Giovanna d’Arco

Ritratto di Giovanna d'Arco


Fra il 1337 e il 1453, la Francia e l’Inghilterra si affrontarono nella famosa guerra dei Cent’anni, causata da problemi di eredità del trono dopo la morte del re francese Carlo IV. Infatti il re inglese, il parente maschio più prossimo, perché figlio di Isabella (la sorella di Carlo IV) rivendicò il trono, ma i francesi gli preferirono Filippo IV di Valois, la cui parentela era meno stretta, ma in linea maschile, come previsto dalla legge salica. La guerra in un primo momento vide la netta supremazia degli inglesi, testimoniata da diverse vittorie come ad esempio quella di Calais. Ormai la Francia sembrava spacciata, anche perché ci furono diversi scontri interni anche fra concittadini causati dal malcontento per l’andamento fallimentare della guerra. Fortunatamente nel 1415, grazie al grandissimo apporto di Giovanna d’Arco, l’inerzia della guerra cambiò.

Giovanna d’Arco nacque verso il 1412 nel villaggio di Domrémy, un paesino sulla Mosa ai confini fra la regione della Champagne e quella della Lorena. Viveva in una famiglia numerosa dedita all’agricoltura e, come la maggior parte delle persone di questa classe sociale, non sapeva né leggere né scrivere.

Nell’estate del 1425, all’età di tredici anni, cominciò ad udire delle voci da lei attribuite all’arcangelo Gabriele e alle sante Margherita e Caterina. Sin dall’inizio le fu comunicata la sua missione: era stata scelta da Dio per salvare la Francia e aiutare il Carlo VII, erede legittimo al trono. Da quel momento Giovanna cominciò a passare gran parte delle sue giornate a pregare e a confessarsi.

Una sera, quando tornò dopo un pomeriggio passato nei campi, scoprì che il suo villaggio fu invaso dagli inglesi. Perciò egli si nascose in una credenza e assistette alla morte della sorella diciottenne, violentata e uccisa da alcuni soldati. Giovanna venne quindi mandata a vivere dagli zii in un villaggio vicino.

Dopo aver lasciato per sempre l’unica casa che avesse mai conosciuto, spinta dalla chiamata divina, Giovanna si recò a Chinon per incontrare il re Carlo VII che furono informati riguardo le visioni della ragazza. In un primo momento, il re nutrendo dei sospetti sulle sue intenzioni, incaricò il suo migliore arciere di prendere il suo posto sul trono. Arrivata al castello, Giovanna si accorse dello scambio e lo rivelò apertamente, suscitando lo stupore del re che le concesse un colloquio privato. La donna, disse a Carlo che sarebbe stato incoronato a Reims e avrebbe scacciato gli Inglesi dalla Francia ed infine gli chiese espressamente di organizzare l’assedio alla città d’Orléans

Convinto dalle premonizioni di Giovanna, Carlo la mise a capo di un esercito con il quale raggiungere la vittoria sugli inglesi e assicurare la città di Reims per l’incoronazione.

Giovanna si presentò sul campo di battaglia con indosso un’armatura bianca e con un proprio vessillo. L’apparizione impressionò profondamente entrambi gli eserciti, non abituati a vedere una donna impegnata nei combattimenti. La Pulzella d’Orléans condusse alla vittoria i francesi, motivati dalla loro carismatica condottiera. Ma la caparbia Giovanna, determinata a sferrare un altro attacco, radunò nuovamente le truppe per liberare per sempre la città di Orléans dalla dominazione inglese. Nonostante il grande sforzo per l’attacco finale, i francesi fallirono nel loro tentativo e si dovettero ritirare, anche perché Giovanna venne colpita da una freccia nel petto.

Nonostante questo, gli eserciti francesi continuarono a trionfare sugli inglesi, sempre più indeboliti, ma Giovanna iniziò a provare un grosso senso di colpa scaturito dalla carneficina di vite umane sacrificate per questa guerra. Perciò la Pulzella contattò il re d’Inghilterra tramite una lettera proponendo loro di ritirarsi.
Come per miracolo il re accettò la proposta. Si trattò di una vittoria sorprendente che consentì l’incoronazione di Carlo a Reims, proprio come Giovanna aveva predetto.

