Poveri, ora come nel Trecento

Poveri ai margini della strada
Poveri ai margini della strada

I poveri c’erano allora, come adesso. L’epoca di cui parliamo è il Trecento, anni caratterizzati da una profonda crisi, economica, demografica e sociale. Ma come venivano trattati allora i poveri?

Una profonda contraddizione segnava la società: se da una parte i poveri erano cacciati e considerati malvagi, dall’altra essi costituivano un modo per redimersi dai propri peccati. Le ingiustizie che subìvano erano molte: spesso non potevano neppure avere alloggio negli asili di una stessa città per due notti di fila, pena la forca. Il povero era isolato: non aveva nome, né documenti, e anche dopo la morte era separato dagli altri, in fosse comuni. Ma riceveva nello stesso tempo asilo e aiuti da ospedali, confraternite e corporazioni. I mercanti istituirono il “conto di messer Domeneddio”, che raccoglieva le elemosine concesse ai poveri. Oltre alle singole corporazioni, che prevedevano sostegno e assistenza in favore dei membri in difficoltà, i poveri erano anche ricordati nei lasciti testamentari: non c’era miglior mezzo infatti per espiare i propri peccati.

Penso ora a ciò che succede nel presente. Anni luce lontano dal Trecento, sembra. Eppure, i mendicanti che supplicano per pochi euro, che giacciono ai lati delle strade, scansati dai passanti, raccontano un’altra storia. Il modo in cui essi sono oggi trattati è così diverso da quello del Trecento? Di sicuro c’è una maggior sensibilizzazione nei loro confronti: non sono più considerati malvagi o cacciati con brutalità dalle città. Ma se nel Trecento essi erano anche sofferenti da aiutare, anche solo per la salvezza della propria anima, ora non è più così: i più poveri ed i mendicanti guardano dal basso della loro posizione i passanti, che, il più delle volte, li ignorano, imbarazzati dalla sporcizia e dalla ripugnanza in cui vivono, ma troppo lontani dalla loro realtà per allungare una mano in loro aiuto. Certo, le organizzazioni umanitarie tentano di rendere le loro condizioni più sopportabili, ma la maggior parte delle volte questo non è sufficiente. Nel Trecento, benché l’obiettivo fosse puramente egoistico, un aiuto veniva fornito anche dalle persone comuni.

Ed allora io mi domando: possibile aver fatto un passo indietro rispetto ad un’epoca in cui gli ebrei e i lebbrosi erano accusati e perseguitati perché considerati gli untori che diffondevano la peste?

La concezione della morte dopo il ‘300

«A peste, fame et bello, libera nos, Domine» [oh Signore, liberaci dalla peste, dalla fame e dalla guerra]: era questa la principale invocazione che durante il XIV secolo il popolo di tutta Europa aveva elevavato a Dio.

Agli inizi del Trecento le città europee e i comuni italiani avevano raggiunto un grado abbastanza alto di prosperità: nacquero società commerciali di importanza internazionale, si svilupparono nuove attività manifatturiere, vi fu quindi un periodo di maggiore sviluppo economico, con aumento della produzione agricola e un notevole incremento demografico. Ma questo benessere finì presto.
Infatti, il XIV secolo fu caratterizzato da una profonda crisi economica, sociale e politica. Ci furono forti cambiamenti climatici (intere annate di pioggia, stagioni sempre o troppo fredde o troppo umide o troppo secche) che provocarono numerose carestie. Queste portarono all’indebolimento della popolazione, che divenne più esposta alle epidemie, in particolare di peste, che dal 1348-1349 fino ai primi decenni del Quattrocento colpirono quasi tutto il continente, con un conseguente crollo demografico.
Ed è proprio delle conseguenze della peste che voglio parlare, in particolare della diversa concezione della morte che essa presentò.

