Learning week. Tiriamo le somme

qui mi trovo in veste di prof. simpatizzante.
Intendo dire: non ho meriti ma solo ammirazion-i per il bel lavoro portato avanti nelle terze classi dell’ITC.

Come sempre si dimostra, lavorare per progetto è entusiasmante.

Per i professori, che vedono fiorire interventi inattesi, atteggiamenti nuovi, entusiasmi a volte lungamente attesi.

Per gli studenti, che vedono ribaltato il palcoscenico. Sono loro in prima linea a determinare il successo di quello che si studia e si progetta insieme.

Tutto questo sarà possibile vederlo domani alle 11.15 in auditorium.
Non tutto, certo. Sarebbe stato necessario far parte dei vari gruppi di lavoro per capire come si sviluppano queste dinamiche educative.
Per due settimane, tutti i giorni dopo scuola, un gruppo di studenti delle varie classi si sono visti catapultare in un mondo adulto fatto di orari prolungati, sforzi comuni, confronti paritari sulla validità delle idee e sul come portarle avanti con responsabilità. L’affiancamento di alcuni docenti con esperti esterni della scuola – in questo caso della ONLUS ALA del Sud di Milano – è servita a far capire che i ragionamenti a scuola sono validi e sono proprio quelli che servono usciti da questo ‘dorato’ periodo di formazione.

Mi spiace tantissimo non poter essere tra i genitori e i docenti che domani assisteranno alla presentazione delle future aziende che i nostri ragazzi hanno ideato.
Faccio a tutti gli auguri. Nessuna bella idea ha successo senza una valida presentazione, ovviamente!

Non sono stati i faraoni a costruire le piramidi

La Giustizia

Ore 15.15. Gheddafi parla alla televisione di stato. Libia. Nord dell’Africa. Vicino ai due punti sfocati alla lente dei potenti; ologramma destabilizzato dal vento della Tunisia; speranza, senz’occhio al fine. Una sguardo innamorato ad una lezione del publo unido che mai sarà vinto. ”Due miserie dentro lo stesso uomo’ diceva Giorgio. Qualcuno sogna ancora tuffandosi dalle curve sicule.
Che sia sogno; speculazione.
Che i due punti sfocati in realtà siano chiarissimi alle menti che sotto chilometri di terra giocano a dadi e a maggese con la libertà. Andreottianamachiavelliana concezione liberale della stabilità.

E’ dal ’67 che Gheddafi.
E’ dal ’67 che è stato eletto.
E’ dal ’67 che Gheddafi si è preoccupato di essere garante della libertà dei suoi con. Dei suoi cittadini.
Ha lavorato perché fin dall’inizio le scelte appartenessero al popolo. Oggi pomeriggio ordina ad ogni famiglia di riportare i loro figli drogati, giostrati da Bin Laden, a casa. “Sono dei drogati! I figli sbagliano. Il mio governo è dalla parte del giusto. Il mio governo rispetta le leggi di Dio.”
Che sia una vergogna lo ripete tante volte. Insieme alle sillabe di ‘droga’ e ‘Osama Bin Laden’. La responsabilità di quello che sta accadendo è solo vostra. Vostra: libici drogati.

Intanto in Occidente fra un sorriso di Obama e un grido della nostra classe dirigente si parla di stagflazione. Il superamento dei 220 dollari a barile di petrolio e la stagnazione dell’economia mondiale.

Qualche settimana fa, il presidente degli Stati Uniti d’America aveva incollato i nostri occhietti alla televisione, quando ci aveva rivelato che in Egitto si stesse facendo la Storia.

F

Con un giorno d’anticipo alla manifestazione di domani, di Domenica; quella che vedrà nell’intestino delle città italiane tante e tante pagine firmate col profumo dell’orgoglio del proprio sesso, pubblico la fotografia di un mondo intero, di una nuova società, raccontata con gli occhi socchiusi dal sole ed il cuore leggero per un amico.

