Il 18 gennaio 1919 a Parigi si tenne la Conferenza di pace in cui i vincitori della Prima guerra mondiale (Francia, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti) stabilirono le condizioni di pace. Gli Stati sconfitti furono convocati solo per la firma dei trattati.
I principi che dovevano ispirare gli accordi di pace erano stati già esposti dal presidente americano Woodrow Wilson nel gennaio del 1918, quando davanti al Senato degli Stati Uniti aveva presentato Quattordici punti che riassumevano i progetti statunitensi per le future relazioni internazionali. Wilson richiamava al rispetto dell’autodeterminazione delle nazioni, della libertà dei mari, in sintesi di quei principi democratici in nome dei quali la Triplice Intesa – l’alleanza con cui Francia, Gran Bretagna e Russia entrarono in guerra – si era impegnata nel conflitto. (Chi fosse interessato a leggere il testo completo dei “Quattordici punti”, può trovarlo cliccando sul link posto qui di seguito: http://it.wikipedia.org/wiki/Quattordici_punti).
Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa sul calcio per non vedenti, quindi eccovi qui alcune veloci informazioni!
Ebbene sì ragazzi e ragazze, esiste anche il calcio per non vedenti! Come primo pensiero verrebbe da dire “Veramente? Ma come cavolo fanno a giocare?” (però non ridere, saresti una brutta persona!); le regole sono queste:
Il campo è quello del calcetto (a cinque) modificato con protezioni sulle linee laterali per evitare le rimesse. Il pallone non rimbalza molto e presenta al suo interno dei sonagli, in modo che i calciatori possano riconoscere acusticamente la sua posizione in ogni momento; i giocatori sono tutti non vedenti, tranne il portiere, ma vengono comunque bendati per non avvantaggiare quelli che hanno maggiore grado di visibilità (ad esempio alcuni riescono a distinguere la ombre). A bordo campo c’è l’allenatore (vedente) che detta istruzioni su come muoversi. Le partite sono formate da due tempi regolamentari da 25 minuti ciscuno.
Il primo campionato venne organizzato negli anni Ottanta in Brasile, e nel 2004 il calcio per non vedenti ufficialmente entrò a far parte delle discipline Para Olimpiche. Il brasile ha già vinto 3 mondiali di Calcio per Ciechi; anche chi perde, però, è già vincitore di una grande impresa.
In questo articolo voglio approfondire un aspetto della Rivoluzione Russa che ai nostri giorni appare discutibile: Lenin, che voleva edificare il socialismo in una società come quella Russa di inizio Novecento, ha tradito Marx? O piuttosto è stato Marx a tradire le aspettative di Lenin?
Lenin, il cui nome di nascita era Vladimir Il’ic Uljanov, fu particolarmente colpito ai tempi della sua formazione politica da un episodio familiare spiacevole: l’impiccagione del fratello maggiore Aleksej, populista, coinvolto in un complotto contro lo zar. Dopo questo evento Lenin decise di prendere le distanze dal populismo (i cui metodi terroristi erano da lui ritenuti dannosi e inutili) per avvicinarsi al marxismo. Le sue idee non furono ben accolte dal regime zarista, che lo perseguitò per diversi anni dal 1895. Nel 1900 si rifugiò in Occidente dove entrò in contatto coi circoli socialisti russi.
Nel 1902, in vista del congresso del Partito operaio socialdemocratico russo, Lenin preparò un testo intitolato Che Fare, nel quale espose i principi del suo marxismo-leninismo. Lenin in pratica reinterpretò il pensiero di Marx, adattandolo però alla situazione russa, dove l’impossibilità di un’opposizione legale, il dispotismo e l’arretratezza sociale non permettevano di applicare gli strumenti delle lotte politiche occidentali. In parole povere Lenin affermava che:
La lotta politica è prioritaria rispetto alle rivendicazioni sindacali;
Il proletariato da solo non è in grado di realizzare una rivoluzione, per questo la lotta doveva essere guidata da un partito di “professionisti della politica”;
Il partito non può essere democratico, perchè deve educare le masse all’ideologia marxista e guidarle alla conquista del potere.
Il problema era che la Russia non aveva i prerequisiti per applicare la rivoluzione socialista prevista da Marx: non era capitalista e la classe operaia era debole e poco numerosa. Tuttavia, Lenin era convinto che la rivoluzione si potesse e dovesse fare; il suo obiettivo era ottenere l’aiuto dagli altri paesi europei che avrebbero aiutato la Russia a svilupparsi e a realizzare con successo il comunismo.
