viso e in quell’ istante capisco che qualcosa di insolito era nell’ aria. Non gli do molto peso, anzi dimentico quasi l’ importanza della visita al Binario 21. Si, perchè a questa età difficilmente si riesce a dare il giusto peso a ciò che ci circonda, molto spesso rimaniamo impassibili come se nulla ci sfiorasse, scherzando e sminuendo esperienze di rilievo. È anche questa la “bellezza” dell’ essere giovani e spensierati, anche se è proprio con esperienze di questo tipo che si crea quel senso critico in noi stessi, che ci caratterizzerà per tutta la vita. Ed è proprio questo “sentire”, che contraddistingue una persona priva di cultura e di una propria visione della vita e della storia, da un individuo in grado di dare un proprio punto di vista con un pensiero e una riflessione ragionata, un pensiero che possa lasciare degli insegnamenti e dei valori che influiscano positivamente sulla vita di noi giovani.
Una volta arrivati davanti al Memoriale, mi stupisce subito la sua collocazione. Infatti, la Stazione Centrale di Milano è una delle poche in Europa ad essere sviluppata su due piani, con un pian terreno e un primo piano. Quest‘ultimo è quello che tutti noi conosciamo o abbiamo almeno visto una volta nella nostra vita, dove i treni partono dai binari, verso una moltitudine di destinazioni. Il pian terreno, è oramai adibito ad area museale, ma quello che lo contraddistingue è sicuramente la sua storia. Questo piano “nascosto”, veniva usato come una vera e propria stazione destinata allo scarico e carico dei treni postali e del bestiame. Quale miglior posto, avrebbe rispecchiato e allo stesso tempo mascherato quello che si celava dietro le leggi fascistissime del 1925. Grazie alla tecnologia utilizzata dagli ingegneri italiani del tempo, questo piano, tramite un geniale montacarichi, permetteva la risalita dei vagoni bestiame, straripanti di povera gente. Ma, cosa ancor più interessante, è che questi treni, grazie alla collocazione del montacarichi, partivano per i maggiori campi di concentramento e di sterminio senza essere visti, in quanto i vagoni erano collocati al di fuori della stazione centrale. Infatti questi treni vennero soprannominati “treni fantasma”. Numerose persone negarono ogni tipo di violenza o di esistenza di questo vero e proprio smercio di persone.
Persone che avevano ormai perso ogni tipo di dignità, trattate come animali, private della propria personalità, standardizzate, private persino del proprio ramo famigliare. Venivano infatti catturate famiglie intere in maniera tale da eliminare dalla radice il “problema”.
Il sentimento che più distrusse il cuore di questa povera gente che era perfettamente integrata e rivestiva ruoli di tutto rilievo nella società di allora, fu quello dell’indifferenza. Indifferenza del popolo Italiano di fronte ad uno scempio di questa grandezza, indifferenza dettata dall‘opportunismo generale della stragrande maggioranza dei nostri antenati che non sono riusciti a denunciare questi atti osceni. Funzionari italiani e capi treno che nella maggior parte dei casi hanno sempre messo le mani davanti a occhi ed orecchie, compreso lo Stato e la Chiesa.
Famiglie che vengono ricordate attraverso un lungo muro, con i pochi superstiti che vengono evidenziati, la parola indifferenza che viene incisa a sua volta in un‘altra parete che si innalza all’entrata del Memoriale.
Grazie ad una ristrutturazione molto ben studiata all’interno del Memoriale riusciamo, chiudendo gli occhi, a percepire quello che potevano provare queste persone. I treni che passano al di sopra ci fanno immergere in una atmosfera surreale che ci mette quasi i brividi. Mi immedesimo in quelle persone che non sapevano neanche a cosa andassero
Incontro; la maggior parte infatti pensava che andassero a lavorare, ma non tornarono mai più dai propri cari.
Questa struttura al giorno d’oggi, rappresenta il ricordo di questo periodo buio della nostra storia che non deve essere mai più dimenticato. Queste famiglie sterminate devono lasciare un insegnamento nei nostri cuori, un amore reciproco tra tutte le persone che condividono lo stesso cielo, un senso di appartenenza al mondo che nessuno può portarci via.
Appartenenza che viene attuata con il progetto per l’accoglienza ai migranti, infatti questa struttura grazie parecchi volontari è stata adibita, soprattutto nei periodi estivi, come dormitorio per i migliaia di profughi presenti sul nostro territorio. Il Memoriale quindi svolge più funzioni, in primo luogo quello del ricordo di questi tristi momenti e in secondo luogo quello dell’accoglienza e quindi dell’ amore verso delle persone di differente nazionalità, religione e pensiero.
In via definitiva penso che questa esperienza mi abbia lasciato svariate emozioni, dalla tristezza, alla rabbia per la stupidità e superficialità del nostro popolo, alla curiosità di andare in visita ai maggiori campi di concentramento e sterminio d’Europa per rievocare nuove emozioni nel mio cuore. Ma, la cosa che più ho apprezzato è il fatto di poter raccontare con più senso critico questo argomento fondamentale per la nostra esistenza, di poterlo condividere con i miei coetanei per cercare di suscitare le stesse emozioni, che io stesso ho provato sulla mia pelle.

