Sabato pomeriggio. Seduta sul letto guardo un programma, più precisamente un talent show di canto e ballo, “Amici”, che purtroppo è andato perdendo di qualità di anno in anno ma nonostante ciò continua ad appassionarmi. Poi ad un certo punto si sospende il programma e danno la pubblicità. Mi sembra strano, dovrebbe mancare ancora mezzora. Invece scopro che da quest’anno l’ultima mezzora sarà dedicata a “La scimmia”, un reality dove dei ragazzi frequentano una scuola e si sfidano per raggiungere la maturità con il massimo dei voti. Avevo sentito parlare di questo programma e del fatto che fosse stato sospeso per i pochi ascolti, ma non me ne ero mai interessata. Provo ad ascoltare, magari ho capito male, magari lo scopo del reality è un altro. No, è proprio così, ci sono interrogazioni, verifiche e voti. Ci sono ragazzi diciottenni che lasciano la scuola per frequentarla all’interno del reality e ci sono ragazzi che addirittura non hanno raggiunto la maturità negli anni passati e tentano di farlo davanti alle telecamere. Ci sono discussioni, si sentono frasi come “io sono venuto qua per studiare” oppure “non trovo giusto che certa gente cerchi scappatoie” e c’è addirittura chi sostiene che è troppo faticoso, chi raggiunge a stento la media del due e si lamenta, chi ha usato i soldi datigli per l’iscrizione a scuola per scopi personali. Ho l’impressione che essi non si rendano proprio conto di cosa voglia dire studiare davvero, studiare per se stessi, studiare per la speranza di essere premiati in futuro e non di essere pagati per farlo. Strano però, anche loro sono stati studenti. Ora mi chiedo: qual è il messaggio che dà questo programma? A cosa serve studiare se poi c’è gente che non lo ha fatto e non solo ha un’altra occasione, ma viene addirittura pagata per sfruttarla? Cosa devono pensare i giovani davanti a trasmissioni come questa? Non è forse una strumentalizzazione dell’insegnamento? Voi cosa ne pensate?
L’importanza e il ruolo della parola secondo Gorgia
“La parola sta all’anima come la medicina al corpo”
Così Gorgia spiega l’importanza della parola.
Secondo lui infatti, essa ha una grande potenza ed è una “gran dominatrice”.
Ha il potere di corrompere la mente e di ingannare l’opinione pubblica, difatti, come sostiene Gorgia, sono molte le persone che sono state ingannate su alcuni argomenti con innumerevoli discorsi.
Inoltre aggiunge che anche Elena, che aveva deciso di tradire il marito Menelao e seguire Paride, è stata persuasa dalla forza della parola, quindi il suo gesto è giustificato…
Le parole possono addolorare, incutere timore, divertire, altre avvelenano, incantano e fanno piangere…
Gorgia intende affermare che essa è uno strumento multiforme che può essere usato non solo per fini buoni, per esempio quando Gorgia difende Elena, ma anche per quelli cattivi, come nella vicenda di quest’ultima.
La retorica è quindi una tecnica e ciascun uomo è responsabile dell’uso che ne fa.
Secondo Gorgia quindi la parola ha un grandissimo potere.
Credo però che chi fa un uso cattivo dell’arte oratoria, per quanto possa saper parlare bene, se lo sta facendo con una persona abbastanza sveglia che non si lascia ‘ipnotizzare’ dalle sue parole, non potrà mai ingannarlo. Ma quando l’oratore parla con persone ingenue, la maggior parte delle volte riesce a portare a termine il suo scopo.
Secondo me questo non significa che la parola abbia un grande potere, ma è l’ingenuità di colui che ascolta che lo fa sembrare.
Infatti nella storia sono molti quelli che con i loro discorsi sono riusciti a convincere le persone a fare gesti orrendi, per esempio Hitler, che con i suoi discorsi ha ingannato un sacco di persone, facendogli credere che stava facendo del bene.
L’arte oratoria che è usata per scopi buoni, ad esempio per convincere le persone a fare del bene, come hanno fatto grandi persone come Ghandi e Madre Teresa di Calcutta, non sfrutta l’ingenuità della persona ma la sua capacità di ragionamento.