Durante quasi tutto il Medioevo la morte era vista come un traguardo a cui aspirare ed era attesa con la tranquilla, rassegnata consapevolezza della fine. Essa, per altro, cristianamente intesa, non era una cosa di cui dolersi: numerose testimonianze dimostrano che la morte era una fine attesa ardentemente o addirittura invocata (si basti pensare al “Cantico delle creature”, in cui San Francesco esprime la sua lode a Dio per la nostra fine terrena). Tuttavia, a partire dal Trecento, accanto a questa idea “consolante” della morte ne apparve lentamente un’altra.

L’elevata mortalità dovuta all’epidemia di peste rese l’approccio con l’idea della morte molto diverso. La vita troppo breve ed il timore della malattia spinsero gli uomini ad essere amareggiati nel dover abbandonare l’esistenza, a considerare quindi l’età che passava come una punizione: iniziarono a sentire così la necessità di vivere al meglio ogni momento, di godere delle gioie della vita. Col maggior diffondersi della peste in Europa, questo nuovo amore per l’esistenza terrena si faceva sempre più forte, portando di conseguenza orrore per la morte ed rimpianto per la vita.

Una visione, quindi, di paura per la vita dell’aldilà, di rimpianto per l’esistenza corrente, ma comunque di piena coscienza dell’inevitabilità della fine terrena. Tuttavia, pur assumendo un nuovo terribile aspetto, pur essendo considerata come una tragedia misteriosa (per la rapidità e la brutalità con cui arrivava), la morte divenne anche una presenza costante, un fatto di tutti i giorni: era diventata familiare. Infatti gli artisti (dando il via a una vera e propria arte macabra) presero a rappresentare nelle loro opere vivi e morti gli uni accanto agli altri, esprimendo in tal modo la fragilità dell’esistenza e la consapevolezza della morte.

E al giorno d’oggi la nostra concezione della morte qual è? È mutata rispetto a questa? O anche noi proviamo veramente paura della morte?
Ma indipendentemente dal nostro pensiero, credo che sia fondamentale sottolineare una cosa, che gli europei del Trecento avevano ben capito e che forse noi oggi a volte dimentichiamo: la vita è una e breve e, quindi, va vissuta al meglio, tra gioie e dolori.

Socrate sbagliava

L’uomo, inconsciamente, cerca, sempre e comunque, la felicità. Chi riesce a capire che essa si trova solamente facendo del bene, riuscirà a raggiungerla. Chi non avrà abbastanza ragione da capirlo, commetterà il male senza mai essere felice.
Questo è, riassunto, il pensiero di Socrate, filosofo del V secolo prima di Cristo.
Colui che non sa, colui che ignora, commette quindi crimini involontariamente, solo a causa dell’ignoranza, credendo di agire nel bene. Questo pensiero porta a dire che sia meglio subire un’ingiustizia piuttosto che commetterla.
Nonostante il pensiero di Socrate non abbia nulla a che vedere con la dottrina cristiana, a mio parere si ritrova una delle più celebri frasi del cristianesimo: “porgi l’altra guancia”. Invece di commettere ingiustizie, sopportane una tu.
Ma com’è possibile pensare ciò nel XXI secolo, fatto di violenza, cattiveria ed egoismo? Dove chi porge l’altra guancia sa che c’è una grande probabilità che venga colpito una seconda volta.
Se è vero che la cattiveria nasce dall’ignoranza, il mondo oggi sarebbe un “se potrei” verbo congiuntivo.
La gente è cattiva non perché è ignorante, ma semplicemente perché fare del male è più semplice che fare del bene. Perché chi fa del bene non viene ripagato, perché la voglia di essere più forti, più degli altri, porta alla violenza.
O per “farla pagare”. Nel mondo di oggi, la frase giusta sarebbe “occhio per occhio, dente per dente”, non “porgi l’altra guancia”.
Probabilmente non si potrebbe nemmeno chiedere a una madre che ha perso un figlio di non augurare il peggio alla persona che le ha portato via per sempre il suo bambino, o di non metterlo in atto quel peggio se ne avesse la possibilità.
La domanda che resta è: chi commette ingiustizie, reati, chi commette del male, è felice?
Se si pensa ai grandi dittatori della storia, quali Hitler o Stalin, credo che la risposta sia si. Il loro sogno era sconfiggere il più debole, e più ebrei morivano, più Hitler era felice.
Chi vince una guerra, nonostante abbia causato milioni di morti in molti casi, è felice. Felice di aver ottenuto ciò che voleva.
Il male nasce dall’egoismo. Dal non saper condividere con gli altri, dall’ossessione del potere.
Socrate sbagliava: chi è cattivo, malvagio, è consapevole di farlo. Agisce consapevolmente. Qualcuno lo farà anche perché nessuno gli ha mai insegnato a fare diversamente, ma molti dei “cattivi” lo fanno per interessi personale, scegliendo quindi di farlo.