Alberto Bonacossa

muro dei nomi
Muro dei nomi del memoriale

L’indifferenza, uno dei più grandi mali del mondo contemporaneo. Il ricordo che riaffiora, facendo riaprire quelle ferite mai chiuse e causate da persone senza scrupoli, accecati da interessi puramente politico-economici e da manie di grandezza e potere. Come sempre è la gente innocente a subire quelle conseguenze che hanno portato il mondo a scrivere la pagina più nera della sua epoca contemporanea. Un grande muro nero con incisa la scritta “indifferenza” è stato installato all’ingresso del museo situato al livello zero della stazione centrale di Milano. Questo muro è stata la cosa che più mi ha impressionato e che tutt’ora mi fa molta paura. Un “sentimento”, se così che si può definire, molto condiviso al giorno d’oggi e che in molti casi può sfociare in quello che si chiama egoismo. Ed è proprio quell’egoismo che ha portato alle leggi razziali approvate da paesi come l’Italia e la Germania. Quegli stessi Paesi che oggi si professano democratici e rispettosi dei diritti umani. Proprio quella stessa Germania che nonostante sia stata coinvolta in prima linea in quei brutali crimini, si ostina oggi a non voler ricordare. Quei treni che partivano da quel maledetto binario, nascosto agli occhi di tutti, ma vicino al quale si stavano consumando i più grandi crimini contro i diritti e la dignità di persone, uomini, donne e bambini innocenti, e vittime soprattutto dell’indifferenza. Proprio quel treno, ormai diventato museo, racconta nel suo silenzio quei drammatici momenti e quelle devastanti deportazioni che hanno provocato terrore e sdegno subito dopo la loro scoperta. Una visita, questa del binario 21, che deve far riflettere e deve far capire quanto l’uomo può far male ai suoi stessi simili. Simili, perché non esistono razze, non esistono religioni, non esistono filosofie di pensiero che possano giustificare questi atti inumani. Ma come la storia insegna, è dagli errori che si ricomincia e si riparte, sempre ricordando quello che è accaduto nel passato, anche più remoto, per evitare di inciampare nei medesimi sbagli.

Simone Scavilla

binario 21
Il binario 21 del memoriale

Indifferenza. La parola che ci ha accolto proprio sotto la stazione Centrale di Milano, all’inizio della nostra visita, incisa in un grande muro di pietra.

La parola che più mi ha fatto riflettere. L’indifferenza delle persone verso l’avvenimento più triste e folle della nostra storia. Nostra non solo perché ci riguarda come esseri umani, ma perché proprio in Italia, a Milano, sotto la stazione Centrale, si trova il Binario 21.

Utilizzato per anni come mezzo di deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio nazisti dove, prima dello sterminio fisico, veniva sterminata la loro dignità. Gettati in questi treni e rinchiusi per settimane senza cibo né acqua, senza un minimo di igiene, senza distinzione tra uomo o donna, bambino o anziano.

Non erano persone, almeno, non lo erano più.

Una volta entrati in questi “mezzi dello sterminio” uscirne vivi era impossibile… Pensare che molti di essi erano gli stessi che in passato servirono la patria. Esatto. Gli stessi italiani, solo per professare un credo differente o perché di origine ebraica, venivano rapiti e fatti sparire, cancellandoli dalla società.

Questo memoriale della shoa è stato ideato per non dimenticare. Per far si che la parola indifferenza, quella che Antonio Gramsci definì come <<il peso morto della storia>>, rimanga nelle nostre menti e ci ricordi cosa ha causato.

Sì, perché il compito della storia è proprio quello di far si che certe cose insegnino, che non bisogna dimenticare, poiché cosi facendo rischieremmo di commettere gli stessi errori che ci hanno segnato nel passato e che se commessi di nuovo ci segnerebbero per il resto della vita.

A questo proposito è stato ideato il Muro dei Nomi, un muro che, oltre a farci ricordare il terribile evento, serve a restituire quella dignità che tempo fa, i nostri antenati, avevano perso.