Risultati della quarta giornata del torneo di scacchi
- Girone A: Vitale vince contro Siniscalco
- Girone C: Vanin vince “a tavolino” (per assenza dell’avversario) e si qualifica per la fase eliminatoria successiva
- Girone E: Comini pareggia con Ferla, mentre Malcovati vince con Lo Surdo
- Girone H: Cappellini vince contro Corniani e Rossicone contro Magri.
L’ultima giornata di questa prima fase eliminatoria si svolgerà giovedì prossimo, quando avranno luogo gli ultimi quattro incontri riguardanti i gironi A, E, H.
Il virus che sconvolse il mondo
Nel biennio del 1918-1919, quando ancora era tempo di guerra, si diffuse in tutta Europa un’influenza che fece circa 22 milioni di morti. Fu chiamata “spagnola”, perché si credeva provenisse dalla penisola iberica. In realtà ebbe origine soprattutto in Cina e Nord America e da, queste zone, fu portata in Europa. I lavoratori e soldati vivevano in condizioni misere e ciò favorì il diffondersi di epidemie. In Spagna, ci furono circa 8 milioni di contagiati.
I principali sintomi erano: tosse, dolori in gran parte del corpo, sonnolenza, febbre alta. Solitamente apparivano anche complicazioni polmonari, che tuttavia cessavano con la scomparsa della febbre dopo 3 giorni. Ma proprio l’abbandono del letto comportava una ricaduta fatale. La malattia si diffuse in Europa, Stati Uniti, India, Nuova Zelanda, Africa del Sud e Australia. Per questa malattia si ebbero anche manifestazioni di razzismo: a Varsavia le misure igieniche furono limitate al ghetto perché gli ebrei, secondo un decreto ufficiale, erano considerati “nemici dell’ordine e della pulizia”.
Un miliardo furono i contagiati, e gli stati in cui si registrò un maggior numero di morti furono Messico, Brasile, Russia, Italia, Inghilterra, Spagna e Francia, e in India ce ne furono ben 12 milioni.
Le cause della mortalità furono diverse: alta virulenza del virus, mancanza di antibiotici e le già cattive condizioni igienico-sanitarie della popolazione, e in particolare dei soldati.
Come in altre epoche storiche, comparvero superstizioni di ogni tipo: per esempio, negli Stati Uniti furono fucilati diversi medici accusati di essere spie Tedesche, poiché ritenuti responsabili del contagio, così come in Italia si credeva che l’influenza venisse diffusa dai netturbini attraverso il disinfettante sparso per le strade. La paura del contagio ebbe drastiche conseguenze: molti campi furono abbandonati, collegamenti ferroviari tra Berlino e la Svezia e tra Spagna e Portogallo furono interrotti. Ne risentirono soprattutto molte industrie.
Le contromisure consigliate dai medici furono vane. Furono chiusi i teatri, gli ippodromi, le sale da concerto, i grandi magazzini. L’unico rimedio veramente efficace fu sottovalutato dai medici: l’utilizzo di una mascherina protettiva per coprire bocca e naso.
Riccardo Cannistrà e Federico Minoldo
La guida indiscussa dell’URSS
Dal 1912 Stalin, il cui vero nome era Iosif Vissarionovič Džugašvili (in russo: Ио́сиф Виссарио́нович Джугашви́ли), iniziò ad firmarsi con il nome di “uomo d’acciaio”, pseudonimo con il quale voleva sottolineare la propria forza di volontà che lo contraddistingueva dagli altri compagni del partito. Era un uomo di umili origini e aveva abbandonato gli studi teologici per dedicarsi alle teorie di Marx e Lenin.
Prendeva parte a riunioni segrete di organizzazioni politiche antizariste e, per questo, venne arrestato ben sette volte . Nel 1917 tornò in patria dopo un periodo di esilio e insieme a Kamenev diresse un quotidiano di orientamento bolscevico. Né Trockij né Lenin avevano molta stima nei suoi confronti e tentarono di ostacolare la sua “ascesa” al potere. Nonostante ciò, proprio grazie al ruolo che aveva assunto all’interno del partito, Stalin ebbe la meglio sui suoi oppositori.