E’ un anno che verrà. Secoli sono passati da quando l’umanità ha combattuto per l’ultima volta, l’ultima guerra, con i pugni. La civiltà non ha avuto bisogno d’essere sotterrata né di rinascere da ceneri. E’ risorta; in un modo che solo scrittori avevano immaginato: prostitute che scavalcano le pistole strette dai calli. Un anno più in là di quelli fino ad allora vissuti. E’ il periodo del potere delle donne, liberate dal costume del rosa e del dolce. Hanno raccolto le salme delle menti stanche ad ingannare le altre ed hanno costruito un nuovo mondo. Uno in cui non ci sono guerre, dove la competizione non esiste. E’ un mondo di schiavitù. Una dittatura femminile. Il negativo di tutti quei secoli, vissuti nei continenti fin’allora conosciuti. Le donne hanno compreso l’essenza del maschio: ed è per ciò che questo vada lavato della follia della lussuria; s’è capito che la radice d’ogne male contro l’umanità sta lì: dalla necessità del petrolio, dalla contesa dei prati, dal lancio dei proiettili; tutti hanno davanti a loro lo spettro del sesso e della protezione delle proprietà private, sintesi delle ragioni che le mogli spuntavano nelle loro menti, già programmate ad irrigidire gli arti, al peso dello spartano che scolpisce concubine nei regali terreni di Mefistofele. L’uomo è ora solo un muscolo della società. Un bue. E un intero organismo statale si preoccupa di affievolire l’ìmpeto che vuole spaccare con il collo la corda del suo guinzaglio. E’ un mondo migliore; che si possa bruciare l’opera di quello che contò con il suo secolo le parti di sangue e di lacrime gocciolanti dallo scettro (caro Ugo,) perché scettro non c’è più. Bastava così poco a sistemare ogni cosa. Eppure nessun Principe ha mai ceduto alla tentazione, prima d’allora s’intende, di farsi da parte e guardare quanto più in là arrivi la palpebra truccata.

“Non dobbiamo tacere”

Durante la seconda guerra mondiale e nel periodo subito successivo la popolazione prevalentemente italiana ma anche slovena e croata, nelle zone dell’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, è stata vittima di esecuzioni sommarie compiute dall’Esercito popolare di liberazione iugoslavo.

Oggi, 10 febbraio, celebriamo il Giorno del Ricordo, in memoria delle vittime dell’ennesima strage commessa dall’uomo.
Ricordare non solo è giusto per rispetto di coloro che hanno vissuto questi eventi storici, ma è fondamentale perché il ricordo e l’informazione sono gli unici strumenti che abbiamo oggi per evitare di commettere gli errori ed orrori del passato.

A questo proposito cito le parole del presidente della Repubblica (Roma, 10 febbraio 2007):

Va ricordato l’imperdonabile orrore contro l’umanità costituito dalle foibe (…) e va ricordata (…) la “congiura del silenzio”, “la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio”. Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali.

Sentimento ripreso; additività di infiniti: l’amore al tempo di Dalì

Ah, dolcezza del mio cuore.
Quanta gola sprecherei per sciogliere il vetro che ci separa. Quante fatiche ti dedicherei per il contatto che la paura ci nega.
Il démone dello spazio ci stringe contro la piana azzurra, saporita di vernice fresca. Davanti a ‘sto schifo d’immagini disturbanti. Vomito applaudito da una massa  di odianti della bellezza autentica, attendenti altro senònché immagini più veloci del genio umano, della retina della mente. Regalo di un prestigiatore dalla bacchetta setolata.
Il tuo sospiro nascosto, massa di petalo, pesa tonnellate sui polmoni, vero organo dell’amore negli uomini. Scoppietta l’olio caldo mentre frigge le ferite; persino il soffio, placebica inutilità a pelle fresca, [..]: sei un amore.

Indiscutibile

L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera

Capitolo 28

“La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cadere in mezza alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso.”

Se gli dei sognassero sarebbero straccioni allo specchio.

E’ tutto un sogno. Vi sveglierete fra qualche istante e dovrete ricominciare da capo. Si sà. L’impressione che désta i sogni ha un’impronta enorme rispetto alla durata del processo cerebrale che li genera. Di questo sogno diciottenne potrebbe rimanere una briciola; la stessa insignificante sensazione che lasciano i sogni dopo qualche ora dal risveglio. Tutto intorno è sogno. Immaginatevi non più fermi esseri umani, ma pòllini dispersi nel bordello del magnaccia aereo: nessun appiglio, nessun riparo. La nostra speranza starebbe nel non svegliarsi mai.

Questo c’è però dopo la morte: un altro sogno. Questo quaderno, questa matita, la mia immagine ritratta sullo specchio lucido, voi, amici, le femmine che amo; voi, siete desideri del mio io assetato. Intorno a me girate come cancri, ballando con gli occhi rivolto al perno, manovrati da un annoiato marionettista, figlio mio, barbaro, già disconosciuto e disamato, mio licenziato ex-dipendente.