All’interno del memoriale si trova anche un luogo di riflessione e raccoglimento. Questo non vuole essere soltanto un monumento alla memoria di chi non c’è più, ma vuole ricordare di non rimanere indifferenti. Sì, perché ricordare significa rompere l’indifferenza.

Diego Ferretti

Mosaico di nomi dedicato a 1.500.000 bambini deportati
Mosaico di nomi dedicato a 1.500.000 bambini deportati nel periodo della Shoah creato da Yad Vashem

Alla scoperta della Sinagoga di Milano

Sinagoga di via Guastalla a Milano

Ore 8:00 del mattino di mercoledì 31 gennaio, sull’autobus che mi porta, molto lentamente, al tram, penso che nonostante la pioggerella che non smette di scendere, questa può essere una buona giornata, non solo perché non ci sarà scuola, ma per soddisfare una mia curiosità: mi è già capitato di visitare un’altra sinagoga, quella di Praga, ma voglio vedere com’è quella della nostra città.

Infatti, nella settimana in cui ricorre l’anniversario del giorno della memoria, la professoressa Marafioti ci ha proposto di visitare la Sinagoga di Milano che si trova in via della Guastalla.

Alla spicciolata ci siamo trovati tutti lì; all’esterno della struttura la prima cosa che mi ha impressionato è la presenza di militari che, con il mitra, presidiano questo luogo. Ho provato un po’ di turbamento perché non trovo giusto che delle persone che intendono professare la loro fede non lo possano fare in tranquillità. Penso che sia eccessivo lo schieramento di militari, ma poi ripenso alle immagini viste al telegiornale, dove venivano presi di mira con attentati mortali luoghi di culto di ogni fede (chiese cristiane, moschee, …) e quindi mi rendo conto della necessità che questi luoghi a rischio vengano protetti in ogni modo.

Compattato il gruppo e raggiunti dalla guida, passiamo alla visita vera e propria della sinagoga, non prima però di esserci soffermati a guardare la bellissima facciata con i mosaici azzurro e oro che, sapremo poi, è l’unica cosa rimasta dell’originale sinagoga costruita nel 1892, in quanto i bombardamenti della Seconda guerra mondiale su Milano, l’avevano completamente rasa al suolo.

Per la visita ci ha accompagnato una guida che ci ha dato varie informazioni sia dell’edificio che delle tradizioni e dei riti del popolo ebraico. La Sinagoga di via della Guastalla è il principale luogo di culto della comunità ebraica di Milano..

Entrando nella Sinagoga, la guida ha invitato i maschi a coprirsi il capo, usando un cappello o il cappuccio della felpa, mentre a chi non aveva nulla di adeguato ha distribuito una kippah.

Da subito si rimane affascinati per la luminosità e il colore rosso e oro che dominano la sala. Lo spazio interno è diviso in due piani. Dal piano superiore, il cosiddetto matroneo, la zona riservata alle donne, abbiamo potuto apprezzare ancora di più la bellissima architettura della Sinagoga. L’edificio è molto illuminato grazie ad una grande cupola ed alle vetrate multicolori con simboli ebraici e lettere ebraiche, tra cui la stella di David, simboli liturgici e lettere dell’alfabeto ebraico. Le vetrate sono state realizzate dall’artista newyorkese Roger Selden nel 1997, anno in cui la struttura è stata profondamente riammodernata.

Le donne durante la preghiera devono sedersi nel matroneo, questa usanza, ci ha spiegato la guida, è finalizzata a permettere ai maschi di seguire lo svolgimento delle preghiere senza distrarsi. L’Ebraismo è una religione matriarcale e tiene in grande considerazione la donna. Non a caso per entrare in questo luogo sacro sono gli uomini che devono indossare il famoso copricapo, la kippah, e non le donne perché si ritiene che queste ultime siano sempre in connessione con il divino al contrario dei fedeli di sesso maschile.

Nella Sinagoga di Milano, come è tradizione per la religione ebraica, non ci sono statue, immagini sacre o quadri ma solo alcune scritte perché per la religione ebraica la preghiera può essere fatta in qualunque luogo dove non vi siano sculture o immagini che ritraggono persone o animali.

Il punto centrale è costituito dall’Aròn (Arca Santa) simile ad un armadio che ha una grandissima importanza all’interno della Sinagoga e per la liturgia ebraica perché è il mobile in cui è contenuto il rotolo della Torah, ossia i primi cinque libri – i più importanti – della Bibbia. La Torah non può essere toccata con le mani ed è per questo che si usano dei sostegni in legno inoltre nel suo testo non ci sono vocali.

Una particolarità è che se lo scriba quando scrive la Torah sbaglia, deve ricominciare da capo e l’ultima parola si deve scrivere in Sinagoga.

