Europa orientale ai tempi della Confederazione polacco-lituana

Matejko Jadwiga


Jadwiga Andegaweńska, conosciuta in italiano come Edvige di Polonia o Edvige d’Angiò, nel 1384, all’età di soli 11 anni venne incoronata re di Polonia. Ottenne il titolo di re per indicare che regnava per suo diritto e non come consorte del sovrano. Sua madre era discendente della casa reale dei Piasti, un’antica dinastia polacca, mentre suo padre, Luigi I d’Ungheria, apparteneva alla casa d’Angiò e fu re d’Ungheria e re di Polonia.

Inizialmente era stata promessa in sposa a Guglielmo I d’Asburgo, ma poi il matrimonio venne annullato per stringere un’alleanza con la Lituania. Jadwiga sposò così Jogaila, il principe pagano della Lituania, che si convertì al cattolicesimo e assunse il nome di Władysław Jagiełło (Ladislao Jagellone). Senza compromettere i diritti di Jadwiga, venne incoronato anch’egli re di Polonia. Il governo dei due sposi sarebbe quindi paragonabile a una sorta di diarchia, che durò fino al 1399, l’anno della morte di Jadwiga.

Jagiełło, invece, rimase sul trono per altri 35 anni, diventando il capostipite della dinastia degli Jagelloni, che regnerà in Polonia e in Lituania fino al 1572.

albero genealogico Jagelloni
albero genealogico degli Jagelloni
Jagelloni
Sovrani Jagelloni

Oggi Jadwiga è la santa patrona delle regine e della Polonia. Sul suo conto sono nate numerose leggende e la devozione del popolo polacco nei suoi confronti è immensa tutt’oggi. Viene ricordata come una regnante intelligente e benevole verso i suoi sudditi. Finanziò l’Università Jagellonica, la seconda più antica università dell’Europa orientale, frequentata da personalità come Niccolò Copernico, Jan Sobieski e Papa Giovanni Paolo II.

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Tutti delinquenti?

Uno degli argomenti che molti partiti hanno utilizzato e, in alcuni casi, strumentalizzato, durante le ultime elezioni politiche svoltesi in Italia, è stato quello dell’immigrazione e delle conseguenze che tale fenomeno sta portando nel nostro paese.
Oltre alla difficoltà di trovare un lavoro e la conseguente paura che questo possa venire sottratto alla popolazione autoctona, gli argomenti maggiormente utilizzati dalle campagne elettorali sono stati quelli relativi all’ordine pubblico, e al fenomeno della delinquenza della popolazione straniera.
Quindi ho pensato potesse essere interessante proporlo, come oggetto di discussione, nel blog della scuola e per farlo ho scelto di riassumere un capitolo del libro di Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione, pubblicato dalla casa editrice Laterza, perché tratta questo argomento utilizzando dati statistici e, quindi, obiettivi.

La paura dello straniero ha una base fondamentale: il tasso di criminalità. Esso ha solidi fondamenti statistici ma, spesso e volentieri, a questi dati non vengono affiancate delle specificazioni che cambierebbero completamente il significato dei dati stessi. La domanda a cui si cerca di rispondere è la stessa che molti italiani, soprattutto negli ultimi anni, si pongono, ovvero “Gli stranieri delinquono più degli autoctoni?”.

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Incontro con ONG Vento di Terra

Venerdì 16 Marzo abbiamo avuto il piacere di incontrare Massimo Annibale Rossi, membro della cooperazione internazionale “Vento di Terra”, che svolge la sua attività nei territori di frontiera con lo scopo di difendere i diritti umani e dell’ambiente.