Una volta incoronato, Carlo VII sembrò pienamente soddisfatto, ma on altrettanto Giovanna, che decise di continuare a combattere nonostante le sue truppe, ridotte ormai da varie migliaia a poche centinaia di uomini, erano stanche e affamate. Diverse persone informarono Giovanna che non soltanto Carlo aveva abbandonato l’intenzione di fare una guerra, ma stava pianificando un modo per tradirla. La giovane però non ascoltò nessuno perché si sentiva obbligata a continuare a combattere con determinazione fino a quando le “voci” non le avessero ordinato altrimenti.

Contro ogni parere , la Pulzella fa spedita dal re verso Compiègne dove ebbe luogo una battaglia durante la quale venne fatta prigioniera dai cavalieri del duca di Borgogna.

Abbandonata da tutti, Giovanna venne accusata di eresia e di stregoneria ed ebbe quindi inizio il processo per dimostrare che era una strega. Più e più volte le vennero poste domande sulle sue visioni e sulla sua fede nella Chiesa Cattolica.

Poco prima che il processo si concludesse, venne chiesto alla Pulzella di rinunciare alle sue vecchie aspirazioni e di giurare di non indossare più armi o abiti maschili, pena la morte sul rogo. Giovanna accettò e così fu solo condannata alla prigione a vita. All’ultimo momento, però, la giovane donna si rifiutò di sottomettersi al giudizio di una corte inglese e questa sua decisione fece di lei un’eretica destina a morte certa.

Nel maggio del 1431, Giovanna d’Arco venne bruciata sul rogo nella piazza del Mercato Vecchio di Rouen.
Giovanna d’Arco fu una donna molto importante per la storia Francese, poiché diede un grosso contributo alla liberazione della Francia dagli invasori inglesi. Molti studiosi mettono in dubbio le sue molteplici visioni religiose, ma comunque tutti sono d’accordo sul grande coraggio che ha messo in campo e che ha dato quella motivazione in più utile ai soldati francesi per combattere al meglio per la propria patria.

La caduta di Costantinopoli

Benjamin Constant: Maometto II entra in Costantinopoli con il suo esercito.
Benjamin Constant: Maometto II entra in Costantinopoli con il suo esercito.

Durante la mattina del giorno 29 maggio 1453, il sultano turco Maometto II ordinò alle sue truppe di scagliarsi contro la città di Costantinopoli. L’inizio di questo aspro scontro era già cominciato alla fine dell’anno 1452, quando il capo della spedizione turca aveva mandato da Adrianopoli a Costantinopoli la dichiarazione di guerra. All’inzio di settembre Maometto giunse nella città con una schiera di circa cinquantamila uomini armati, affinché riuscissero a verificare la forza delle difese, mentre sul mare la flotta attraversava le acque del Bosforo.

Il ricco sultano aveva chiamato un uomo specializzato nella costruzione e nella fusione di bombarde, l’ungherese Urban. Dopo aver ricevuto una grossa somma di denaro iniziò a fabbricare l’arma da guerra, capace di abbattere contemporaneamente i tre ordini di mura di Costantinopoli, considerate invalicabili.
Nel frattempo mentre l’imperatore Costantino XII chiedeva più volte al papato, ai governi italiani e ai sovrani dell’Europa occidentale di aiutarlo, iniziarono i lavori di rafforzamento della difese murarie e di perfezionamento del fossato che circondavavano la città.

Il 7 aprile del 1453 l’esercito turco diede inizio all’assedio mentre cinque giorni dopo arrivarono anche le imbarcazioni, predisposte a bloccare chiunque avesse tentato di trasportare rifornimenti sia alimentari sia militari all’esercito dell’imperatore Costantino XII.

I Turchi erano molto organizzati e disponevano di abbondanti risorse: possedevano un esercito efficiente, composto da circa centocinquantamila soldati, compresi diecimila “giannizzeri”, (truppe a piedi, forza strategica dell’esercito Ottomano) e una flotta imponente di circa centocinquanta navi da guerra. I Bizantini invece erano soltanto un decimo dei nemici, ed avevano l’aiuto di un piccolo gruppo di Genovesi e Veneziani; inoltre possedevano rispetto ai turchi circa un terzo delle loro imbarcazioni. Questi ultimi erano superiori ai Bizantini per la disponibilità delle armi da fuoco: il massiccio cannone realizzato da Urban infatti era capace di sparare persino proiettili del peso di quattro quintali.

Di fronte alla netta forza degli avversari, Costantinopoli reagì e dispose lungo l’imboccatura del Corno d’Oro una lunga catena dal veneziano Bartolomeo da Soligo. Il sultano Maometto impiegò di conseguenza migliaia di uomini per costruire in terraferma uno stretto passaggio fra il Bosforo e il Corno d’Oro, sul quale fece attraversare circa una settantina di biremi trascinate su tronchi di legno.