Al centro della sala c’è l’altare, posto in mezzo ai fedeli e non in posizione distaccata. Sull’altare è posta la menorah, il famoso candelabro a sette bracci, a memoria dei sette giorni della creazione. Il rito viene fatto dal rabbino che non è rivolto verso le persone ma verso la Torah questo perché non prega per i fedeli ma con i fedeli.

Ci ha raccontato poi alcuni cenni di storia degli ebrei legata a Milano. A differenza di molte città, a Milano non è mai esistita una zona dedicata agli ebrei (ghetto). Dai tempi di Ludovico il Moro infatti esisteva una legge che vietava agli ebrei di restare in città oltre tre giorni, dopodiché erano costretti ad andare a dormire nelle località vicine e far ritorno ogni giorno a Milano. A partire dalla fine del 500, e per più di due secoli, non c’è stata più presenza ebraica in città. Solo agli inizi dell’800 viene permesso agli ebrei di professare la propria fede e di realizzare edifici di culto. La comunità ebraica milanese, decise così di innalzare una sinagoga notevole e centrale, coinvolgendo uno degli architetti più importanti dell’epoca, Luca Beltrami. Nel Novecento la comunità crebbe costantemente, fino agli anni trenta quando molti ebrei tedeschi lasciarono la Germania a causa dell’avvento di Hitler al potere e si rifugiarono in Italia. Nel 1938, al momento della promulgazione delle leggi razziali, gli ebrei erano dodicimila. Di questi, cinquemila riuscirono a fuggire. I deportati nei campi di sterminio, partendo dal famigerato binario 21 della stazione centrale, furono 896. Di questi tornarono solo cinquanta. Oggi vivono a Milano circa seimila ebrei, provenienti da diversi paesi. Molti di questi hanno mantenuto riti, usi e costumi del paese d’origine e si sono organizzati autonomamen­te con proprie sale di preghiera.

La guida ci ha illustrato anche alcune caratteristiche e tradizioni della vita ebraica.

Innanzitutto gli Ebrei considerano le giornate scandite dalla luna e non dal sole.

I bambini ebrei raggiungono l’età della maturità a tredici anni e diventano così responsabili per se stessi nei confronti della legge religiosa ebraica.

Anche la festa del sabato appartiene alla cultura ebraica. Per gli ebrei il sabato deve essere interamente dedicato al Signore. Inizia dopo il tramonto del venerdì e si conclude all’apparire delle prime stelle del sabato. Il sabato, in ebraico Shabbat, ricorda il giorno in cui il Signore concluse la creazione. Prima che inizi, la padrona di casa accende le candele, che indicano la fine del lavoro e l’inizio del riposo. Un giorno di riposo assoluto. Nelle ventiquattro ore bisogna astenersi da qualsiasi attività e non chiederne ad altri; i cibi devono essere preparati in precedenza; il riposo deve essere assoluto per tutti; non si possono provocare scintille e ci si può spostare solo a piedi.

Infine il rito della rottura del bicchiere durante la celebrazione delle nozze. Le nozze ebraiche si possono celebrare sempre, tranne durante lo Shabbat (dal venerdì sera dopo il tramonto fino al sabato sera). L’ultimo gesto della cerimonia, prima dei festeggiamenti, è la rottura del bicchiere da cui hanno bevuto gli sposi, da parte dello sposo con un piede; questo gesto sta a significare il ricordo della distruzione del Tempio di Salomone a Gerusalemme, nel 70 d.C. per opera dei Romani e la conseguente diaspora.

Dopo circa un’ora, passata velocemente, la visita è terminata. E’ stata un’esperienza bella ed interessante che ritengo debba ripetersi anche con altre culture e religioni, ad esempio quella musulmana, perché credo che la conoscenza sia l’unico modo per evitare di cadere in pregiudizi.