La protagonista dell’incontro è stata la Palestina, terra martoriata nel corso della storia. La situazione in questo lembo di terra continua ad essere allarmante. Le origini del conflitto risalgono alla Prima Guerra Mondiale. Con la dichiarazione di Balfour del 1917, la Gran Bretagna dichiarò l’intenzione di destinare una porzione di questo territorio a tutti gli ebrei sparsi per il mondo e nella stessa Palestina. Questa dichiarazione però si scontrava con gli accordi presi con gli arabi (i britannici avevano promesso la Palestina a questi ultimi). Iniziarono così i primi atti di violenza ed opposizione fra popolazione araba ed ebraica. La situazione continuò a svilupparsi ed espandersi, tanto che oggi l’88% del territorio è in possesso di Israele.

Questo conflitto ha comportato l’isolamento e la frammentazione della popolazione palestinese, la privazione di diritti e una condizione di “senza patria”. Inoltre Israele impone pesanti restrizioni sull’economia e continua tutt’oggi a vietare la costruzione di altri campi e di scuole (arrivando addirittura ad erigere un muro), in particolare nella Striscia di Gaza.

I primi a subire gli effetti di questa drammatica situazione sono i bambini, i quali, ritrovandosi quotidianamente davanti agli occhi le conseguenze del conflitto, dello squilibro e dello spazio negato, rischiano di sviluppare a loro volta una forma di aggressività e di perdere la loro identità culturale.

In questo scenario perciò la scuola assume grande importanza, perché oltre ad insegnare nuove nozioni, permette di conoscere quali siano i valori più importanti e consente inoltre di rafforzare un’identità.

A tal fine “Vento di Terra” ha dato vita al progetto “Scuola di gomme” con l’obiettivo di costruire delle scuole, utilizzando semplici materiali che i volontari avevano a disposizione, come ad esempio i pneumatici. Continua la lettura di Incontro con ONG Vento di Terra

Sulla pronuncia della parola joule.

La parola joule indica l’unità di misura dell’energia nel Sistema Internazionale. Deriva dal cognome di James Prescott Joule, fisico inglese del 1800. In Italia la maggior parte delle persone lo pronuncia giaul, scritto all’italiana, [‘dᴣaul] nell’alfabeto fonetico internazionale, mentre secondo me va pronunciato giul, scritto all’italiana, [‘dᴣu:l] nell’alfabeto fonetico. Questo perché il fisico Joule pronunciava così il proprio cognome, come si evince dai dizionari inglesi, dai siti web specializzati in pronuncia e ascoltando persone di nazionalità sia britannica sia statunitense. Sarebbe accettabile la pronuncia diffusa in Italia, se fosse una italianizzazione, cioè la pronuncia di una parola straniera secondo le regole della lingua italiana, come stoccafisso per stockfish, Cartesio per Descartes, oppure mit invece di em ai ti per indicare il Massachusetts Institute of Technology, cidì invece di sidì per indicare i compact disk, e così via. Allo stesso modo trovo corretto che i francesi mi chiamino Lombardò, mentre il mio cognome in italiano è Lombàrdo, questo perché i francesi seguono le loro regole di pronuncia. Ma nel caso della pronuncia diffusa in Italia di joule, non è una italianizzazione, perché non segue le regole della pronuncia italiana. Chi pronuncia così lo fa perché è convinto di usare la corretta pronuncia inglese. [‘dᴣu:l] sembra loro francese. In effetti pare che la famiglia di Joule sia di origine belga francofona, ma al di là della origine della pronuncia di Joule, il problema è che in inglese la pronuncia è questa, e non [‘dᴣaul]. Succede lo stesso con la parola stage, che in Italia si usa al posto della parola tirocinio, e che molti pronunciano all’inglese, mentre è francese e deve essere pronunciato alla francese. Ammetto che l’uso fa la regola, e che spesso ho dovuto pronunciare secondo l’uso, anche se sbagliato, per essere capito. Ma credo che bisogna sempre essere consapevoli della corretta pronuncia, e che è bene tentare di pronunciare correttamente, almeno finché l’uso sbagliato non entri definitivamente nella lingua ufficiale. Meditate gente, meditate.
Luigi Lombardo