Per raggiungere il successo egli applicava quattro regole personali:
- ogni metodo è giustificabile se aiuta a raggiungere il successo;
- gli uomini devono essere messi da parte quando non servono più;
- le alleanze sono fatte per essere rotte;
- le idee non hanno valore, se non sono legate al potere.
Siccome si sentiva in condizioni di inferiorità rispetto agli altri membri del partito, iniziò a studiare a fondo per ampliare la propria cultura, si interessò alla storia e alla filosofia; cercò poi di superare la propria paura di parlare in pubblico. I discorsi di Stalin erano comunque molto schematici: ciò faceva molta presa sul pubblico che considerava questo fatto un segno di grande saggezza. Inoltre le sue apparizioni erano molto rare e per questo più sentite dal pubblico. Tutto ciò era stato pensato con il fine di creare un mito attorno alla sua figura.
La sua spietatezza era però un dato di fatto. Molti documenti dimostrano come egli eliminasse i “nemici del popolo” con estrema facilità, senza risparmiare neppure i parenti. Ma tutto ciò era possibile anche a causa dei collaboratori che non si opposero mai alle sue decisioni e non si preoccuparono mai di provare a frenare un uomo che si stava dimostrando a tutti gli effetti un dittatore. Questa incondizionata obbedienza aveva però un secondo fine: solo così gli uomini più vicini a Stalin riuscirono a sfuggire alle purghe.
Stalin fu anche protagonista di un triste primato, quello di far uccidere in un solo giorno più di 3000 persone di cui non conosceva né i reati né le accuse: pronunciò la condanna come se fosse una pura formalità.
Il dittatore morì per emorragia celebrale il 5 marzo 1953, senza mai pentirsi o rinnegare le sue opere crudeli.
Chiara C.
Socrate: il male è generato dall’ignoranza
Socrate ne era fermamente convinto: il male è generato dall’ignoranza.
Vissuto nel V secolo, il suo modo di fare filosofia considerato troppo invasivo e diretto non piacque alla maggior parte dei suoi concittadini.
Per Socrate la filosofia era un vero e proprio modo vivere.
“Nessuno compie il male volontariamente” e “la virtù è conoscenza” sono due dei pilastri fondamentali del pensiero socratico.
Socrate aveva cieca fiducia nella ragione. Secondo lui l’uomo, naturalmente incline alla felicità, l’avrebbe potuta raggiungere solo attraverso il bene, e il bene, poteva essere fatto solo attraverso la conoscenza e la ragione. Il male, di conseguenza, era fatto involontariamente e per ignoranza.
Come detto prima quindi, il male è generato dall’ignoranza. Se un uomo è ignorante, è chiaro che è portato a compiere il male e quindi non potrà mai essere felice.
C’è qualcosa nella convinzione di Socrate che a parer mio non quadra.
Chi è a conoscenza del bene, cioè colui che potrebbe prendere la strada “giusta” può decidere di non seguirla scegliendo l’opposto: la strada del male. Questo non sempre accade per ignoranza ma anche per volontà. È la volontà che spinge l’uomo a optare il bene o il male.
Socrate non ne aveva tenuto conto.
L’uomo è libero di scegliere, niente gli impedisce di prendere la strada sbagliata, quella che avrà conseguenze negative.
Se così non fosse, come si spiegherebbero tutti i massacri e i “buchi neri” della storia? Si potrebbe credere che le stragi compiute da questo o quell’altro fossero state fatte per ignoranza; io credo più per volontà. Hanno scelto di farlo, consapevoli delle proprie azioni e delle conseguenze. Secondo il ragionamento socratico dovremmo definire ignoranti, privi di cultura e conoscenza tutti i Re, dittatori, uomini di politica che nella storia hanno compiuto cattive azioni, ucciso, massacrato, sperperato odio e terrore fra gli uomini; o semplicemente tradito la loro patria o la fiducia del popolo. Non l’hanno fatto per ignoranza, magari qualcuno sì, forse anche per pazzia; però la maggior parte l’ha fatto per scelta.
Penso sia palese che tutti gli uomini abbiano come obbiettivo comune la felicità. Ma ognuno di noi può raggiungerla attraverso strade differenti, secondo la propria volontà.
