Socrate aveva bisogno della cicuta come Gesù della crocefissione…

“Socrate aveva bisogno della cicuta come Gesù della crocefissione, gli serviva per realizzare la sua missione, per lasciare per sempre una macchia sulla democrazie ateniese.”

Così scrisse nel 1988 Isidor Feinstein Stone, un famoso giornalista americano che pubblicò nel medesimo anno una detective story su Il processo di Socrate.
Gesù doveva morire sulla croce per espiare i peccati e redimere il mondo. Venne crocefisso perché considerato bestemmiatore in quanto aveva dichiarato di essere il figlio di Dio.
Socrate fu condannato a morte perché accusato di corrompere i giovani: parlava ai ragazzi nelle piazze, nelle vie, attirando la loro attenzione. Questo lo fece scambiare per un sofista che attaccava spavaldamente la classe politica ateniese smascherandone l’ignoranza. Il filosofo quindi era considerato un personaggio scomodo ed inevitabilmente fu condannato nel 399 a.C. e morì nel medesimo anno costretto a bere un veleno.

Gesù prima di morire disse : “Padre perdonali … non sanno quello che fanno”. Socrate, alla fine del processo che lo condannò a morte: “È giunto ormai il tempo di andare, o giudici, io per morire, voi per continuare a vivere. Chi di noi vada verso una sorte migliore, è oscuro a tutti, tranne che al Dio”.
Secondo me queste frasi sono molto importanti: sigillano la fine della missione dei due uomini.

Dunque la considerazione di Stone è pertinente anche se molti la giudicano azzardata. Infatti il filosofo decise di morire per non violare le leggi e per  lasciare una macchia indelebile nella democrazia ateniese: anche se gli amici, a cominciare da Critone, ritennero che la soluzione migliore fosse quella della fuga dal carcere in cui Socrate era prigioniero, egli rifiutò l’aiuto. Infatti furono raccolti danari, per ottenere la complicità dei carcerieri e per sostenere le spese del trasferimento all’estero di Socrate assicurandone l’ospitalità. Bastava solo convincerlo ma egli rispose che, anche in questa circostanza, bisognava attenersi al principio ma soprattutto bisognava vivere bene, cioè secondo giustizia; perché non conta vivere ma vivere bene: questo principio, che tante volte condivise con gli amici e con quelli che con lui si intrattenevano a discutere, non poteva ma soprattutto non voleva tradirlo.

Quanto vale la parola

La parola è una potente signora, che pur dotata di un corpo piccolissimo e invisibile compie le opere più divine: può far cessare il timore, togliere il dolore, produrre la gioia e accrescere la compassione.

Già da questa frase si può dedurre quale valore Gorgia desse alla parola: la parola è differente dalla realtà, non ci permette di esprimere l’essere. È quindi ingannatrice, capace di mutare il pensiero altrui. Secondo Gorgia la verità non esiste e perciò non conta, ciò che conta invece è la capacità di argomentare. Infatti non è il contenuto dei discorsi ciò che persuade e convince la gente bensì il modo in cui ci si esprime. Per fare un esempio, parlava del fratello, che nonostante fosse medico e sapesse molto più di lui nel campo della medicina, non riusciva mai a convincere i pazienti a prendere le medicine prescritte bene come faceva Gorgia. Questa secondo lui era la dimostrazione che la parola pronunciata esercita la sua influenza sulle emozioni degli ascoltatori, non sulle loro capacità intellettive. La potenza della parola è equiparata da Gorgia alla potenza dei farmaci e degli incantesimi magici. Gorgia cerca anche di spiegare come ottenere gli effetti persuasivi sui propri interlocutori, cosa che non era mai stata trattata da nessuno prima di lui. Probabilmente, studiando le reazioni emotive e gli effetti che certe parole causavano sulle persone, Gorgia ha tentato di trovare il modo di utilizzare al meglio la parola come strumento per convincere. Fa parte di questo studio sulla parola anche l’Encomio di Elena nel quale Gorgia tenta di difendere la moglie di Menelao dalle accuse che la ritenevano la causa della guerra di Troia. Ma di fondo resta il fatto che Gorgia tenta di dimostrare che con la parola si può, mediante un opportuno utilizzo, ribaltare il convincimento popolare, risultato di secoli di tradizioni, a proprio piacimento. Infine per far percepire la potenza della parola, Gorgia conclude ad effetto dicendo che la sua opera vale sì a difesa di Elena, ma che a lui è principalmente servita per diletto. Se nulla è, le parole non sono verificanti; anche Elena, che dalla tradizione antica greca è criticata assai aspramente quindi può essere innocente e degna di compassione.

