Il matrimonio per le donne durante l’Ancien Régime

Questo articolo parlerà della libertà che le donne avevano rispetto al loro matrimonio, quindi
soprattutto riguardo la scelta del marito, durante il periodo dell’ancien régime e quindi tra l’XIV e il XIX secolo e della vicenda di una ragazza francese, Chaterine Gent.

Innanzitutto è importante evidenziare che la donna generalmente aveva il diritto di scegliere lo sposo e di rifiutarlo ma ovviamente nel nucleo familiare era l’uomo ad essere il padrone. Inoltre poteva risposarsi qualora il coniuge fosse morto, aveva diritto all’eredità, era libera di praticare una professione e di amministrare il suo salario e le faccende domestiche autonomamente. Il fatto che le donne lavorassero quindi non le limitava all’ambito domestico ma potevano andare, da giovani, a scuola e, poi, recarsi a lavorare. Una riflessione importante derivante da queste informazioni è che le donne nel periodo dell’ancien regime erano molto più libere e rispettate di quanto lo siano ai giorni nostri in molti paesi del mondo.

La vicenda di Catherine Gent è emblematica: nel 1529 la giovane era stata promessa in moglie dalla madre, dopo la morte del padre, a François Martin, tramite un accordo prematrimoniale che Catherine aveva inizialmente accettato. Ella aveva inoltre accettato un regalo dal promesso sposo e dichiarato pubblicamente che si sarebbe fidanzata con lui. Al momento, però, della promessa di matrimonio Catherine si era rifiutata di dare il suo assenso annullando così il matrimonio.

Subito François intentò una causa contro Catherine per aver rotto la promessa di matrimonio. L’avvocato della giovane la giustificò affermando che le promesse fatte in precedenza erano state fatte sotto minaccia e che razionalmente era impossibile che la ragazza volesse sposare François dato che egli era impotente. Anche l’amica di Catherine, Edmonne, testimoniò che la ragazza non aveva intenzione di celebrare il matrimonio e che in particolare la madre l’aveva minacciata che non avrebbe più provveduto al suo mantenimento. La risposta tenace di Catherine era stata: «Sta bene, mamma, sarò felice di fare la domestica, e se non mi permetterete di andare a servizio, preferirei che mi uccideste piuttosto di sposare quell’uomo, e vi perdonerò».

Non sappiamo, però, come andò a finire l’episodio di Catherine. Avrà avuto la meglio la volontà della ragazza o quella della madre?

Questa vicenda ci fa riflettere su come sia importante ricordarsi che molte delle cose che noi oggi diamo per scontato come la parità dei diritti tra i due sessi e la libertà religiosa, per citare due esempi notevoli, sono state conquistate, lottando, da ”piccoli eroi” dimenticati.

Beatrice Bonelli, Alessandro Luberto

Trasporti nell’antico regime

Nel XVIII secolo spostarsi era un problema: i mezzi di trasporto erano molto lenti e le vie di comunicazione erano pericolose, impervie e poco praticabili. Il mezzo di trasporto, o meglio, gli animali da trasporto erano gli equini. Comunque la maggior parte dei trasporti avveniva via mare con navi che potevano trasportare le merci più velocemente ed in maggior quantità. Per questi problemi di spostamento il commercio non era favorito e quindi era abituale l’autoconsumo che comportava così lo scambio di merci, il baratto, solo nei paesi vicini.

Ovviamente le difficoltà nello spostamento creavano problemi nella gestione di un grande regno: i messaggeri per portare informazioni alle periferie di esso dovevano percorrere centinaia di chilometri e ciò impiegava loro molto tempo e l’utilizzo di diversi cavalli. Questo determinava il ritardo delle comunicazioni e i messaggi all’arrivo potevano essere ormai inutili e obsoleti. Le conseguenze di questi problemi rendevano difficile la formazione di complessi politici durevoli e la creazione di grandi imperi: per esempio l’Italia in questi anni era divisa in una decina di piccoli stati anche se, a differenza del nostro paese, la Francia,  l’Inghilterra e la Spagna erano già uniti sotto il controllo di un re e molto espansi territorialmente.