Anime Concordi

Ercole ed Asia, Luca e Ercole. L’essenziale. Un fratello è l’essenziale. Perché un fratello è sia un amico che un genitore, è un confidente e un maestro, un esempio e una persona acconto cui compiere il proprio viaggio. Un fratello si sceglie: non si è fratelli perché si appartiene alla stessa famiglia, non è una questione di sangue. Può essere un fratello chiunque, può esserlo il vicino di casa, così come il compagno di banco, chiunque. Ciò che rende un fratello tale è altro: è la capacità di proteggere e la volontà di essere protetti; è la capacità di capire quando è ora di tacere e quando, invece, è il momento di parlare; è tendere la mano nei momenti di difficoltà con la consapevolezza che quella stessa mano sarà pronta a fare lo stesso. È una relazione reciproca. Un fratello è una persona che nel tuo cuore ha il significato di famiglia, una persona il cui cuore ti capisce. Concorde. Concorde deriva dal latino, cum cordis, etimologicamente significa avere un rapporto di reciproca intesa tra due cuori. Perché tutto nasce dal cuore. Inspiegabilmente quando siamo felici, quando siamo tristi, quando proviamo qualcosa di particolare, lo sentiamo nel cuore. Ci sono momenti nella vita che vogliamo condividere con poche, pochissime persone, con quelle persone che conserviamo gelosamente dentro di noi. Questi sono i fratelli che scegliamo. Qual è, dunque, la differenza tra un fratello e un amico?
A mio parere c’è un momento nella vita in cui si riesce a distinguere un fratello da un semplice amico ed è quando si ha bisogno di aiuto: un amico ti aiuta quando mostri il tuo dolore, i tuoi problemi, quando la tua richiesta di aiuto è evidente; un fratello si comporta diversamente, un fratello fa ciò di cui hai bisogno ma che non chiedi, capisce i tuoi silenzi. Di un fratello non ti vergogni, mai. Non hai paura di mostrare le tue debolezze, non pensi neanche di poter essere giudicato, gli regali la tua anima nuda sapendo che, pur avendo il potere di distruggerla, se ne prenderà cura come fosse l’oggetto più prezioso al mondo. Quello con un fratello è un rapporto che inizia nel momento in cui i due sguardi si incrociano e si sente un magia strana, si capisce che quella è una persona che avrà un ruolo importante nella propria vita.
“Anime scalze” è questo: è un racconto di fratelli, una storia che spiega come un amore così forte possa salvare anche dalla peggiore delle situazioni. Fabio Geda racconta con una semplicità disarmante la complessità dell’amore che lega i fratelli, delle persone completamente diverse, che reagiscono alla vita in maniera quasi opposta, ma che, qualunque cosa accada, sanno di poter contare gli uni sugli altri. Asia è stata quasi una madre per Ercole, è stata ed è ancora un’alleata, una confidente, una sorella. Allo stesso modo Ercole si è comportato nei confronti di Luca: fin dal loro primo incontro si sono scelti, Ercole ha sentito il bisogno di proteggere Luca dalla vita che gli era capitata, dai genitori incompetenti che aveva avuto. Forse perché anche Ercole era stato costretto ad affrontare le stesse difficoltà e si sentiva in dovere di essere per Luca ciò che Asia era stata per lui. Di contro Luca, un ingenuo bambino di sei anni, si fida di Ercole, lo seguirebbe ovunque, vede in lui il padre che Nicola non è stato.
Non c’è dubbio, quello tra fratelli, che siano di sangue o che siano scelti, è il legame più forte e sincero che esista. Non ci si sente in dovere di amare, si sente solo il bisogno di farlo.

Nada Mansour

Frontespizio di L'estate alla fine del secolo
L’estate alla fine del secolo – Frontespizio

Il pericolo della libertà

Trovo meravigliosa l’attesa che precede l’incontro con una persona, quelle ore in cui si cerca di immaginarne l’aspetto, di sentirne la voce, proprio come accade per i personaggi di un libro.
E’ automatico costruire un proprio personaggio dietro ad un nome, il pericolo sorge nel momento in cui la realtà pone fine all’immaginazione, il velo viene tolto e le aspettative rischiano di essere deluse.
Ero piena di aspettative nei confronti di Fabio Geda, pensavo che sarebbe sicuramente stato interessante conoscere la persona che ha messo per iscritto una storia tanto particolare come quella di Ercole, Asia e Luca.
Questa volta, fortunatamente, la realtà ha retto splendidamente il confronto con le aspettative.
Ho la convinzione che per gli adolescenti sia un’opportunità speciale conoscere persone come lui, avere l’opportunità di avere un dialogo alla pari con un uomo che ha sinceramente interesse nell’ascoltarci, e che abbia esperienza tale da regalarci consigli preziosi.
Fabio Geda è una di quelle persone che ascolterei per ore, una di quelle persone che, con la potenza delle parole, è in grado di “ipnotizzarmi”, di farmi dimenticare la scomodità dei gradoni della palestra della scuola, di farmi sorprendere a fissare un punto lontano, con i pensieri che viaggiano sorretti dalla sua voce.
Certe volte, gli adulti sono in grado di chiarirti le idee, molto spesso non consapevoli del peso che noi diamo alle loro parole, noi che cerchiamo una risposta alle mille domande che ci confondono.
Noi adolescenti siamo scalzi, con la voglia di esplorare quella libertà che abbiamo sempre visto lontana, e che finalmente si apre davanti a noi, ma la libertà ha un confine oltre al quale si celano pericoli che non siamo ancora in grado di gestire da soli; giunti a quel punto è necessaria la presenza di qualcuno che ci reindirizzi verso il “territorio sicuro”.
Nessun ragazzo può farcela da solo, è vero che “ognuno di noi è libero di rovinare la propria vita e di renderla meravigliosa”, ma spesso “è necessario avere il coraggio di chiedere aiuto, di gridare al mondo che così non funziona”.
Geda, durante l’incontro, ha usato una metafora che può riassumere ciò di cui abbiamo discusso durante le due ore di chiacchierata: noi siamo come una canoa nel fiume della vita, la corrente ci trascina con forza, dobbiamo faticare e remare verso la direzione che vogliamo raggiungere e, aggiungerei io, la navigata è meno faticosa con qualcuno che ci aiuta a remare.
Anime scalze è un romanzo di coraggio, di amore, di famiglia, di crescita; il romanzo che tutti gli adolescenti dovrebbero leggere, il romanzo che, se letto a mente aperta, è in grado di far riflettere su molti aspetti di questo periodo confuso della vita.