Domani mattina vivrò un’altra volta la realtà delle quattro stagioni, del profumo degli umori umani, della Terra tonda, degli aerei e dei sottomarini, dell’imbuto e dei computer. Della s***** e delle macchine da scrivere. Del sangue. E della linfa. Della morte, dipinta ad olio, popolare, democratica, selettrice, che porta via a vagonate gomme nere consumate e bruciate.
Tutti morirete. A parte me.

Sono un essere immortale che sogna Sogni dalla durata finita che collassano in sè. Voi non vedrete la mia morte. Quando smetterò di esistere, tutto smetterà di esistere e come sabbia cadrete dentro un densissimo buco spazio-temporale. La matrice creativa che ci ha creato muterà algoritmi, con gli stessi strumenti del primo sogno, et voilà: un altro me e un altro voi. Come barchette paraffinate danzanti, cadute per sbaglio nell’Oceano; àlbatros dalle ali bucate. Ridicoli ballerini di Classica col culo basso, il collo grosso e i piedi piatti.

La professoressa Pendoli

Dal mio diario.

Ieri.
Sbuffa come una locomotiva la prof Pendoli. Catene montuose lungo la fronte, occhio allucinato. Può un computer dare tanto stress?
Le offro un po’ d’aiuto.
Mi abbrustolisce con lo sguardo: «Sei il solito maschio. Pensi che le donne non sappiano cavarsela da sole?»

Oggi
Sibila come una pentola a pressione la prof Pendoli. Smorfia pen(s)osa, occhio sbarrato.
Programma ribelle? Non sono affari miei. Gusto placido il mio libro.
L’invettiva mi tramortisce: «Sei il solito maschio. Lasci tutta la fatica alle donne».

Sono il solito maschio? In fondo, mi sta bene. Non vorrei essere un maschio diverso.

Il disperato, e senza potenza, amore di Encolpio

La cultura apre la mente.
La passione che spacca il filtro delle parole di Petronio scorre sul materiale patinato delle carte da gioco. Una soffiata carezza e la figura lascia scivolare la veste.
Un baccano fa eco di migliaia di finestre di legno che sbattono contro il muro della mente piatta, aprendosi con forza.
Un mazzo di carte che si mischia, esplodendo.
Nella polvere che si agita discreta: che sia il godimento dei due corpi simmetrici la fronte del piacere? Che una volta l’uno e una volta l’altro descriva la ricetta dell’arazzo macchiato del peccato? Che questo tessuto intrecciato da mille fili sia più tenero dello straccio sputato dall’ospitalità di Eva? Questo?!
Questo amore che ci educano a sfocare disgustoso e promiscuo. In quale passaggio storico ce lo siamo persi? Quando abbiamo acceso il primo lumino per il sesso e abbiamo modellato con lame e martelli la necessità di riprodursi?

Scimmie.

Tomarchio natura

Giugno 1999

E’ mattino. Mi sveglio prima con la mente che con il corpo e sono immobilizzato sul materasso.
La schiena poggia sul lenzuolo celeste di cotone, rotolandomi nel nido. Quando richiudo gli occhi, mi permetto d’invitare la coscienza a casa di Morfeo.

Sono arrivato ieri quì. Superavo i miei cugini che m’inseguivano in bicicletta, e spingevano i primi calletti contro il manubrio. Rumore anatresco del cambio Shimano.
Stavo seduto ‘dietro’ io; nella Tempra rosso lucida, con gli interni spugnosi e secchi, sporchi di polvere, sabbia e sale. Residui di focacce. L’odore dei sedili cotti dai raggi solari, inserrati dal vetro che sulla faccia colora le ultime gocce della stagione, mi faceva tenere il sacchetto di plastica a portata di mano; lo spirito dei mozziconi spenti è difficile da esorcizzare. Sono in macchina da più di 10 ore; ho le labbra screpolate, la lingua che sa di aceto e i piccoli muscoletti delle gambe atrofizzati.
Quel cancello nero però mi ha fatto entrare in paradiso.

Il viale sul quale, strisciando con la gomma, facevo compagnia al lento martello del Parkinson, raccogliendo di notte gelsomini bianchi, unica luce naturale in quell’aria di zafferano diffuso.

I grandi dicono sia un paesino in provincia di Palermo e non una zattera fra le nuvole.

Ritorno sul cuscino. Mi accarezzo i capelli. Corti e chiari. Il vigore del mattino quando il sole dà il bacio del buongiorno mi spinge fuori dal letto e sulla scalinata di marmo bianco, rinfresco la pianta nera, pronta a formarsi sull’asfalto.
Sento il profumo del mare e della sicilia arancione.