Ora la situazione è molto diversa. I trasporti grazie alla tecnologia sono in continuo miglioramento e ci permettono di percorrere lunghe distanze in poco tempo. Così le comunicazioni sono molto più veloci ed efficienti. I mezzi usati principalmente ai nostri giorni per i trasporti sono le navi, i treni e gli aerei che ,eccetto le navi che ora sono di gran lunga migliori, non erano presenti in quei tempi ed ora possiamo beneficiare di ciò grazie ad un continuo sviluppo della tecnologia.

Catherine portavoce dei diritti delle donne

Nel Settecento, come anche nelle epoche precedenti, all’interno della famiglia il ruolo del marito era quello di fornire un riparo e provvedere al mantenimento della prole e della sposa.
L’uomo pagava le imposte e rappresentava la famiglia di fronte alla comunità. Il dominio della moglie restava invece sempre interno al nucleo domestico. Le donne dell’alta società erano le padrone della casa, dirigevano la servitù, e si occupavano delle proprietà di famiglia.
Il Settecento vide quindi, per quel che riguardava le classi agiate, un aumento della sfera di influenza delle padrone di casa, sulla gestione dei beni. Questo avvenne poiché era ritenuto che la dignità della moglie rappresentasse una conferma della posizione sociale del coniuge.
Anche nelle classi meno abbienti, come quelle dei fattori, il ruolo della moglie, nella famiglia, aumentò di importanza. In genere, però, per quanto l’opera di una moglie fosse ritenuta importante per la prosperità della famiglia, il suo lavoro non veniva mai valutato in termini economici.
Il Settecento vide anche l’incremento delle industrie familiari, e quindi del lavoro femminile all’interno della famiglia. In questo secolo, però, il crescente aumento della produzione, richiedeva anche lunghi ed ingenti spostamenti della forza lavoro maschile. Nei periodi di assenza del capofamiglia, erano le mogli ad occuparsi delle eventuali proprietà o attività familiari. Ma l’assenza dei mariti poteva anche durare per anni, in quei casi, le mogli potevano assumere la responsabilità dell’azienda.
Nel Settecento le giovani ragazze erano costrette dalla famiglia a sposarsi contro la propria volontà per far fronte alle difficoltà dovute a lutti o perdite. Un esempio fu il caso di Catherine Gent (1529), fanciulla che, sotto minaccia, approvò il fidanzamento con François Martin. Per celebrare le nozze mancava solo l’assenso definitivo di Catherine, ma non arrivò mai.
Il motivo per cui Catherine Gent subì tante pressioni è che la giovane aveva effettivamente la facoltà di rifiutarsi di sposare Martin. Questa libertà però era limitata dalla differente considerazione uomo-donna nell’ambito familiare, tuttavia la società europea in cui viveva Catherine, per quanto riguarda i diritti delle donne era molto più avanzata delle altre società e culture del tempo nel resto del mondo.

Sara Peruffo, Giulia Guzzo

Un terremoto benedetto?