Se un uomo sceglie la strada sbagliata non è detto che lui la consideri tale. Così come se un uomo sceglie la strada giusta, qualcuno potrebbe non considerarla tale.
In questo caso entrano in gioco anche i diversi punti di vista delle persone e le diverse percezioni di bene e male.
Il pensiero di Socrate quindi, oggi può apparire paradossale e riscontrare divergenze in diversi punti.
Molto probabilmente sono cambiati i modi di pensare degli uomini, le concezioni di significato e le abitudini. In questo modo il messaggio che Socrate voleva inviare agli uomini arriva a noi falsato dalle nostre percezioni.
Egli sbagliava nell’essere convinto di saper distinguere in maniera precisa il bene e il male. Il bene e il male sono concezioni soggettive nella maggior parte dei casi. Socrate ragionava in modo oggettivo, come se un “qualcosa” doveva per forza essere bene o male, giusto o sbagliato, bianco o nero.
Non teneva in considerazione dei diversi costumi e mentalità dei popoli, dei diversi pensieri degli uomini del suo tempo. Sbagliava in questo. Ciò che per lui era giusto, doveva esserlo per tutti.
Per esempio: un genitore può ritenere giusto (quindi bene) accontentare il figlio nel comprargli un nuovo giocattolo, in questo modo lo vedrà felice; un altro genitore può ritenere ciò sbagliato (quindi male) in quanto il figlio sarà viziato.
E’ un banale esempio per dimostrare come la percezione di bene e male può cambiare da persona a persona e di come Socrate sbagliava nella sua concezione obbiettiva.
Il colonialismo: sogno o incubo per gli italiani?
Dalla seconda metà dell’Ottocento, gran parte della classe dirigente italiana avrebbe voluto, per il nostro paese, una politica coloniale di successo simile a quella delle grandi potenze europee. I passati fallimenti sotto il governo Crispi e la conquista di Tunisia e Marocco da parte della Francia furono le cause principali dell’avventato e vergognoso tentativo del nostro paese di sottomettere la Libia. A questi bisognava sommare poi un crescente interesse in questa politica da parte di gruppi industriali e finanziari, i quali volevano ricavare ricchezza dall’acquisizione di territori africani.
Le operazioni militari per la conquista iniziarono il 3 ottobre del 1911 con un bombardamento su Tripoli da parte delle navi italiane, le quali erano fuori gittata per i deboli cannoni turchi. L’esercito, già il giorno dopo, riuscì ad occupare la città senza incontrare resistenze. Questo fatto contribuì a diffondere tra le nostre truppe un’ottimistica fiducia ed un atteggiamento paternalistico verso i libici, nonostante noi non conoscessimo per nulla la popolazione e le sue tradizioni. E infatti, il 23 ottobre, dopo quasi un mese dall’inizio delle prime ostilità, scoppiò una rivolta nella zona della Libia italiana: alcuni gruppi di milizia ben organizzata attaccarono varie postazioni italiane e seminarono il panico tra i nostri soldati. Riuscirono ad entrare fino a Tripoli. In questo attacco subimmo gravi perdite: nessuno si aspettava una reazione simile dai “nostri figli” libici.
Come risposta a questa offesa i nostri soldati reagirono in modo molto disordinato e terribilmente crudele: furono commessi veri e proprio eccidi. Ci fu un grandissimo numero di arresti ed esecuzioni; più di 3000 libici vennero poi rilegati in carceri speciali italiane, dove vi morirono in 633.
Il governo italiano, quando vide che il fronte arabo resisteva, decise di cambiare tattica: proclamò la sua completa sovranità sulla Tripolitania e la Cirenaica e spostò il fronte di attacco dalla Libia alla Turchia. Così nella primavera del 1912 le navi italiane occuparono l’isola di Rodi e le Sporadi per poi compiere un’incursione nello stretto dei Dardanelli. Maometto V, imperatore turco, decise di avviare subito delle trattative di pace col nostro paese e decretò l’autonomia delle due provincie lasciandole di fatto sotto il controllo italiano.