La sera del 28 maggio 1453 Maometto fece annunciare dagli araldi che avrebbe provocato la battaglia. Raggiunte le posizioni assegnate venne scatenato l’attacco: grazie ad un piccolo varco nelle mura, i soldati turchi penetrarono nella città e colsero di sorpresa i difensori. A mezzanotte il sultano, acclamato dai propri uomini, fece il suo ingresso nella città ormai distrutta. Il saccheggio, che durò all’incirca tre giorni vide omicidi ( anche quello di Costantino XII), stupri, spoliazioni di chiese e di palazzi. Morirono quattromila persone fra uomini donne e bambini e i restanti venti-venticinquemila furono catturati e in seguito venduti come schiavi.

La notizia dell’assedio di Costantinopoli si diffuse rapidamente in tutto il mondo, tanto da provocare sgomento e preoccupazione.

Socrate, Platone e Protagora: tanto diversi e tanto uguali

Per i sofisti la verità è qualcosa di relativo, particolarmente per Protagora consiste nell’utile, per quanto non nell’utilitaristico e tanto meno nel vantaggio particolaristico; per Socrate la verità è la ricerca della verità; per Platone è un possesso dell’anima.
Si può dunque affermare che il precetto socratico «conosci te stesso» sia una conseguenza della formula di Protagora che riassume la teoria sofistica nell’uomo «misura di tutte le cose»: «il giudizio umano possiede un diritto di legislazione universale; il suo compito è quello di rimettere in questione tutto ciò che sembrava non porre problemi, di rifiutare l’evidenza che è soltanto apparenza». La verità non si basa su dogmatismi, ma si trova nella sua ricerca stessa.
C’è nei sofisti «l’aspirazione a un umanesimo totale perché niente di umano è loro estraneo» e «il relativismo che si è rimproverato loro non è che il rovescio o la contropartita del loro universalismo: la realtà umana, somma di tutti i suoi aspetti, può essere conosciuta solo attraverso lo studio del presente e del passato, del qui e dell’altrove».
Con Platone, invece, «la trascendenza riprende tutti i suoi diritti» e «sarà il punto di riferimento di tutti i misticismi» registrabili dopo il III sec. a. C. e soprattutto nell’era cristiana; cioè delle forze irrazionali contrapposte e intrecciate al razionalismo greco. Per la ragione greca (il logos solo schematicamente opposto al mythos, ma in realtà legato ad esso) la terra dipende dalle leggi del cielo, ma esso «è la patria delle rappresentazioni mitiche»: sede di una «surrealtà trascendente». Infatti, «fino a Newton compreso, la teoria fisica non è esente da presupposti ontologici» e «la scienza più perfettamente razionale si vuole in comunione con l’autorità trascendente»

Se nel complesso «ricerca della verità» si accentua l’aspetto di ricerca mai conclusa e mai concludibile, affermo che la verità (oggetto della ricerca) non è raggiungibile in assoluto per l’uomo. Si sta, allora, dando particolare rilievo all’umano, si sta cioè dicendo che carattere proprio dell’umano è la ricerca.
Se, invece, si accentua il secondo termine, la verità, si cristallizza la ricerca nel suo obiettivo, l’umano nell’anima, il mondo umano nell’Iperuranio, e si trasforma l’arte maieutica in possesso di conoscenze metafisiche da parte dell’anima che le richiama a sé nella memoria.

Questa è una mia piccola riflessione su due famosissimi filosofi e un altrettanto famoso sofista. Per i dubbi e le domande su questo post siete invitati a commentare. Grazie e al prossimo post.

Lucio Battisti : Hegel

29 settembre 1994, Lucio Battisti pubblica l’album Hegel.

Ecco il testo della canzone che dà il titolo all’intero album:

Ricordo il suo bel nome: Hegel Tubinga
ed io avrei masticato
la sua tuta da ginnastica.
Il nome se lo prese in prestito dai libri
e fu come copiare di nascosto,
fu come soffiare sul fuoco.
Cataste scolastiche: perché?
Quando tutto è perduto non resta che la cenere e l’amore;
e lei nel suo bel nome era una Jena.
Chi di noi il governato e chi il governatore
son fatti che attengono alla storia.
Chi fosse la provincia e chi l’impero
non è il punto:
il punto era l’incendio.
Erano gli esercizi obbligatori estetici,
le occhiate di traverso, e tu guardavi indietro;
c’eravamo capiti, capiti all’inverso.
Ci diventammo leciti per questo.
D’altronde, d’altro canto.
A volte essere nemici facilita.
Piacersi è così inutile.
Un bacio dai bei modi grossolani
sfuggì come uno schiaffo senza mani.
Talmente presi ci si rese conto
d’essere un’allegoria soltanto quando
ci capitò di dire, indicando il soffitto col naso,
di dire “Noi due” e ci marmorizzammo.
La corda tesa, amò l’arco
e la tempesta la schiuma,
il cuore amò se stesso,
ma noi non divagammo.
L’animo umano è nulla se non è
una pietra da scalfire ricavando
i capelli e il suo bel piede.
Era la collisione, il primo scontro epico,
perché non scritto ma cavalcato a pelo,
ed ognuno esigeva
la terra dell’altro,
le mani, la terra, la carne, il terreno.

Ecco il video:

E qualche nota di spiegazione.

Astruserie?

Galileo Galilei: La matematica basta per capire la natura?

Frontespizio dell'edizione originale de Il Saggiatore


Galileo Galilei, nato a Pisa il 15 febbraio 1564 e morto l’8 gennaio del 1642, visse durante il pieno Rinascimento italiano e fu uno tra i più importanti astronomi e matematici di tutti i tempi.
Infatti è proprio grazie a lui che oggi possediamo opere di immenso valore scientifico, e strumenti (come ad esempio il cannocchiale) che ancora oggi vengono usati per contemplare il mondo terrestre ed extraterrestre.

Tra le sue opere più significative ritroviamo certamente Il Saggiatore, pubblicato nel 1623. Quest’opera nacque grazie alla volontà di Galileo di confutare la tesi del matematico gesuita Orazio Grassi, secondo la quale le comete sono veri e proprio corpi celesti, affermando invece che esse, avendo la stessa natura dei raggi solari, sono puri effetti ottici. Tuttavia non è significativa per lo scopo per la quale venne scritta, ma lo è perché riporta due delle maggiori convinzioni filosofiche di Galileo:

  1. Il concetto di qualità primarie e secondarie e del corpuscolarismo
  2. Il concetto dell’ordine geometrico della natura

La prima è volta a distinguere le qualità primarie da quelle secondarie. Secondo Galileo il concetto di materia, implica quelli di figura, di relazione con altri corpi, di staticità (o movimento) e di esistenza, ma non implica affatto quelli di colore, suono, sapore e odore, dovuti, infatti, solo alla presenza dei sensi; suoni, sapori, odori e colori vengono pertanto considerati soltanto dei nomi e non delle qualità dovute alla pura esistenza del corpo, ma dovute ad altro, quindi le definisce qualità secondarie. Invece definisce qualità primarie solamente quelle che si ritrovano nei corpi indipendentemente dai sensi.
Galileo esemplifica questa sua teoria facendo l’esempio di una mano che si muove su un corpo di marmo o su un corpo umano: il movimento (qualità primaria) non cambia se la “destinazione” cambia, invece le sensazioni (qualità secondarie), che si provano se la mano passa su determinate parti del corpo o su altre, cambia tanto che se tocca zone maggiormente sensibili si avverte, oltre alla sensazione di essere toccati, anche una nuova sensazione, che noi denominiamo solletico, di conseguenza il risultato muta a seconda della “destinazione” che gli viene data. Inoltre afferma che la causa di queste sensazioni è la presenza di un grandissimo numero di corpuscoli piccolissimi, che possiedono a loro volta une figura e una velocità determinate. Con ciò vuole quindi affermare che il mondo reale è soltanto un insieme di minuscoli corpuscoli misurabili. È proprio il sapere scientifico, secondo Galileo, l’unico elemento capace di distinguere le qualità primarie da quelle secondarie.

Il secondo concetto afferma invece che la natura ha intrinsecamente un ordine ed una struttura armonica di tipo geometrico. Galileo è infatti convinto che bisogna conoscere l’arte matematica per poter comprendere a fondo la natura.

Dal fatto che il Saggiatore, pur essendo una delle opere maggiormente filosofiche di Galileo, è comunque caratterizzata da una tendenza per le scienze, si può facilmente capire la sua indole filo-matematica, grazie alla quale riuscì a mettere il terreno per le successive scoperte astronomiche di Keplero.