Letizia Repizzi

Fabio Geda
Fabio Geda

Per quanto tempo è per sempre? A volte, solo un secondo

frontespizio del libro Anime scalze Passare un minuto con le mani premute su una stufa bollente e passare un minuto giocando al nostro videogioco preferito è un ottimo esperimento che ci permette di capire la relatività di Einstein”. In questo modo Fabio Geda, autore del libro Anime Scalze, si rivolge agli studenti del liceo scientifico Italo Calvino, nonché lettori del suo romanzo, per spiegare loro come tutto dipende dal punto di vista in cui lo si osserva. Assorbire questa consapevolezza significa essere disposti ad assumere un nuovo sguardo nei confronti della vita. Ed essere disposti alla possibilità di un cambiamento significa essere persone mature.
Questo processo è sintetizzato e raccontato nella storia di Ercole che, sebbene affronti un’adolescenza quasi drammatica riesce a superare difficoltà, delusioni e dolori trasformandoli in forza interiore e in fonti di insegnamento: non è un caso se agisce per il bene di suo fratello Luca come ha sempre impedito che qualcuno agisse per lui; non è un caso se offre lo stesso tipo di aiuto che ha sempre rifiutato, con l’appoggio di sua sorella Asia, dagli assistenti sociali.
Geda non smentisce l’osservazione che gli viene fatta da una ragazza di classe quarta riguardo questo comportamento del protagonista, che può essere interpretato come una fuga. Però sottolinea l’esistenza di due tipologie di fuga: “Una fuga da…E una fuga verso… .Tutti fuggiamo da qualcosa. Non tutti fuggiamo verso qualcosa, perché questo significa avere una direzione, avere un obiettivo da raggiungere, conoscere ciò che si vuole.”. Quando Ercole fugge a Erta in cerca della madre probabilmente sta scappando dalla sensazione di abbandono che prova nell’aver scoperto verità che gli erano state nascoste dalle persone in cui ripone più fiducia: sua sorella e suo papà; si sente smarrito e cerca rifugio in un luogo che non conosce, in una persona a cui teoricamente non è più legato; è una scelta irrazionale, impulsiva, insicura. Quando invece ruba il furgone e porta via con sé Luca dalla sua festa di compleanno è consapevole di quello che sta facendo, c’è un’intenzione in questa scelta, dove decide di scappare verso un ambiente più sicuro per suo fratello.
Altro aspetto fondamentale di Anime Scalze è il rapporto fraterno, inteso in senso lato.
Quando i genitori si rivelano incapaci nel loro ruolo, è fondamentale trovare altri punti di riferimento, ovvero trovare un’altra mamma e un altro papà in un amico, in un insegnante, in un allenatore… in un fratello. Un fratello non è necessariamente sangue del mio sangue, ma sicuramente è anima della mia anima, dolore del mio dolore, felicità della mia felicità, amore del mio amore.
Un fratello è la parte complementare, la famosa “costante in una vita di variabili”. Geda è stato molto chiaro a riguardo.:
 X: “Perché non ha rappresentato gli adulti su un piano superiore rispetto ai giovani? Dal punto di vista della maturità.”.
 G: “Perché spesso non lo sono. Ed è colpa della società. La società ci racconta una bugia sostenendo l’idea che esiste un’età in cui si cambia (quella adolescenziale) e un’età in cui ci si stabilizza (quella degli adulti). Per questo gli adulti tendono a mettersi un passo avanti ai giovani, anche quando non lo sono, e non accettano un rapporto alla pari. Per esempio, il rapporto genitore-figlio è complicatissimo e profondissimo, ci si mette una vita intera per elaborarlo, e spesso arriva un momento in cui i ruoli si scambiano. Ecco perché un quindicenne nella maggior parte dei casi ritrova la figura del fratello in un coetaneo e non in un membro della propria famiglia.”.