Ciò che afferma Gorgia ha valore anche nella società moderna, basta pensare a quale sia uno dei diritti fondamentali che viene negato all’uomo sotto una dittatura: quello di parola. Perché il suo potere non è cambiato, anche oggi la parola è in grado di persuadere e convincere ma soprattutto di esprimere i nostri pensieri, per questo è la prima ad essere tolta, così da non farci comunicare e confrontare le nostre idee per formare un’opposizione al dispotismo. Succede però anche nella democrazia, dove bugie convincono gli elettori a votare per politici i quali hanno fatto promesse mai mantenute.

La parola è quindi un fantastico dono che l’uomo ha, ma anche un’arma per eludere e far del male, tutto dipende dall’uso che si fa di questo dono. La retorica è oggi un arte utilizzata soprattutto nei tribunali e in politica, ma anche nelle pubblicità dove si compiono ormai studi per trovare modi sempre più semplici per convincere le persone. L’arringa finale di un avvocato potrebbe scagionare un uomo accusato di omicidio che magari era veramente colpevole, o al contrario potrebbe far incarcerare un innocente, il giusto discorso in una campagna elettorale potrebbe aggiudicare il posto di presidente del consiglio a un candidato che magari poi si rivelerà non pronto per quella carica. Il potere di questo “dono” sembra essere immutato visto che gli scopi sono gli stessi: convincere o ingannare, è l’uomo che poi sceglie come usarlo.

La peste nel XIV secolo

Tra il 1347 e il 1348 cominciò a svilupparsi in Europa una devastante epidemia, la peste, malattia trasmessa all’uomo attraverso la puntura delle pulci dei ratti.  La morte rapida ed inspiegabile di uomini, donne e bambini cagionò paura all’interno di molte popolazioni, poiché non si conoscevano le cause.

Questa grave malattia si presentò in tre modi differenti: la peste “bubbonica”, definita così perché si manifestava con ascessi e tumefazioni delle ghiandole inguinali e ascellari, quella “polmonare” che colpiva i polmoni e quella “setticemica”, che si manifestava con ampie emorragie che davano luogo a chiazze nere. (La peste polmonare non si manifestò in Europa, ma solo tra i minatori della regione della Manciuria).

Gli uomini del Trecento chiamarono la malattia peste nera o morte nera. Perché? Alcuni storici pensano che il termine si riferisse alle macchie provocate dalla peste setticemica. Altri ritengono che questa espressione oscura volesse semplicemente dire “terribile” o “senza scampo”.

Come reagirono gli uomini del Medioevo? Pensarono che questo terribile flagello manifestasse una collera divina. I medici ipotizzarono che la malattia fosse legata alla “corruzione dell’aria” e consigliavano alla popolazione di evitare l’aria al di sopra delle acque stagnanti e degli acquitrini, di eliminare i cumuli di sporcizia, di lavarsi molto spesso le mani utilizzando acqua e aceto e soprattutto di tenersi lontano dai malati.

La malattia ci fu probabilmente portata dai corrieri mongoli che percorrevano l’Asia centrale,  fino a raggiungere l’Europa,  facilitando il contagio attraverso i topi annidati nei sacchi di grano, e fu aggravata dall’assenza di un sistema fognario nelle città che offrivano un ambiente ideale i ratti ed i loro parassiti.