Concordo pienamente con le tesi di Galileo. Infatti la natura è evidentemente dominata dalle leggi matematiche, tanto che molti corpi naturali (come ad esempio le foglie sui rami di un albero, il corpo umano stesso, o anche i petali dei girasoli) sono stati “creati” in sezione aurea. Questo non è sicuramente un caso, perché dubito fortemente che accidentalmente solo parte della natura sia dominata da leggi matematiche infatti, se sappiamo che gran parte della natura è certamente dominata da esse allora, anche il resto lo è; è quindi solo grazie alle leggi matematiche che possiamo decifrare e conoscere a fondo tutta la natura. Infatti come è impossibile decifrare un libro in latino senza conoscere la lingua, così è impossibile capire a fondo la natura senza conoscere la matematica, che è la “lingua” usata per “scrivere” il “libro” della natura. Per capire a fondo però il significato del libro bisogna anche conoscere la storia dell’ “autore”, ma essendo nel caso della natura un autore appartenente ad essa, per capire questo autore si ritorna alle leggi matematiche usate per capire la natura stessa. Da ciò si può facilmente capire che la matematica è sufficiente a spiegare le leggi naturali.

L’arte di “fare uno e molti”

La dialettica, dice Platone, è il metodo supremo per fare filosofia: ci consente di raggiungere la verità o l’idea. Per avvicinarci alla verità possiamo prima di tutto escludere tutte le ipotesi false: questo procedimento prende il nome di confutazione. Se in Socrate la dialettica come confutazione si fermava proprio alla confutazione di coloro che si credevano sapienti ma non lo erano, in Platone essa diventa strumento di conoscenza. E come può la semplice confutazione arrivare ad un vero e proprio sapere? Per Platone basta confutare tutte le ipotesi possibili: quella che rimarrà, che avrà resistito ad ogni confutazione, è quella vera e dimostrata. Ma a me non sembra così semplice: magari noi non siamo riusciti a confutarla, ma in seguito ci riuscirà qualcun’altro. Nello stesso modo il punto critico ed il passo falso del ragionamento di Platone stanno nel fatto che la soluzione potrebbe trovarsi in un’ipotesi a cui non ho pensato.

Come faccio invece a confutare tutte le ipotesi, per raggiungere quella anipotetica? Semplice: dimostrando che le conseguenze che ne derivano sono in contraddizione tra loro. Il “principio di non contraddizione” su cui Platone si basava arrivava infatti alla conclusione che se un’ipotesi dà origine a conseguenze contraddittorie (rispetto a quelle tangibili della realtà sensibile), l’ipotesi sarà falsa. Oppure, se ho due ipotesi contraddittorie fra loro: o è vera l’una o è vera l’altra! Prendiamo un esempio: “Soltanto qualche mio amico gioca a calcio” e “Tutti i miei amici giocano a calcio”; direte voi, o tutti i miei amici giocano a calcio o solo qualcuno: non possono essere vere entrambe! Ma Platone non era stato il primo a comprendere che dimostrando l’assurdità di una tesi si arrivava implicitamente alla veridicità della tesi opposta. Anche Zenone, seguace di Parmenide, c’era arrivato: ma questo “padre della dialettica” pretendeva di difendere con il metodo della confutazione il suo maestro, che di non essere proprio non voleva sentir parlare!

Ma la dialettica diventa anche essenziale strumento della filosofia per un altro motivo: come la filosofia è una “scienza universale”, che cerca quindi di occuparsi di tutta la realtà nel suo complesso, così anche la dialettica è l’arte dell’unire e del dividere. È quella “scienza” che unisce le “cose molteplici” sotto un’unica idea e nello stesso tempo quella che divide queste “cose molteplici” da quelle che non partecipano all’idea. Per esempio: l’idea della bellezza riunisce in sé tutte le “cose belle”, che sono a loro volta separate, divise, dalle cose “non belle” che non partecipano all’idea di bellezza.

In breve: la dialettica è quello strumento che ci consente di arrivare alla verità, pura e assoluta, che non si serve di presupposti, ma arriva a dimostrarli. E fa questo attraverso la confutazione, perché prima di arrivare alla verità devi attraversare le lunghe strade delle menzogne (Rachid Ouala).