Tra il 1894 e il 1908 quattro forti scosse di terremoto devastarono la Calabria e l’Aspromonte. Quella del 1908 è sicuramente uno degli eventi naturali più catastrofici, che hanno colpito l’Europa nel secolo scorso. Si trattò di una scossa di di magnitudo 7,2 che in 37 secondi devastò soprattutto le province di Messina e Reggio Calabria. Il sisma si verificò intorno alle 5:20 di mattina e si stimarono più di 90.000 vittime. La relazione del Senato del Regno (1909) affermava:«Forse non è ancor completo, nei nostri intelletti, il terribile quadro,[…] né ancor siamo in grado di misurare le proporzioni dell’abisso, dal cui fondo spaventoso vogliamo risorgere». Danni causati dal terremoto del 1908La generosità e l’appoggio del popolo italiano non tardarono a manifestarsi e prontamente iniziò la ricostruzione e la distribuzione dei sussidi raccolti, ma, come forse il lettore si aspetta, non mancarono i problemi. Dopo appena due mesi si riscontrarono gravi irregolarità nella gestione del dopo-terremoto. Il governo nominò una Commissione di inchiesta, che redasse una dettagliata relazione, dalla quale emersero gli abusi delle autorità centrali e locali. Come si legge nella relazione, il denaro fornito dal governo fu utilizzato per coprire «spese che avrebbero dovuto far carico ai comuni». Furono costruiti alloggi provvisori e, anche nella gestione di questo provvedimento, i comitati dimostrarono un atteggiamento corrotto. La commissione non si limitò a criticare i funzionari, ma anche la popolazione stessa, che considerò spesso il terremoto una fonte di lucro, tanto da attribuirgli il nomignolo “u binidittu”, il benedetto. La speculazione infine non risparmiò nemmeno la ricostruzione delle case. La Commissione sottolineò anche le responsabilità del governo in merito alla gestione dei fondi, che non vennero distribuiti con la rapidità necessaria e, spesso, in modo iniquo, a causa di negligenze o mancanza di organizzazione.

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Italiani brava gente?

Quando si parla di colonialismo, le prime potenze europee che vengono in mente sono il Regno Unito e la Francia. Tuttavia anche l’Italia ebbe la sua immagine di potenza coloniale, anche se con tratti molto negativi. Nei paragrafi successivi voglio mettere in chiaro l’episodio più famoso del colonialismo italiano: la conquista della Libia, con le sue drammatiche conseguenze.

Il 3 ottobre 1911 l’Italia nel pieno dell’età giolittiana aveva avviato le operazioni militari per la conquista della Libia; appena il giorno dopo gli assaltatori potevano dichiararsi vincitori, in quanto l’occupazione di Tripoli avvenne senza problemi.  La popolazione locale non si sollevò, e questo diede l’illusione agli italiani di poter assumere un atteggiamento paternalistico nei confronti dei conquistati. Tuttavia essi non tennero conto della propria ignoranza riguardo la mentalità delle popolazioni libiche e le loro tradizioni culturali.

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L’importante non è vincere ma partecipare

Pierre De Coubertin
Pierre De Coubertin

I giochi olimpici furono banditi durante il regno di Teodosio, poichè i cristiani ritenevano che queste attività mettessero in evidenza il corpo e non lo spirito e che quindi fossero in linea con le idee pagane. L’iniziativa per la rinascita di questa tradizione sportiva fu  portata avanti dall’aristocratico francese Pierre De Coubertin, che cercava una spiegazione per la sconfitta francese nella guerra contro la Prussia. L’intenzione di De Coubertin era quella di preparare al meglio, dal punto di vista fisico, i giovani francesi; questo però non fu l’unico obiettivo da lui perseguito: la sua intenzione era anche quella di avvicinare le nazioni e permettere ai giovani di confrontarsi tra di loro. Per questo motivo presentò le sue idee in un congresso internazionale alla Sorbona, proponendo come città ospitante dei primi giochi moderni del 1896 Parigi. Il congresso accolse con entusiasmo le sue idee, ma optò per Atene come città ospitante, in quanto città simbolo per i giochi olimpici, nati proprio nell’antica Grecia.

Stadio Olimpico Olimpiadi 1896

Da allora lo sport, e di conseguenza le olimpiadi, andarono incontro ad un continuo progresso: basti pensare che nel 1896, il record mondiale nei cento metri piani lo stabilì l’americano Burke, con il fantastico tempo di 12 secondi, ben lontano dal record olimpico attuale di 9’ 63 realizzato da Usain Bolt nel 2012. L’evoluzione della società ha portato a trasformare i giochi olimpici in uno spettacolo di livello mondiale, dove la competizione fra gli atleti è andata sempre più in crescendo, tanto che la vittoria è diventata ormai un un’ossessione. Oggi i mass media, infatti, non fanno altro che aumentare la pressione e le aspettative sugli atleti partecipanti, i quali non riuscendo a sopportare un peso così gravoso di responsabilità cercano di migliorare le loro prestazioni con sostanze non autorizzate (vedi il caso Schwazer scoppiato proprio questa estate). Tutto ciò si distacca dal fine che De Coubertin aveva provato a dare quando lottò per la rinascita dei giochi olimpici: è necessario quindi riportare lo sport nel suo complesso ad antichi valori ed ideali, quali lo spirito di squadra, il fair play e l’amore per la sana competizione, che da tempo non sono più presenti in molti dei nostri atleti.