Poiché Lenin aveva rifiutato il terrorismo e la tesi del ruolo-guida del proletariato, si distanziava dai populisti, ma al tempo stesso non rifiutava alcune loro tesi fondamentali, tra cui la necessità di creare un’élite di rivoluzionari. In questa situazione molti marxisti hanno osservato criticamente che egli puntava alla creazione del socialismo non con lo sviluppo economico e sociale del capitalismo quanto piuttosto con l’azione di un gruppo minoritario organizzato. Mentre per Marx la rivoluzione avviene proprio con il progresso economico e sociale, per Lenin la rivoluzione avviene con la volontà di conquista del potere; ecco perché il marxismo per Lenin fu reinterpretato in una prospettiva “partitocentrica”.
Si intuisce così che Lenin ha probabilmente tradito Marx; tuttavia, non è sbagliato affermare il contrario, ovvero che Marx avrebbe tradito le aspettative di tutti i comunisti. Nella storia nessuna rivoluzione ha poi seguito perfettamente lo schema ipotizzato dal filosofo. Il comunismo è nato solo nei paesi dove è mancato lo sviluppo del capitalismo, non è nato invece dalla sua contraddizione. Il marxismo in questo modo era diventato l’ideologia di élites d’intellettuali e delle minoranze della classe operaia. I marxisti delusero sempre le aspettative di chi sperava in una modernizzazione industriale che il debole capitalismo non era in grado di assicurare.
Ho iniziato come bidello nel novembre 1975. Poi ho fatto il maestro e, dal settembre 1988, il professore. Sono stato in un Consiglio di Circolo e in un Consiglio Scolastico Distrettuale. Ho fatto il rappresentante sindacale, il collaboratore del preside, il vicepreside della sezione staccata, la funzione strumentale, l’aggiornatore…
Sin dai primi anni, ho visto colleghi mal pagati spendersi e spendere per la scuola ben oltre i loro obblighi.
Da decenni, ormai, mentre i diritti degli insegnanti si restringono, la scuola non potrebbe funzionare bene senza il loro volontariato.
L’ho sempre fatto anch’io. Ma, forse, abbiamo sbagliato.
Domanda: sinceramente, che utilità ha il nostro Giornalino della scuola?
Per esperienza personale, pensiamo che lo spreco di carta, di tempo e di inchiostro sia stato maggiore rispetto all’interesse da parte dei ragazzi. In questi anni abbiamo assistito a continui tentativi di creazione di un Giornalino intelligente e soprattutto interessante, ma purtoppo non si può negare che ogni singola pubblicazione sia stata abbastanza un fallimento. Anche se tutti gli anni l’iniziativa è partita con entusiasmo e con i più buoni propositi, pensando ” questo sarà l’anno buono!”, i risultati non ci sono stati. Il problema principale, probabilmente, è il fatto che nessuno si sia mai davvero interessato e impegnato nell’impresa e nella creazione degli articoli. Molti ragazzi si sono presi a cuore la situazione, e apprezziamo, però a questo punto, ci deve essere qualcosa che non va nella “catena di montaggio”. Anche l'”IPSE DIXIT”, l’unica sezione del Giornalino che attirava l’attenzione, nei vari numeri è andato decadendo: alla fine, pur di non eliminarlo, essendo obiettivamente la prima (e forse l’unica) parte ad essere cercata dai lettori, venivano riportate battute che non facevano ridere. Per non parlare poi della grafica! Sicuramente c’è qualcuno che potrebbe fare un lavoro un po’ più carino: che vada a salvare il Giornalino!! (fa anche rima 😉 ) L’aspetto fa tanto! Sappiamo che per una grafica di qualità e magari fatta anche a colori, i costi sono parecchio alti e forse una scuola come la nostra non si può permettere di “sprecare” questi soldi, anche se un giornalino curato sarebbe davvero una buona cosa. Altro problema credo sia il fatto che probabilmente i computer su cui la redazione lavora non sono adatti per un lavoro all’avanguardia e accattivante. E perchè non incentivare i ragazzi a scrivere articoli? Potrebbe essere un buon imput quello di dare crediti a chiunque si metta in gioco per migliorare quello che, di fatto, potrebbe essere un distintivo della nostra scuola. Sarebbe anche più interessante trovare articoli che non riguardano solo la scuola, ma anzi, riguardanti la zona, o ancora di più, relativi alle proposte che il comune di milano ci offre, sotto tutti gli aspetti. Cercare un tema del mese non sarebbe neanche una cattiva idea, e siamo quasi sicure che anche con delle piccole modifiche sensate la gente inizierebbe ad appassionarsi maggiormente.