Chi sa di non sapere può mettersi alla ricerca della verità. Ma come trovarla?

Secondo Socrate la ricerca della verità può avvenire solo se non si sopravvaluta il proprio sapere e se si ammette la propria ignoranza. In effetti solo chi è consapevole di non sapere può imparare qualcosa, e chi, invece, contrariamente all’ignorante, presume di sapere, non solo non potrà imparare (perché già sa, o meglio, crede di sapere), ma non rifletterà, se non per cercare conferme a quanto crede, e assumerà inevitabilmente una posizione immobile, tra una presunta conoscenza della verità e la verità stessa, che non raggiungerà mai perché fermo in una situazione immutabile.

Ora mi chiedo: si può raggiungere la verità?
La si può certamente cercare, ma secondo chi o cosa, la presunta verità raggiunta è la verità “vera”? E poi, al momento del raggiungimento di ciò che si ritiene verità, si può affermare di aver finalmente concluso la ricerca? O ci si trova nella situazione iniziale, in cui si crede di sapere e quindi non si sa?

Per Socrate la verità si trova solo nel dialogo. Il filosofo, infatti, grazie alle sue domande, dimostra l’ignoranza dell’interlocutore, lo purifica dall’errore perché sia disposto a cercare la verità. Da quel che ho capito, Socrate desidera un ampio confronto per rendere così più complete le risposte. Grazie alla confutazione ed alla maieutica, indica il percorso per giungere alla verità. Eppure, non sono convinta. Qual è il criterio per stabilire se abbiamo, finalmente, raggiunto la verità o soltanto crediamo di averla raggiunta? Socrate non si esprime al riguardo.

Così siamo tornati al punto di partenza e per procedere si suppone di non sapere, in modo da poter riprendere la ricerca della verità. Ma quando questa avrà una fine? O meglio, avrà mai una fine?

L’uso della parola secondo Gorgia

La parola assume un’importanza fondamentale nell’arte oratoria, ma i contenuti concreti rappresentano, in un discorso, l’elemento indispensabile alla base della comunicazione e dello scambio di opinioni.

Gorgia non sarebbe d’accordo. Egli adopera le parole come mezzo per persuadere, ingannare, portare a termine qualunque progetto, utile o dannoso, buono o cattivo che sia. Di conseguenza, se si considera la parola solo come mezzo per convincere l’interlocutore, inevitabilmente le si attribuisce un significato negativo: con una simile considerazione e dimestichezza della retorica, Gorgia si burla di colui che ascolta, riesce a fargli cambiare opinione, e con ciò, dimostrargli la sua superiorità in campo oratorio.

Tuttavia, non si può certo affermare che la retorica e l’arte del saper parlare risultino poco importanti in un discorso: la loro presenza è di grande aiuto per un’efficace comunicazione del messaggio. Infatti, Gorgia non si serve dell’arte oratoria con il solo fine di dimostrare la sua bravura, ma anche per suscitare emozioni e comportamenti nell’interlocutore. Svolge quest’azione sottoponendo l’ascoltatore a ciò che definirei un’azione ipnotica. Ciò che fa, è servirsi della parola intesa come pharmakon, ovvero “medicina” o “veleno”, per annullare la consapevolezza di chi ascolta e far perdere così il contatto con la realtà. Il questo modo l’intelletto e la ragione rispondono inconsciamente.