Quando il criminale lo si vede dalla faccia

Cesare Lombroso
Cesare Lombroso

Nonostante il fatto che molte delle sue teorie più famose siano oggi abbondantemente sorpassate, di Cesare Lombroso si parla ancora.

Nella sua opera più celebre, L’uomo delinquente, il criminologo sosteneva che ci fosse un rapporto diretto tra i tratti somatici di una persona e la sua indole; dunque studiando attentamente il volto se ne poteva dedurre la pericolosità.
L’antropologia criminale fondata da Lombroso riscosse grande successo fin da subito e fu al centro di numerosi dibattiti. Medici e psichiatri furono attratti dal problema e il mito lombrosiano sorse. Almeno per un ventennio fu il più significativo “prodotto scientifico d’esportazione” italiano. Egli divenne una figura centrale, posta in relazione di volta in volta con Galileo e Beccaria, con Pasteur e Darwin.
Partendo dagli studi delle personalità di numerosi detenuti dell’ospedale del carcere di Torino, diede un personale apporto alla criminologia che fino ad allora aveva preso in considerazione esclusivamente l’aspetto sociologico del malato; ne nacque una “scienza” che univa le diverse discipline.

Ma in cosa consiste esattamente l’antropologia criminale? È una teoria che si proponeva di individuare i delinquenti da alcune caratteristiche somatiche non per punire, ma soprattutto per prevenire i crimini. Fino ad allora la criminologia poteva essere letta come il tentativo di comprendere e giustificare la miseria e le diversità che il capitalismo aveva prodotto dietro ad affermazioni di principio, libertà ed uguaglianza per tutti. Dunque il criminale non è altri che un emarginato che non per colpa sua si trova costretto a commettere il reato; naturalmente questa è una spiegazione semplicistica, ma non si discosta molto dall’analisi che Lombroso faceva dello status quo della disciplina ai tempi della pubblicazione della sua opera.
Egli interpretò le diversità del criminale come fondate sulla natura. Sosteneva che esistessero comportamenti, come l’infanticidio, l’antropofagia o l’uccisione dei vecchi, che non sono altro che la risposta a bisogni primari ed elementari dell’uomo e che il loro ripresentarsi non è altro che la presenza di aspetti primitivi nella società moderna; molti di questi comportamenti verranno considerati delitti dalla società, ma il delinquente in realtà non fa altro che manifestare ciò che è insito nella natura dell’uomo e che la maggior parte delle persone riesce a comprimere, ma alcuni hanno il bisogno di esternare. Fin qui l’antropologia criminale non presenta nulla di rivoluzionario, il problema nasce quando il suo autore cerca di legare questo ragionamento psichiatrico all’aspetto più propriamente fisico. Lombroso individua il principale tratto somatico del criminale nell’atavismo, cioè nell’avere delle caratteristiche fisiche che ricordino l’uomo primitivo, scimmiesche in un certo senso. Dunque la fronte sfuggente, segno anche di poca intelligenza, i seni frontali, la forma parabolica dell’arcata dentaria, il naso trilobato, le anomalie di pelle, di colori, di peluria, l’occhio ferino e la fisionomia selvaggia. Questi caratteri, secondo gli studi lombrosiani, erano più frequentemente riscontrabili tra i criminali rispetto al resto delle persone.