Noi abbiamo provato a snocciolare le questioni e i problemi più rilevanti, sperando che magari il nostro articolo abbastanza provocante porti dei miglioramenti, sempre che siano possibili.
La nostra non vuole essere una critica gratuita a chi si occupa del Giornalino, siamo le prime che lo vorrebbero, ma piuttosto che così non è forse meglio farne a meno?
Alessandro II, zar dal 1855, tentò di attuare una politica di riforme. In particolare, nel 1861, abolì la servitù della gleba. Ogni contadino avrebbe ricevuto in uso permanente la terra che sino ad allora aveva lavorato come servo. Questa legge, però, non migliorò le condizioni di vita dei contadini perché era previsto il pagamento di un riscatto, ma i contadini spesso non riuscivano a pagarlo e finivano col perdere la terra a vantaggio dei contadini più ricchi, i kulaki. Il malcontento favorì la diffusione del nichilismo e del populismo.
I nichilisti avevano posizioni materialiste e positiviste. Esaltavano le scienze esatte e rifiutavano la tradizione ed i doveri familiari e religiosi. Non avevano alcuna fiducia nelle riforme proposte dalla classe dirigente.
I populisti, invece, erano il movimento slavofili. Si opponevano a chi avrebbe voluto imitare i modelli capitalistici occidentali (gli occidentalisti) e sostenevano una via nazionale allo sviluppo della Russia. Questo sviluppo sarebbe partito dalla classe contadina. Gli slavofili, infatti, idealizzavano il popolo contadino, le sue tradizioni e la sua stabilità. I populisti intendevano alfabetizzare i contadini e renderli coscienti della loro condizioni; il loro scopo ultimo era l’abbattimento dello Stato, da sostituire con comunità agricole. Uno dei loro metodi di lotta era il terrorismo.
Il sofista Protagora è ricordato soprattutto per una massima che sembra riassumere tutto il suo pensiero: «l’uomo è misura di tutte le cose». Possiamo affermare che anche per Socrate è così, ma il pensiero socratico è tutt’altro che in accordo con quello sofista. Perché? La risposta ruota attorno al diverso significato che si attribuisce al termine uomo. Protagora, dice Platone, ha una visione relativista della realtà e con il termine uomo intende il singolo individuo. E allora non esistono più né un vero né un falso, perché ogni uomo ha una propria visione del mondo e ciò che appare giusto a qualcuno può essere sbagliato per qualcun altro. Socrate invece, il cui merito è proprio quello di aver rivoluzionato la filosofia legandola a problemi etici e alla cura dell’anima, non potrebbe mai negare la presenza di un criterio oggettivo di giustizia o di verità. Con uomo egli intende il genere umano, l’umanità intera. Per Socrate solo l’uomo può giudicare ciò che è creato dall’uomo stesso, e ciò che non lo riguarda non dovrebbe interessarlo. In effetti quando affermiamo un concetto o esprimiamo un’opinione l’unico punto di vista che possiamo utilizzare è quello umano. E quale altrimenti? Non siamo in grado di immaginare ciò che va oltre la nostra realtà e per questo cerchiamo di attribuirgli caratteristiche umane. È questo il motivo per cui ci è impossibile tentare di comprendere chi sia Dio e che sembianze abbia e per questo non siamo capaci di immaginare il nulla. Parallelamente ciò vuol dire anche, come scrisse il poeta latino Terenzio che «se sono un essere umano, nulla di ciò che è umano può apparirmi estraneo». L’uomo infatti secondo Socrate deve sempre andare alla ricerca della verità e ciò non è davvero possibile se non si vive in relazione con altri esseri umani. Solo attraverso il dialogo e il confronto con gli altri è possibile la confutazione delle nostre idee e quindi un arricchimento della conoscenza. Ma quella che egli chiama dialettica non è utile solo al fine della confutazione e al raggiungimento della verità. Socrate afferma infatti che «nessuno compie di male volontariamente, ma solo per ignoranza». Questo vuole forse dire che l’uomo è naturalmente incline al bene? Sarebbe impossibile affermare una cosa simile: basta basarci sull’esperienza. Ma l’affermazione di Socrate si basa su un fatto: l’uomo è naturalmente incline alla felicità che nasce dal compiere il bene. Chi compie il male dunque semplicemente non sa cosa sia il bene. E come è possibile sapere cosa sia il bene? Semplice, il bene è ciò che ci rende felici. E come facciamo a sapere ciò che realmente ci rende felici? Conoscendo noi stessi. È proprio questa l’altra utilità del dialogo con gli altri, la conoscenza di noi stessi. Anche se è vero che Socrate non prende in esame quelli che sono gli aspetti emotivi dell’uomo, attraverso cui la ragione può essere offuscata, io credo che se una persona riuscisse davvero a capire cosa desidera, la ragione e i sentimenti allora riuscirebbero a convivere pacificamente. Anche perché in fondo, si può davvero parlare di una netta distinzione tra i due all’interno dell’essere umano?