Coreis – Una visita in moschea

È risaputo che le gite scolastiche sono da sempre lo strumento educativo più apprezzato dagli studenti. Durante una visita guidata viene fornita agli allievi l’opportunità di apprendere e approfondire le proprie conoscenze tramite un metodo di insegnamento differente da quello tradizionale. Il giorno 7 marzo 2018 alcune classi del nostro istituto, accompagnate dai professori, si sono recate presso la moschea Al-Wahid di Milano in via Meda 9. La moschea è animata dalla Comunità Religiosa Islamica Italiana (Coreis), un’associazione nazionale di musulmani italiani attiva dagli inizi degli anni ’90 con la priorità di testimoniare e tutelare il patrimonio spirituale e intellettuale della religione islamica in Occidente.

Contrariamente alle mie aspettative, l’edificio esternamente si presenta come una struttura regolare, poco imponente e poco decorata. Lo spazio interno è ridotto e ciò permette agli uomini e alle donne di poter pregare insieme, diversamente da ciò che accade in altre moschee.

È importante, secondo me, spronare gli studenti alla curiosità e non alla paura di ciò che è diverso dalla nostra realtà quotidiana. Penso che quello degli adolescenti sia il mondo più soggetto ai dogmi inculcati dalla società e all’intolleranza trasmessa dai social media, e che sia invece importante porre a disposizione degli allievi gli strumenti necessari per comprendere a fondo alcuni concetti, in questo caso particolare l’islam e cosa significhi davvero essere musulmano.

L’islam è una religione monoteista e articolata su cinque pilastri fondamentali che ogni musulmano, per ritenersi tale, è tenuto a rispettare. Il primo pilastro si basa sulla testimonianza di fede, e sulla credenza che non ci sia divinità all’infuori di Allah e che Maometto sia il suo profeta. Il secondo presuppone che i musulmani debbano eseguire la preghiera canonica cinque volte nell’arco della giornata. Il terzo incoraggia l’elemosina rituale. Il quarto dice che ogni musulmano è soggetto ad un digiuno penitenziale durante il dì del mese lunare del Ramadan, ovvero il nono mese del calendario islamico. Il quinto prevede il pellegrinaggio verso la Mecca almeno una volta nella vita.

Nell’islam anche l’atto di consumare un pasto diventa un mezzo di adorazione di Allah, in quanto dimostra la propria osservanza verso le leggi della Sharia. Gli alimenti si suddividono in leciti e illeciti. Un cibo proibito è il maiale, poiché onnivoro e possibile portatore di malattie. Per motivi simili è vietata anche la consumazione di animali carnivori, di uccelli predatori, di rettili e insetti. La carne equina è sconsigliata per una questione di rispetto nei confronti dell’animale; unica eccezione l’asino addomesticato perché ritenuto una risorsa per la comunità. Un altro divieto sono gli alcolici, perché ritenuti opera di satana, danneggiano la salute e ostruiscono la ragione.

Possiamo trarre insegnamento dal lavoro e dai sacrifici, anche economici, delle persone che hanno voluto realizzare questo luogo di preghiera, e personalmente ho apprezzato l’opportunità di potermi confrontare con altre persone su argomenti a me vicini.

18enni al voto

Andare a votare non significa solamente uscire di casa per apporre una croce su una scheda. Andare a votare non significa semplicemente mettere una scheda in un’urna. Andare a votare significa esercitare il diritto fondamentale della democrazia. Significa partecipare alla vita politica e democratica del nostro Paese. Significa scegliere il nostro futuro. Il 4 marzo ’18 si è tenuto uno degli appuntamenti più importanti con la democrazia. Ogni cinque anni andiamo a votare per rinnovare quel Parlamento dove tutti noi veniamo rappresentati, in quelle aule (Camera e Senato) che possono essere definite come “il tempio e la casa della democrazia”. Noi diciottenni ci rechiamo per la prima volta alle urne esercitando un diritto che è stato ottenuto dalle generazioni passate lottando con le armi e con i denti.