Esempio di criminale secondo Lombroso
Esempio di criminale secondo Lombroso


Il delitto non va dunque considerato come un semplice fatto: occorre studiarne la genesi e soprattutto l’autore da un punto di vista scientifico, antropologico, psicologico, medico; è di per sé un dato naturale e sociale. Naturale perché il soggetto che delinque lo commette sotto la spinta di elementi che appartengono al proprio patrimonio biologico; sociale non soltanto in quanto si sviluppa in un ambiente favorevole, ma anche perché la società ha il diritto di difendersi. E dunque il criminale non sarà punito in rapporto esclusivamente al fatto specifico: dovrà piuttosto essere considerato un disgraziato o un malato dalla cui pericolosità occorre premunirsi.

Per queste sue teore, Lombroso fu prima di tutto un medico psichiatra e nella sua professione fu un luminare. Bisogna però sottolineare che non fu considerato né in Italia né all’estero un antropologo già dai suoi contemporanei: egli era troppo superficiale nei metodi e troppo estraneo ad una disciplina che tentava di giungere a nuove sicurezze ed a generalizzazioni limitate ma certe. Certo è che “L’uomo delinquente” fu pubblicato nel 1876 e, sebbene già negli anni Venti di questo secolo l’autore era considerato un ciarlatano, nel periodo della sua piena attività gli giungevano omaggi, scritti ed oggetti che ne fecero il punto di riferimento incontrastato dello studio di ciò che si pone al di fuori della norma.

Un mondo troppo grande

Nei nostri giorni grazie all’avvento di nuove tecnologie siamo in grado di comunicare quasi istantaneamente da una parte all’altra del mondo, ma fino a due secoli fa questo non era neppure concepibile. Il mondo agli occhi dell’uomo pareva molto più grande poiché vie di comunicazione e mezzi di trasporto arretrati rendevano tutti i viaggi più lunghi e difficoltosi; inoltre non aiutavano di certo un’economia di tipo commerciale, che si sviluppava soprattutto nelle città portuali, mentre l’entroterra era relegato ad un’economia di sussistenza.

Controllare grandi nazioni per esempio era un’impresa piuttosto difficile poiché tutte le comunicazioni con il governo centrale avvenivano tramite dei messaggeri che non avevano modo di percorrere più di un centinaio di chilometri al giorno. Oggi i sistemi di comunicazione sono così efficienti da rendere possibili persino organizzazioni sovranazionali che monitorano o regolano rapporti trai vari stati del mondo.

Anche i contatti con paesi lontani era molto difficoltosi e sporadici e questo spiega anche come alcune invenzioni importanti, come la polvere da sparo, siano arrivate in Europa con molti anni di ritardo rispetto all’Oriente. Con la recente globalizzazione si stanno sempre di più assottigliando le differenze e le distanze dei popoli, basti pensare alla maniera di vivere “all’ occidentale”: si sta diffondendo come modello anche nei paesi asiatici che fino a pochi secoli fa erano molto legati alla loro cultura tradizionale.

caravelle

Condizioni delle carceri e degli ospedali nell’Europa d’antico regime

stilografia di un ospedale seicentesco

Durante il periodo che dal medioevo durò fino al XVIII secolo, le carceri e gli ospedali versavano in condizioni a dir poco pietose. Per prima cosa è necessario specificare che all’epoca il carcere non era considerato una pena duratura come ai giorni nostri, ma era piuttosto un luogo di passaggio in attesa della vera e propria pena. Inoltre il carcere era uno strumento di punizione per coloro che non riuscivano a pagare i propri debiti, per i vagabondi, per gli oziosi e per coloro che venivano fatti scomparire per volere del sovrano: questo era il motivo principale per cui, nella maggior parte dei casi, le prigioni non dipendevano da un’organizzazione statale o da funzionari pubblici, ma la loro sorte era affidata ad appaltatori privati. Essi traevano il proprio guadagno dagli stessi detenuti o, nel caso dei debitori, dai loro parenti. Un ulteriore guadagno proveniva dal creditore, il quale aveva l’obbligo di versare una retta per mantenere il detenuto. Possiamo facilmente dedurre come il mestiere del gestore di carceri fosse alquanto redditizio.

Prendendo come esempio Parigi nel periodo settecentesco, si possono distinguere tre tipologie di carcerati, a seconda della loro pericolosità e dei soldi che potevano elargire.