Eppure mi sembra che qualunque sia il ruolo della parola secondo il filosofo Gorgia, esso rivesta un significato negativo: persuasione, inganno, ipnosi sono alla base delle sue riflessioni. Qual è insomma lo scopo delle sue confutazioni? Dimostrare ciò che ritiene vero o mettere alla prova le sue abilità?

La retorica è utile solo se è al servizio della ragione, quando l’oratore non fa appello soltanto ai sentimenti, alle paure, ma aiuta i suoi interlocutori a ragionare perché sappiano governare e controllare tali emozioni.

Istituto Calvino. . .E’ importante avere i Rappresentanti degli Studenti !!!

Stemma Studentesco

Scrivo come ex-studente ma anche come ex-rappresentante d’Istituto e di Classe.
Perchè l’articolo?
Ecco. . . ho pensato che fosse utile per tutti gli studenti, sia maschi che femmine, che avessero in mente di fare qualcosa di concreto per l’Istituto ma che non sapessero da dove partire.  Nessun ragazzo ha iniziato,presumo, sapendo già cosa fare, quando farlo e per quanto tempo. Tutti sono partiti da 0.
Le situazioni, le occasioni e le esigenze fanno apprendere più delle parole.
Ragazzi è fondamentale che ci sia, in questo Istituto come in tutti gli altri, una rappresentanza studentesca!
Perchè il punto di vista dello studente non è lo stesso per il preside, per i genitori e per gli insegnanti.

Anche se ”solo” studenti è possibile fare moltissimo per l’istituto sia inteso come ragazzi che come scuola. Non dimentichiamo che qualsiasi persona che ha fatto qualcosa di grande, prima è stata studente 😆 . . .
La priorità deve essere il bene di tutti, l’impegno a parte vostra sempre costante, per  TUTTI.

Non si è un bravo Rappresentante se lo si fa perchè si vuole saltare  ore di lezione o perchè non si ha altro da fare. Ma perchè lo si vuole fare.
Candidatevi,vivete l’istituto non solo come scuola ma come momento per interagire, conoscere ed imparare.
Candidatevi per i compagni e scoprirete che lavorando per loro, farete del bene anche a voi stessi.
Candidatevi perchè si matura assumendosi responsabilità e dimostrando di saperle mantenere!!!
Buona fortuna a tutti i candidati, rappresentanti e consiglieri presenti e futuri!!!

F.M.G.

La peste nera: di chi è la colpa?

Trionfo della Morte
Trionfo della morte, già a palazzo sclafani, galleria regionale di Palazzo Abbatellis, palermo (1446) , affresco staccato