Ed è per questo, come già affermato dal Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella durante il suo discorso di fine anno, che noi neo diciottenni (“i ragazzi del ’99”) dobbiamo votare perché noi siamo il futuro e abbiamo una grandissima responsabilità. Per tale ragione la classe 5D ITE il giorno 2 marzo ’18 ha promosso un dibattito rivolto alle quinte del medesimo indirizzo sulla sensibilizzazione al voto. Si ringraziano la prof.ssa Avaldi Maria Teresa e il prof. Cannata Antonino per il supporto e lo sviluppo di questo progetto ritenuto fondamentale e di grande importanza, al fine di trasmettere il significato del più importante strumento di democrazia che noi tutti abbiamo: il voto.

Le elezioni sono alle porte

Le elezioni sono alle porte. Il populismo che permeava l’ambiente in cui i vari candidati esponevano le loro cosiddette “promesse elettorali” è stata forse la mano che ha provocato un fatto di  cronaca gravissimo: una sorta di gesto terroristico in territorio italiano. Ancora più inaspettato è l’attentatore, un italiano, un patriota secondo alcuni, un malato secondo altri: Luca Traini. In merito all’attentato avvenuto nella città di Macerata, tutti abbiamo letto alcuni articoli, e a tal proposito due alunni della 5aE, hanno anche deciso di mettere in luce altri particolari, che sono passati in silenzio ai telegiornali e sulle testate giornalistiche. I miei compagni vi propongono due articoli che affrontano gli stessi temi, con due approcci diversi, ma con lo stesso augurio: che alle elezioni si costruisca una Italia più civile. Due letture interessanti, provocatorie, con punti di vista differenti, che offrono spunti di riflessione importanti, fondamentali considerato il periodo storico che stiamo vivendo, che fanno sperare in una politica che sappia usare non la violenza ma la parola, democraticamente.

Il sonno della ragione genera mostri

Sono passate oltre tre settimane da quando i telegiornali italiani hanno mostrato per la prima volta le immagini dell’attentato di Macerata. Si è discusso a lungo nei giorni successivi, il caso (avvenuto, per altro, nel pieno della campagna elettorale) è diventato per qualche tempo strumento di attacchi reciproci fra partiti prima di perdersi nel solito nulla di fatto e venire definitivamente archiviato tra le pagine di storia del nostro Paese.

Ci si è chiesti dove fossero i nomi delle vittime di questo attacco, perché nessuno parlasse di loro o delle loro vite, ci si è chiesti se fosse giusto che l’attenzione fosse rivolta soltanto sull’aggressore.

Personalmente, penso che sia stato giusto così. Credo sia giusto per diversi motivi; innanzitutto, la cronaca degli attentati ha da sempre teso a concentrarsi sull’attentatore e penso che il motivo sia semplice e condivisibile: in un attacco terroristico le vittime generalmente sono comparse casuali, non esiste un motivo specifico che le porti ad essere vittime designate, sono lo sfogo di una frustrazione, o comunque il simbolo di un messaggio e per questo non vi è necessità di indagare sulle cause che le portano ad essere aggredite. Gli aggressori invece sono ben determinati e il loro ruolo è figlio di una scelta che deve essere approfondita, preoccupandocisi di verificare quali situazioni abbiano portato l’attentatore a compiere l’attacco.

Credo poi che sia stato giusto focalizzarsi sulla figura di Luca Traini per un altro motivo, più personale e legato alla mia visione del Paese: penso infatti che sia corretto mettere al centro dell’attenzione l’italiano che si nutre di odio e crea paura. Noi italiani, infatti, tendiamo sempre a metterci dalla parte di chi subisce il terribile atteggiamento criminale degli immigrati, minacciati dalla loro pericolosa pelle nera, senza chiederci mai quale atteggiamento noi abbiamo nei loro confronti, quale paura possiamo incutere in persone spesso sole, lontane migliaia di chilometri da casa che faticano a comprendere la nostra lingua. Continua la lettura di Il sonno della ragione genera mostri