Si capì presto che la miglior convenzione consisteva nel chiudere le porte delle città ai viandanti ed ai mercanti forestieri. Fu così che la città di Milano riuscì a scampare al contagio.

Tuttavia i medici del Trecento, non poterono arrestare questa devastante epidemia: non avevano sufficienti conoscenze scientifiche e non disponevano di farmaci adeguati.

 

Riportiamo un bianco alla Casa Bianca

Foto di Jamie Sabau

Quando si discute di Apartheid, sembra di parlare di un fatto lontanissimo, passato e ormai concluso. Ci si limita all’analisi degli eventi con la lettura dei libri di storia, i quali, senza troppa enfasi, mettono in luce qualche nome, come Mandela.

La lotta dei neri d’America avvenuta negli anni Sessanta del secolo scorso, per l’emancipazione, per l’affermazione dalla propria dignità e delle proprie origini, è già stata gettata nel “dimenticatoio”, specie da chi non l’ha vissuta in diretta.

Affrontare superficialmente casi simili di discriminazione, è come condannare tali fatti ad una progressiva perdita di significato e di rilevanza storica, ma prima di questo, significa dare l’impressione di aver portato a termine la lotta al razzismo e di averlo finalmente debellato.

Ma l’avversione per la pelle scura è stata veramente superata? No. Per capirlo, è sufficiente prendere la metropolitana o il tram, dove ci si ritrova a dover scegliere se sedersi o no affianco “all’uomo nero”. Non sono certa se sia meglio definirla paura o ignoranza, ma è manifesta, quasi tangibile, nonostante i tentativi di repressione.

E a conferma di quanto affermato, ecco un fatto avvenuto durante le elezioni del nuovo presidente americano: nella folla di sostenitori ne emerge uno a favore di Mitt Romney con uno slogan a dir poco offensivo rivolto all’avversario Barack Obama.

Lo chiamano Extreme anti-Obama sentiment: la sua notizia ha sconvolto e riempito i siti web, la fotografia è stata condivisa nei social network e su Google è reperibile per oltre 12 mila risultati.

Il colore della pelle diventa un motivo valido per cui un uomo rischia la perdita di una nomina tanto importante quanto quella di presidente, come se essere di colore fosse una colpa, un peccato imperdonabile. Era necessario usare il razzismo come arma? E a quale scopo? Vincere la nomina alla White House.

Quindi, si è trattato di un forte tentativo di convincimento della parte di americani bianchi che avrebbero votato per Obama. Eppure è stato inutile. E’ triste sapere che gli sforzi di tanti uomini neri che in passato hanno tentato di affermare la propria dignità, siano resi vani da un così breve, crudo e senza dubbio incisivo slogan. E’ come scivolare da una parete rocciosa poco prima di essere arrivato alla fine e dover riprendere la scalata dall’inizio.

Tuttavia non importa quanti americani siano stati a favore di una frase discriminante, ma di quanti non lo siano stati. Pensiamo al fatto che, nonostante le difficoltà, “l’uomo nero” abbia finalmente colorato la Casa Bianca.

…we rise and fall together, as one nation, and as one people
Barack Obama


L’oscurità e la luce

Il mito, la parola deriva dal greco mythos, è una narrazione il cui scopo è quello di spiegare i misteri del mondo, le sue origini, i suoi valori, il suo senso, di definire le relazioni tra gli dei e gli uomini. In altre parole, è un tentativo di dare risposte ai quesiti fondamentali che l’uomo si pone sui fenomeni naturali sull’esistenza.
Ogni fenomeno della vita, compresa la morte, ha una spiegazione logica che può essere ritrovata nei simboli e nelle costellazioni raccontate nei miti. I miti riproducono in allegorie, metafore e simboli, il tentativo di integrare l’individuo dando senso alla sua sofferenza e ponendolo al riparo dal suo terrore. Spesso le vicende narrate nel mito hanno luogo in un epoca che precede la storia scritta.
Inoltre, i suoi protagonisti solitamente sono dei ed eroi come protagonisti delle origini del mondo in un contesto sacrale.
Un esempio di mito potrebbe essere la spiegazione del perché c’è il giorno e la notte.
Se non sapessimo che la terra ruota attorno al sole potremmo immaginare questa spiegazione: un gigantesco drago tiene in mano la terra ed è eternamente indeciso se divorare o no la terra-palla.
Quindi quando la tiene è in mano è giorno mentre quando la mette in bocca è notte.