La prima categoria, che comprendeva i soggetti più pericolosi, era rinchiusa in celle sotterranee prive di luce e di aerazione diretta, in ciascuna delle quali erano accatastati moltissimi detenuti in spazi ristrettissimi; di solito inoltre questi detenuti venivano incatenati alle pareti.

Il secondo gruppo, formato da detenuti poco più fortunati, era custodito in grandi locali comuni simili a camerate, in cui “soggiornavano” circa duecento carcerati sopra giacigli di paglia.

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Il criminale si riconosce dalla faccia

Cesare Lombroso nacque a Verona nel 1835. Oltre ad essere stato medico e antropologo, viene considerato il padre della criminologia. In particolare i suoi studi abbracciano la teoria fisiognomica secondo cui i caratteri psicologici e morali di un individuo, possono essere dedotti dall’aspetto fisico ed in particolar modo dalle diverse espressioni del volto. Sebbene tale disciplina possa sembrare assurda al giorno d’oggi, nell’Ottocento godette di una così grande considerazione da essere addirittura materia universitaria.

Lombroso individua due tipi di delinquenti:

  1. Delinquente nato nel quale il comportamento criminale è insito per natura
  2. Delinquente d’occasione in cui sono fattori esterni a determinare l’atto criminale

I primi dunque, non agiscono in maniera cosciente ma poiché spinti da tendenze malvagie; tutto ciò si riflette sulla fisicità dell’individuo e sulla sua psiche che risultano essere diverse da quelle dell’uomo considerato normale.

Lombroso passò molti anni della sua vita a misurare i crani, la lunghezza dei piedi e le facce dei criminali. Le anomalie fisiche, che potevano essere ritenute delle costanti in tali individui, divennero dei veri e propri indici utili per smascherare i delinquenti. Così si riteneva che in genere i ladri avessero un’ottima manualità, gli occhi piccoli o le sopracciglia folte; oppure che tipico degli omicidi abituali fossero lo sguardo freddo e sanguigno, il naso aquilino e le orecchie lunghe.

Queste descrizioni trovano una corrispondenza in alcuni disegni e in alcune fotografie raccolte nel testo Atlante dell’uomo delinquente.

fisiognomica di criminali
Esempi di fisiognomica di criminali, secondo Lombroso

Tale idea secondo cui la criminalità è fortemente connessa a particolari tratti somatici è peraltro molto antica; ve ne sono prove già nell’Iliade di Omero in cui la devianza dell’anti-eroe Tersite è collegata alla sua bruttezza fisica e persino le leggi medievali sostenevano che nel caso in cui due persone fossero state sospettate di un reato, la colpa sarebbe dovuta ricadere sulla più deforme.

Se inizialmente con Lombroso si assisteva ad un una vera e propria concezione di determinismo assoluto, in cui l’uomo che agisce è privo di ogni libertà, anche a causa delle critiche ricevute, egli andò via via correggendo la sua teoria arretrando rispetto alla concezione di partenza.

Finì per sostenere che i delinquenti nati fossero solo una piccolissima parte di coloro che infrangevano le regole e che ogni atto criminale fosse determinato da diverse cause.

Inevitabilmente anche il concetto di “pena” cambiò in quest’ottica; se il crimine più che frutto di una libera scelta è la manifestazione di una tendenza insita nell’uomo, di una sorta di “malattia”, allora anche la pena deve diventare uno strumento di tutela della società e non solo una punizione (non ha senso infatti punire chi non è libero di scegliere).

Dopo la morte del padre della criminologia, anche le sue teorie finirono per essere accantonate grazie all’intervento della psichiatria che ben presto si occupò di smascherare l’infondatezza scientifica di tali concezioni perché erano fonte di enormi pregiudizi che, ahimè, ci accompagnano tutt’ora. A quanti di noi è infatti capitato di dire: “ma guarda quel ragazzo: ha proprio una faccia da…!”? Be’, probabilmente a tutti.

Serena Bendetto, Arianna Mandelli.