“La parola è una gran dominatrice che, anche col più piccolo e invisibile corpo, cose profondamente divine sa compiere.” Così scrive Gorgia, aggiungendo “si può dire che la parola sta all’anima come la medicina al corpo. Infatti, come alcuni farmachi eliminano dal corpo queste o altre indisposizioni, e certi guariscono, altri uccidono, così le parole.” E’ davvero così? Ha realmente tutto questo potere la parola, tanto da poter essere considerata una “medicina” per l’anima? Di certo, la parola è molto più forte e importante dell’azione, in quanto, appunto, colpisce l’anima e non il corpo. E, si sa, è molto più semplice ferire l’anima di qualcuno. La parola è in grado di far riflettere, pensare, ragionare. Un buon discorso può cambiare radicalmente le cose. Ne abbiamo esempio ogni giorno, dai discorsi dei politici alle semplici parole di un amico. La magia delle parole avvolge, strega, incanta la gente; ogni parola racchiude in se’ una forza che può essere sprigionata in qualsiasi momento. E’ proprio questa forza che influisce sull’anima e che condiziona noi e il nostro essere. Una canzone ripete “sono solo parole”, come se volesse convincerci che realmente le parole sono ciò che conta di meno, e qualsiasi cosa, anche la più semplice, è più importante. Il problema sta nel fatto che le parole rimangono in noi per tempi lunghissimi, a volte per sempre, e raramente cicatrizzano. Restano vive, pronte a ferire o rallegrare in momenti meno opportuni. Ma cosa saremmo noi senza la parola? Senza la possibilità di comunicare, se non a gesti? Gorgia ha espresso in poche righe l’unica verità della parola: è una medicina. E le medicine non sempre guariscono.
In origine il mondo era un luogo buio e quasi completamente disabitato; solo due creature infatti abitavano la Terra: due animali coperti da un folto piumaggio. Le loro piume possedevano ognuna un colore diverso dalle altre. Quando sulla Terra arrivò la luce, in seguito all’allontanamento di una grande nube che aveva fino a quel momento coperto il Sole, gli animali cominciarono a perdere le piume, non abituate alla luce. La prima piuma che persero fu quella di colore azzurro; essa diede origine al cielo. Poi si originò la terra, dalla piume marrone, l’erba da quella verde, il mare da quella blu, il fuoco da quella rossa; le stelle vennero create dalla piuma gialla. Gli animali cominciarono ad osservarsi scoprendo le caratteristiche fisiche che li diversificavano tra loro; in comune avevano uno strato di pelle rosa e una leggera peluria rimasta dalle piume che li avevano ricoperti fino a poco tempo prima.
In un epoca non definita, sul nostro pianeta, l’ umanità era vittima di un’ingiustizia divina.
Dovete sapere infatti che allora regnava incontrastata una entità superiore chiamata dio delle tenebre. Era a capo di un’ armata di ladri, briganti e uomini senza scrupoli. Incessantemente incutevano timore negli animi della gente, soprattutto di notte, quando le tenebre avvolgevano ogni luogo.
Solo una persona, o meglio un dio, osava contrastarlo: suo fratello minore. Gli esseri umani lo chiamavano liberatore perché aveva donato agli uomini una lanterna. Essa aveva un potere sovrannaturale: anche se conservata in un punto molto lontano dagli uomini era in grado di illuminare con un forte bagliore il percorso dei viaggiatori e di proteggerli nella notte buia.
Fu così deciso di custodire questa lanterna in un luogo sacro e segreto ma ben presto venne rintracciata e rubata dal dio delle tenebre. La paura ripiombò su tutti quanti. A chi chiedere aiuto? Per fortuna, c’era il liberatore.
Egli si schierò ancora contro il fratello e dopo una lunga battaglia che vide opposti il bene e il male, riuscì a recuperare la lanterna. Ma dove metterla per impedire un nuovo furto?
Il salvatore alzò gli occhi al cielo in cerca di ispirazione e la soluzione si materializzò… da quel giorno la notte è rischiarata dalla luna.