Ogni tematica è affrontata con ottimismo e speranza; persino il finale, seppur imperfetto e agli occhi di alcuni poco credibile, lascia trasparire una vittoria per Ercole, e quindi lascia un sentimento positivo nel cuore dei lettori.

Fabio Geda
Fabio Geda

Autori di Riflessioni

Mi è capitato altre volte di trovarmi di fronte ad autori di libri che avevo letto. Gli scrittori sono parti molto speciali delle nostre vite, poiché sono in grado di raccontarci milioni di storie, incuriosirci con straordinarie avventure, tenerci compagnia per intere giornate senza tuttavia farsi mai vedere.
Si nascondono tra le parole dei loro libri, non hanno fisicità, sono astratti. Gli artisti vengono quasi oscurati dalle loro opere: non c’è alcun paragone tra la popolarità di J.K Rowling e quella del nostro Harry Potter, né c’è da discutere su chi sia il più conosciuto tra Geronimo Stilton e… un momento, chi ha scritto Geronimo Stilton?

Sono personaggi da scoprire, gli autori, tanto quanto quelli che loro stessi raccontano nei libri. Proprio per questo motivo l’incontro con lo scrittore Fabio Geda mi ha colpito particolarmente e forse un po’ più di tutti gli incontri avuti in precedenza. Talvolta, infatti, chi narra finisce per nascondersi nel proprio scritto persino in queste occasioni, tanto vi ci è abituato. Finisce per far parlare il libro al posto suo, si fa sostituire. Geda invece, ha fatto il processo opposto: ci ha parlato di lui, delle sue convinzioni e della sua visione del mondo, ci ha insomma mostrato sé stesso e quello che di lui c’è nel libro anziché mostrarci ciò che c’è del libro in lui.

frontespizio del libro Anime scalzeCredo che i concetti espressi nelle pagine di Anime Scalze abbiano preso forma e sostanza attraverso la condivisione di questo momento. Siano diventati quasi tangibili nella misura in cui si riflettevano nella persona che avevamo di fronte. In effetti, ci raccontava l’autore, la storia che abbiamo letto fa decisamente parte del suo vissuto, narra di vicende che lui ha toccato con mano, parla di ragazzi che ha conosciuto ed esperienze che ha fatto nel suo periodo di volontario in comunità italiane. Chiacchierare con lui ci ha consentito di ampliare il libro, espandendolo in direzioni talvolta inaspettate, ma soprattutto uscendo dallo schermo della fantasia per entrare in un vero e proprio sguardo sulla realtà che ci circonda. Ogni sua risposta portava in allegato una chiave di lettura sulla vita e sul mondo, una sua interpretazione intrisa, a mio modo di vedere, di tre concetti fondamentali: speranza, ricerca e accettazione. Tre momenti che si autoalimentano in un circolo virtuoso che ci aiuta a dare una direzione alla nostra vita e al nostro futuro, in una sorta di moto continuo che è necessario per evitare di farsi trascinare, se non travolgere, dagli eventi.
La metafora del fiume che scorre e viene percorso controcorrente dai ragazzi in canoa, che risplende nel tramonto del libro, è stata parte integrante della discussione con l’autore che ha più volte insistito sul costante mutare delle cose attorno a noi, sulla casualità, ma anche sul ruolo che noi possiamo avere nel guidare la nostra vita dove vogliamo portarla all’interno di queste correnti, tenendo sempre viva la speranza verso il futuro e nel cambiamento, accettando che le cose non saranno sempre perfette, ma comprendendo come anche un piccolo passo avanti sia meglio di non muoversi. L’idea è di non fermarsi mai, non smettere mai di cercare. Non importa l’età, il nostro passato, gli errori che abbiamo commesso. Procedere sempre. Scalzi e quindi liberi di esplorare, cercare i nostri confini, sporgerci e non avere paura, pur consci dei pericoli insiti nel processo.

Fabio Geda

Tornando in classe, al termine dell’incontro, avevo netta la sensazione che le due ore appena trascorse avessero avuto un reale valore, che mi avessero dato qualcosa che prima non avevo, che avessero completato un discorso che era rimasto aperto con la lettura del libro e che soprattutto ne avessero aperti altri su argomenti nuovi, ed è proprio sull’onda di questi stimoli, pensieri e visioni che mi ha regalato oggi che vorrei ringraziare Fabio Geda.