Un ruolo fondamentale in questo scontro venne svolto dai bombardamenti aerei, in cui l’Italia dimostrò di essere all’avanguardia, testando i nuovi dirigibili e aerei a scopo bellico. Infatti tra il maggio e l’agosto del 1917 ci furono un centinaio di bombardamenti contro i civili per costringere la popolazione a non appoggiare i rivoltosi. In questi raid vennero impiegate anche bombe cariche di iprite, un gas tossico. Per piegare completamente la terra libica al nostro volere infine, nel 1929, Pietro Badoglio, governatore della Libia, decise di spezzare i legami tra popolazione sottomessa e sovversivi. Fece deportare più o meno 100000 arabi nei campi di concentramento. Infatti la popolazione della Cirenaica diminuì moltissimo, passando da 198300 abitanti nel 1911 a 142000 nel 1931.
Alla fine del sogno coloniale italiano troviamo dunque un vero e proprio genocidio, a testimonianza del fatto che quando la questione riguarda denaro e potere, la vita ha assunto ormai un valore così basso che non può più frenare i mezzi di distruzione usati per raggiungere questi due scopi. Riusciremo a ritrovare il vero significato di questa parola, che è anche il primo diritto umano di ogni persona che nasce?
Federico Cornalba e Andrea Vaghi
L’uomo è la misura di tutte le cose
Protagora afferma che l’uomo è la misura di tutte le cose.
Egli sostiene che non si può dire chi sia più sapiente tra un sano e un malato che si cibano degli stessi alimenti, con il primo che ritiene che esso sia gustoso mentre il secondo lo cataloga come amaro.
Con Protagora nasce il relativismo, perché mette l’uomo al centro di tutto.
Facciamo un altro esempio: Francesco e Andrea camminano e uno dei due afferma di avere freddo, mentre l’altro ritiene che invece ci sia un’ottima temperatura.
La loro passeggiata continua, incontrano una ragazza e uno dei due ne rimane affascinato, mentre l’altro ne è oltremodo disgustato.
Per ultimo, entrano in un bar e prendono cappuccio e brioches.
Francesco, arrivato alla cassa, rimane allibito davanti a uno scontrino così caro: 2.50€.
Andrea, invece, ritiene che il prezzo sia giusto.
Gli dice infatti: «Bisogna considerare le tasse che paga questo bar, i dipendenti a cui dare lo stipendio a fine mese…E’ un ottimo prezzo comunque».
Quindi, la giornata era fredda o afosa?
La ragazza era affascinante o di una bruttezza micidiale?
E, per ultimo, il prezzo era conveniente o non lo era?
Chi dei due ragazzi aveva ragione?
Chi diceva il vero?
Non esiste giusto o sbagliato, non esiste il vero o il falso, perché ogni impressione è corretta: ognuno vede ciò che gli è dato vedere, secondo la propria esperienza e il proprio status.
Protagora afferma che all’uomo non è dato sapere cos’è una qualsiasi cosa nel suo essere, ma solo come questa cosa appare a lui.
È l’uomo, quindi, l’unità di misura, il metro di giudizio di ogni cosa.
La lezione politica di Platone oggi
Qualche giorno fa mi sono imbattuta nella VII lettera di Platone, di cui mi ha colpito soprattutto questa frase: “Un tempo nella mia giovinezza, ho provato ciò che tanti adolescenti provano: avevo progettato, dal giorno in cui avessi potuto disporre di me, di dedicarmi subito alla vita politica”. La lettura del testo mi ha spinto ad alcune riflessioni.
Platone si poneva un problema politico ancora attuale.
Come nell’Atene di allora, anche oggi il mondo è attraversato da numerosi cambiamenti e sconvolgimenti politici, che hanno portato alla rottura di quell’equilibrio necessario al buon funzionamento dello Stato. Ai nostri giorni, infatti, molti uomini che partecipano alla vita politica sono disonesti, corrotti e incapaci di amministrare la giustizia. I cittadini vedono deluse le proprie aspettative e tradita la fiducia riposta in quelli che dovrebbero essere i propri rappresentanti. Di giorno in giorno si assiste alla dissoluzione delle leggi, dei costumi e di quei valori morali su cui dovrebbe fondarsi ogni sistema di governo. Ciò comporta, a sua volta, un decadimento generale della società, dal quale sembrerebbe non esserci più via d’uscita. Di fronte a una situazione del genere, un miglioramento, invece, deve essere auspicato e, a questo proposito, penso che Platone avesse ragione nel sostenere che coloro che avevano il compito di governare dovevano essere sapienti.