Scacchi: i vincitori del terzo turno, i qualificati, uno spareggio

Ecco i vincitori degli incontri di venerdì 23 novembre 2012

  • Girone A: Busseni
  • Girone B: Nan Men
  • Girone C: Prevedini
  • Girone D: Tornabene Francesco
  • Girone E: Comini
  • Girone F: Cappelli (per assenza dell’avversario)
  • Girone G: Rattenni
  • Girone H: Rossicone

I Gironi B, D, F, G hanno concluso la prima fase eliminatoria. Si qualificano per la fase successiva:

  • Nan Men e Lisanti (Girone B);
  • Tornabene Francesco e Sassi (Girone D);
  • Tornabene Eric e Cappelli (Girone F);
  • Rattenni e Villanucci (Girone G).

Nel Girone C si è già qualificato Prevedini, mentre verrà disputato lo spareggio tra Vadacca e Venin.

pezzi

Socrate e Gesù: due personaggi simili?

Gesù
Il Consolatore, Carl Heinrich BlochSocrateTesta di Socrate, Museo del Louvre

Nel 1943 Romano Guardini, sacerdote ed intellettuale italiano, naturalizzato tedesco, pubblicò La morte di Socrate, analisi di alcuni dialoghi platonici (Eutifrone, Apologia, Critone e Fedone). In quest’opera Guardini accosta la figura di Socrate a quella di Gesù, prendo spunto da questo paragone per aprire una riflessione. Secondo me quello di Guardini è un accostamento molto interessante in quanto Socrate e Gesù hanno molti aspetti comuni:

  1.  Sia Gesù sia Socrate introdussero qualcosa d’innovativo nelle rispettive società. Con Socrate, la filosofia si spostò dal ramo della natura a quello dell’uomo e dei suoi problemi (politici, religiosi) e per questo può essere definito il creatore di una nuova mentalità filosofica, possiamo definire rivoluzionario (ovviamente in ambito religioso) Gesù stesso. Gesù capovolse totalmente la concezione religiosa di allora, la dottrina da lui insegnata può riassumersi, molto brevemente, nell’amore verso Dio e verso il prossimo. Egli preferiva utilizzare concetti concreti, che rimangono in mente, e per questo si serviva d’iperboli, paradossi e parabole.
  2. Nessuno dei due personaggi lasciò nulla di scritto, i loro gesti ci sono stati narrati da altri scrittori. Grazie ai dialoghi Platonici conosciamo quella che è stata la vita di Socrate, dalle sue abitudini alle accuse che lo porteranno in tribunale e alla morte; mentre i Vangeli, sia canonici che apocrifi ci narrano la vita di Gesù.
  3. Entrambi sono stati condannati a morte per motivi principalmente politici. Il politico Anito porta Socrate in tribunale con accuse infondate; Gesù viene processato perché si definiva il re dei Giudei.
  4. Sia Socrate sia Gesù vanno incontro alla morte senza paura. Come racconta Platone nell’Apologia, Socrate affronta la morte con fiducia che la vita nell’aldilà sia migliore di quella terrena; Gesù è pienamente consapevole di quello cui va incontro e sa anche che tornerà di nuovo in vita come c’è narrato dai Vangeli.
  5. Sia Socrate che Gesù invitano l’uomo al rispetto delle leggi terrene. Socrate non fugge la propria morte per non tradire le leggi (come raccontato nel Critone). Gesù invita l’uomo a seguire la legge e la giustizia terrena avendo fede nella giustizia divina infallibile.

Questi sono i principali aspetti comuni che sono riuscito a individuare in Socrate e Gesù.