Tra il 1347 e il 1348 la gente cominciò a morire di peste in modo rapidissimo. Gli uomini del tempo ritenevano il contagio manifestazione della collera divina e, come in tutte le stragi e le epidemie, il pensiero della morte si faceva sempre più presente nella vita dei cittadini. In questa atmosfera nasceva così l’esigenza di riuscire ad esorcizzare la paura della morte, che colpiva spesso in maniera improvvisa e brutale amici e familiari. Molti erano coloro che approfittavano del disagio comune per improvvisarsi indovini e stregoni e vendere filtri magici, unguenti e portafortuna, a loro detta in grado di allontanare il flagello della peste. Ma ciò non bastava. Come sempre a fronte delle grandi calamità della Storia, si sentiva il bisogno di attribuirne la causa a un popolo o a una comunità di persone, che fungevano appunto da “capro espiatorio”. La colpa questa volta ricadde sugli ebrei e sui lebbrosi. Indicati come “agenti di Satana”: erano accusati di inquinare le acque e avvelenare l’aria.
Ma perché prendersela proprio con gli ebrei?
Per capire, bisogna cercare l’origine dei conflitti tra cristiani ed ebrei. I giudei erano considerati innanzitutto gli “uccisori” di Cristo, in quanto questi fu giudicato e condannato da un tribunale ebraico. Le cose andarono poi peggiorando con il pontefice Urbano II durante le spedizioni delle crociate, quando il cristianesimo cominciò a essere ostile non solo all’islamismo, ma anche alle altre religioni con le quali era venuto in contatto.
Vi erano ovviamente anche motivazioni socio-economiche: gli ebrei svolgevano quelle attività finanziarie, come il prestito di denaro a interesse, che la chiesa riteneva moralmente sbagliate, ma che permettevano loro di esercitare una grossa concorrenza nei confronti dei mercanti e degli artigiani europei. Spesso gli stessi nobili si trovavano in difficoltà con il pagamento dei debiti e risultava comodo in quei casi un odio “strumentale” nei confronti degli ebrei. Dal 1347 quindi questo popolo si trovò flagellato sia dalla peste, sia dalle persecuzioni cristiane. Gli ebrei erano in poche parole “diversi” e risultava facile mettere il popolo contro di loro.
Ciò che però mi sembra importante cercare di capire è il perché sia necessario attribuire ingiustamente a una categoria ben precisa di persone la responsabilità della malattia. Spesso, come accadde anche nel XVII secolo con la peste di Milano, la necessità di un capro espiatorio, in quel caso i famosi “untori”, era finalizzata a nascondere la responsabilità di qualcun altro come lo stato, che aveva cercato di fingere che tutto andasse bene. Ma non credo che nel Trecento fosse ben chiaro chi avesse per primo sparso il contagio, quindi probabilmente il motivo era un altro. Dopo che la chiesa considerò eretiche le pratiche di stregoni e indovini, la gente si trovò “sola” a combattere per la propria vita e il pensiero della morte si faceva più vicino ogni volta che essa colpiva parenti e familiari. L’uomo si è da sempre sentito impotente nei confronti della natura e d’altronde è così, ma ciò era difficile da accettare. E’ difficile ammettere che l’unica cosa possibile è affidarsi alla provvidenza, quando si vedono persone care morire davanti ai propri occhi. Tutto ciò che sembrava lontano appare incredibilmente vicino e possibile. Ecco perché la necessità di un capro espiatorio: per cercare di ridurre un pericolo inarrestabile a una causa concreta che può essere sconfitta. La cosa è di certo poco razionale ma del resto, scrive anche un maestro yoga orientale: “La più sottile di tutte le afflizioni è l’attaccamento alla vita: anche l’uomo saggio ne è toccato”.

La Congiura delle polveri del 5 novembre 1605

V con la maschera di Guy Fawkes

La “Congiura delle polveri” del 5 novembre del 1605 fu un complotto organizzato da un gruppo di cattolici inglesi contro il re ed il governo inglese. Il piano era quello di far esplodere la Camera dei Lord e di uccidere così il re Giacomo I d’Inghilterra ed il suo governo durante la cerimonia di apertura del parlamento inglese.

Il complotto fu ideato da Robert Catesby. Egli riteneva esaurite le vie pacifiche per ottenere una politica di tolleranza per i cattolici e, di fronte a una persecuzione che non diminuiva, pensava alla violenza come ultima risorsa. Il piano fu svelato in una lettera consegnata al re venerdì l’1 novembre 1605. Nella notte del 4 novembre Guy Fawkes venne trovato in possesso di trentasei barili di polvere da sparo; fu quindi arrestato e torturato e infine giustiziato.
Che cos’era successo?
Nel primo incontro, i congiurati avevano giurato di mantenere il segreto (tenendo la mano destra sulla Bibbia). Il piano era quello di far esplodere il Parlamento per eliminare il re ed il suo governo e metter fine alle pressioni sui cattolici. Questo avrebbe ucciso anche tanti innocenti, ma i congiurati ritenevano che il valore dell’operazione fosse tale da compensarne la morte.
Bisognava poi trovare un Protettore, ovvero un uomo subito pronto a governare per riportare l’ordine e per introdurre le riforme religiose che erano l’obiettivo principale dell’impresa. I cospiratori scelsero come Protettore il conte di Northumberland: aveva simpatie per il cattolicesimo ed era parente di uno dei congiurati. Inizialmente si era deciso di parlare del piano al conte così non che non fosse andato alla cerimonia, ma poi si decise di lasciare tutto al caso e di scegliere un Protettore tra i superstiti dell’attentato (seguendo una lista nella quale Northumberland era il primo).

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