In termini moderni ciò significa che ogni capo di Stato dovrebbe avere un’adeguata conoscenza – cosa che spesso viene a mancare – per meglio distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, l’opportuno dall’inopportuno. La conoscenza da sola, però, non basta. Credo che sia necessario che chi ci governa non debba avere interessi materiali, perché altrimenti, come spesso accade, finirà prima o poi con il rivolgere la sua attenzione verso questi interessi privati, piuttosto che verso quelli comuni, arricchendosi personalmente o favorendo alcune persone a scapito di altre.
Solo così, quindi, si otterrebbe uno Stato giusto e buono e, di conseguenza, anche quello che noi definiamo il ” bene comune”, ossia le aspettative di felicità di tutti i cittadini.
Dunque, è innegabile che la bontà di uno Stato sia legata al fatto che chi comanda governi in nome del bene comune e non in nome dei suoi interessi privati.
Ora, però, rimane un interrogativo: una concezione della politica di questo tipo è davvero realizzabile o è pura e semplice utopia?
Di certo a questa domanda ancora tutt’oggi non possiamo dare una risposta certa. É innegabile, infatti, che la teoria politica di Platone delinei un modello di Stato, inesistente e difficilmente realizzabile nella realtà, ma ritengo che il filosofo possa ancora esserci d’aiuto e che la sua lezione possa essere tuttora attuale. Innanzitutto bisognerebbe considerare in positivo e non in negativo l’utopia platonica, intendendola come un mezzo che possa spingere al miglioramento. Mi spiego meglio: essa non si limita, infatti, a proporre un’idea di Stato perfetto, ma, così facendo, sottolinea anche le imperfezioni di Stati storici reali costituirebbe – letta in questo modo – uno stimolo a costruire, se non Stati perfetti, almeno in parte migliori. In secondo luogo, l’utopia fornisce, seppur sul piano centrale, un modello organizzativo di Stato e di politica. Basterebbe, quindi, ripulirla delle sue ristrettezze dottrinali e guardare a essa come un progetto da sviluppare, tenendo ovviamente conto del contesto di riferimento. In terzo e ultimo luogo, bisognerebbe riuscire a tradurre in azione tale progetto. Come? Io penso che ciò non sia completamente impossibile, ma sia possibile solo a certe condizioni. In primis si devono educare gli uomini ad essere buoni cittadini; tale compito spetta in parte alla famiglia, in parte alla scuola in modi diversi: la famiglia educando al bene, la scuola fornendo delle nozioni pratiche attraverso lo studio delle diverse discipline.
Cittadini giusti, poi, a loro volta, formeranno uno Stato giusto, perché saranno in grado di scegliere tra loro i migliori a governare. Infine, quest’ultimi, in quanto tali, adempirebbero convinti al proprio compito, operando per il benessere collettivo.
Detta in questi termini, la soluzione apparirebbe ovvia e scontata; in realtà, si tratta di un percorso lungo e difficile da attuare, che prevede in un primo momento un cambiamento di mentalità – e qui entrerebbe in gioco quella che in senso lato si definisce “la cultura di un popolo” – e solo in un secondo momento il passaggio dal sapere alla pratica. Solo così, allora, si otterrebbero dei buoni risultati e, forse, si metterebbe fine alla degenerazione politico-sociale che domina il nostro tempo.