Martino Arioli

La Reconquista in Spagna

Introduzione

La Reconquista (che in spagnolo e in portoghese significa riconquista) fu il periodo durato circa 750 anni in cui gli eserciti cristiani riconquistarono i regni moreschi musulmani dI Al-Andalus (termine con il quale i musulmani chiamavano la penisola iberica).
La Reconquista può essere vista come una lunghissima crociata durata quasi tutto il Medioevo che coinvolse tutte e tre le grandi religioni monoteiste, Cristianesimo, Islam ed Ebraismo e che, a differenza delle Crociate combattute in Terra Santa, alla fine vide vincere i cristiani con la sconfitta netta dei musulmani. Proprio per questo oggi la Reconquista considerata la guerra di religione più duratura della storia, nonché una delle più cruente e importanti.

Storia

Nel 711 d.C. avvenne la battaglia di Gaudalete, nella quale l’esercito dei Visigoti guidati da re Rodrigo venne sconfitto dalle forze arabo-berbere del comandante Tàriq Ziyàd: grazie a questa vittoria l’ultimo re degli Omayyadi riuscì a sottomettere gran parte della penisola iberica nel giro di 5 anni, e fondò L’Emirato di Cordova.
Le armate moresche riuscirono a superare anche i Pirenei, cominciando l’invasione del sud della Francia, ma vennero fermati dal duca di Aquitania Oddone il Grande che, appellandosi all’aiuto dell’esercito franco di Neustria e dei Burgundi, liberò nel 721 d.C Tolosa da un assedio dei mori ,i quali furono costretti,11 anni dopo nel 732 d.C., a lasciare la Francia a seguito della sconfitta subita nella battaglia di Poitiers.

La Reconquista iniziò nel 718 d.C. con la ribellione dei cristiani che fu condotta da Pelagio di Fafila.Benché le fonti sulla sua figura siano relativamente scarse, egli fu probabilmente un personaggio storico realmente esistito, a cui è attribuita la fondazione del regno delle Asturie in Spagna.

Pelagio di Fafila

Con la vittoria a Calatrava da parte di Alfonso V, re di Leòn ,al principio dell’XI sec. i cristiani rioccuparono buona parte della Spagna. Continua la lettura di La Reconquista in Spagna

Sobieski, il difensore dell’Europa

Giovanni III Sobieski

Sobieski, il difensore dell’Europa

Giovanni III Sobieski, nato ad Olesko in Ucraina nel 1624, appartenne ad una nobile famiglia polacca. Fu un uomo colto, un mecenate e un umanista. Fu re di Polonia, a capo della Confederazione Polacco-Lituana, dal 1674 al 1696. È ricordato per lo più per essere intervenuto nella battaglia di Vienna contro gli ottomani dove ottenne una strabiliante vittoria nonostante la superiorità numerica dei nemici. Dopo questa vittoria i turchi lo soprannominarono “Leone di Lechistan”, mentre i cristiani “Difensore della Fede”. Quest’ultimo titolo gli fu conferito dal papa Innocenzo XI nel 1684.

Nel marzo del 1683 la Confederazione Polacco-Lituana, dopo la rottura dell’alleanza con la Francia, strinse un patto con l’imperatore austriaco Leopoldo I contro gli Ottomani guidati dal Gran Visir Merzifonlu Kara Mustafa Pasha. Quest’ultimi, a loro volta, furono alleati con la Francia. I turchi si stavano preparando ad una grande spedizione di guerra e Sobieski temeva che avrebbero colpito la Confederazione Polacco-Lituana dalla Podolia, regione dell’attuale Ucraina, specialmente le città di Leopoli e Cracovia. Fortificò allora queste due città e ordinò il reclutamento per l’esercito.

Il 10 luglio i tatari si unirono all’esercito dei turchi ormai pronto per la spedizione. In totale vi furono dai 250000 ai 300000 uomini. Fu l’esercito più grande che i turchi mobilitarono nel XVII secolo. Fin dall’inizio Kara Mustafa volle stupire il nemico, infatti nessuno sapeva con certezza dove avrebbe attaccato. Quando tutta l’armata ottomana fu al completo, il Gran Visir definì dove indirizzare l’attacco. In poco tempo penetrò all’interno del territorio austriaco e non trovò una grande resistenza. Alla notizia di questo improvviso attacco da parte dei turchi, Leopoldo I ordinò di ritirare il proprio esercito presso Vienna.

La battaglia presso Vienna

I turchi dopo pochi giorni si trovarono sotto le mura della capitale austriaca e iniziarono ad assediarla. L’assedio durò ben due mesi con gli austriaci e i prussiani che si difendevano senza sosta. I turchi sferravano gli attacchi al mattino presto, a mezzogiorno e durante la notte.

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