Le nuove tecniche di combattimento nel Trecento
Fino a tutto il XIII secolo le operazioni militari erano state condotte e gestite dai “signori della guerra” appartenenti all’aristocrazia, che dai tempi di Carlo Magno avevano costituito la parte più forte del potere politico e militare: i nobili erano infatti i soli a disporre di terre e quindi di rendite sufficienti per allestire, armare e mantenere possenti reparti di cavalleria. Erano i cavalieri, truppe di nobili uomini in cerca di fortuna alle dipendenze dei signori feudali, il punto di forza degli eserciti medievali. I fanti rappresentavano soltanto un nucleo secondario, e di essi facevano parte prevalentemente contadini e artigiani strappati alle loro consuete occupazioni, male armati e male addestrati. Tuttavia nel corso del XIV secolo, a partire dalla guerra dei Cent’anni, il ruolo della cavalleria venne fortemente ridimensionato a causa della comparsa di nuove e più efficaci tattiche di combattimento della fanteria. Tra queste innovazioni le più significative sono senza dubbio le armi da getto, ovvero la balestra e l’arco che acquistarono progressivamente importanza e cambiarono radicalmente le tecniche di combattimento. La balestra aveva infatti una potenza micidiale: le frecce che scagliava potevano trapassare qualsiasi armatura. Per il suo impiego però si richiedeva un addestramento ben preciso. Superiore alla balestra per efficienza era l’arco, poiché richiedeva un tempo di ricarica della freccia molto inferiore rispetto a quello della balestra; infatti se un balestriere esperto non riusciva a scagliare più di due frecce al minuto, i lunghi archi utilizzati dagli Inglesi durante la guerra dei Cent’anni ne potevano lanciare perfino otto. L’arco era l’arma plebea per eccellenza, tutti i contadini ne conoscevano l’uso e durante le battaglie nulla potevano le spade dei cavalieri contro la pioggia di frecce che cadeva su di loro. Ma gli arcieri e i balestrieri avevano generalmente un ruolo di difesa. Fu l’introduzione delle lunghe picche dei soldati svizzeri, a modificare la tecnica di combattimento, assegnando un ruolo primario alla fanteria. Durante le battaglie, la fanteria svizzera, costituita da circa seimila soldati, si disponeva in quadrati ed ogni fante era armato di picca: una lancia lunga circa tre metri, che veniva usata con entrambe le mani. In questo modo la cavalleria nemica che giungeva verso la formazione di fanti, si trovava davanti ad un immensa concentrazione di lance che venivano manovrate all’unisono con grande tempismo e, come si può immaginare, nella maggior parte dei casi i cavalieri venivano infilzati da questo grande numero di picche. Successivamente il prestigio della fanteria svizzera fu oscurato, verso la fine del XV secolo, dall’uso della polvere da sparo. Inventata dai Cinesi presumibilmente intorno all’VII-IX secolo, venne da loro utilizzata per la fabbricazione di fuochi d’artificio. Furono gli Europei a farne uno strumento di morte, costruendo intorno alla metà del XIV secolo le prime armi da fuoco. I primi cannoni erano di bronzo, rame e stagno. Questi metalli divennero una preziosa merce di scambio e si formò un ingente mercato di armi soprattutto nell’Italia settentrionale e nei Paesi Bassi. Inizialmente i proiettili erano a forma di freccia, poi vennero sostituiti da palle di pietra e infine di bronzo. Il nome di questo nuovo tipo di arma deriva dalla forma della struttura dalla quale venivano lanciati i proiettili, che in un primo periodo era una sorta di vaso, poi si passò ad una forma tubolare, cioè alla “canna”, posta su un cavalletto. Inizialmente i cannoni avevano molti difetti e oltre che ad avere un tiro impreciso facevano anche più rumore che danni. Dopo vari studi e perfezionamenti anche da parte di uomini di fama, come Leonardo Da Vinci, che studiò con precisione la traiettoria dei proiettili, le prestazioni dei cannoni migliorarono notevolmente ed essi diventarono così la miglior arma in circolazione. Con l’arrivo delle armi da fuoco le fortificazioni delle città vennero modificate; vennero progettati bastioni, torri e mura elevate che potessero resistere il più possibile ai bombardamenti dei cannoni. Furono inoltre studiate forme più adatte a respingere i colpi: il cilindro e il cuneo sembrarono le forme più indicate per evitare la distruzione perché davano maggiore stabilità. Come tutte le grandi invenzioni anche le armi da fuoco suscitarono varie perplessità. Io sono d’accordo con Ludovico Ariosto che nell’Orlando Furioso, trovò l’occasione per esprimere il suo giudizio indignato, nel quale condannò le armi da fuoco come strumenti di guerra poco virtuosi. In effetti con le armi da fuoco si perse il senso di gloria, di onore e di valore che si poteva ottenere con una battaglia di spade tra due cavalieri o con un duello tra due eroi epici che si affrontavano per proteggere o manifestare i propri ideali.