Socrate: il tafano di Atene

Busto di Socrate conservato nei Musei Vaticani
Busto di Socrate conservato nei Musei Vaticani

Una delle metafore più celebri che hanno per oggetto Socrate è quella, scritta nell’Apologia di Socrate e pronunciata dal filosofo stesso, del tafano: infatti Socrate era “il tafano che punzecchia la vecchia cavalla”, dove l’insetto era ovviamente il filosofo, mentre la vecchia cavalla era l’antica città di Atene.
Perchè paragonare un grande filosofo come Socrate ad un fastidioso insetto come il tafano?
Come ben sappiamo dalle principali fonti socratiche, Platone e Senofonte, Socrate pensava che la verità potesse essere scoperta solo attraverso il dialogo e la maieutica, aiutando le persone che interrogava a tirar fuori la verità.
Non a caso Socrate soleva paragonarsi a sua madre Fenarete, che per anni fu una brava e vigorosa levatrice: come Fenarete aiutava le gestanti a partorire i bambini, così Socrate aiutava le anime “gravide” a partorire la verità.
Inoltre Socrate affermava che così come le donne rimangono incinte dopo essersi accoppiate con un uomo, anche le anime per essere “gravide” devono prima accoppiarsi con un’altra anima, ossia mediante il discorso e il confronto orale.
Quindi Socrate camminava per le strade di Atene (rigorosamente a piedi scalzi), andando a interrogare gli uomini più importanti e le persone più erudite della città, chiedendo loro di spiegargli un concetto generale, che gli interrogati pensavano di conoscere a fondo, come coraggio, bellezza o virtù.
Arrivati alla fine del discorso Socrate riusciva sempre a dimostrare al suo interlocutore che questo non conosceva veramente il concetto a fondo, imbarazzando anche pubblicamente la persona.
Il filosofo divenne perciò un uomo scomodo, da evitare, a tratti fastidioso, ma non per antipatia, bensì per paura: le persone erudite avevano il terrore che Socrate sbriciolasse le loro certezze dimostrando la loro ignoranza su un argomento riguardo al quale si sentivano esperti.
Per questo motivo si soprannomina “il tafano”; ma non come un insetto visse e morì, bensì come un vero uomo: pensante, razionale e rispettoso delle leggi.
Rispetto per le quali portò un grande uomo ad una morte onorevole ma ingiusta.

In cosa sbagliava Zenone? La risposta a Platone

Scultura raffigurante la testa di Platone
Testa ritraente Platone, rinvenuta nel 1925 nell’area sacra del Largo Argentina a Roma e conservata ai Musei Capitolini. Copia antica di opera creata da Silanion. L’originale, commissionato da Mitridate subito dopo la morte di Platone, fu dedicato alle Muse e collocato nell’Accademia platonica di Atene.

Uno degli interrogativi rimasti aperti nella nostra classe è: “in cosa sbagliava Zenone?”. A questa domanda, rimasta irrisolta per un paio di lezioni e poi finita nel dimenticatoio, mi sembrava davvero difficile dare una risposta. Che ci fosse qualcosa che non andava nell’argomentazione dei suoi paradossi era chiaro, trovare “cosa” un po’ meno. Solo ora, compreso il pensiero Platonico, credo di aver capito in cosa sbagliasse il filosofo di Elea.
Allievo di Parmenide, Zenone cercava attraverso la dimostrazione per assurdo di appoggiare le posizioni del suo maestro, e gli argomenti che portava a sostegno della sua tesi vengono comunemente chiamati “paradossi”. Due sono i tipi di paradossi che questi formulò: i paradossi contro il movimento e quelli contro la molteplicità dell’essere. Per quanto riguarda la prima tesi,“l’essere è immobile”, Zenone sostiene che nessun uomo è in grado di raggiungere il proprio traguardo, in quanto prima sarà costretto a compiere la metà del suo percorso, poi la metà della metà e così fino all’infinito perché esisterà sempre una metà più piccola della precedente. Pertanto il movimento non può esistere. Uno dei più famosi tra questi paradossi è quello di “Achille e la tartaruga”, secondo cui, se Achille lascia alla tartaruga un margine di vantaggio, non riuscirà poi a raggiungerla perché questa sarà sempre, anche se in maniera infinitesima, più avanti di lui. Dal punto di vista matematico il discorso non fa una piega, ma cosa ne penserebbe Platone? Non credo che sarebbe molto d’accordo. Platone infatti cerca, attraverso la filosofia, di trovare, all’interno di un mondo in continuo movimento, delle verità solide e universali da potersi ritenere sempre vere e valide. Questo lo porta a formulare la cosiddetta “teoria delle idee”. Le idee, sostiene Platone, non sono altro che i caratteri universali, immateriali e sempre identici a se stessi, che si possono cogliere solo attraverso l’intelletto. E’ su queste idee che si basa la realtà sensibile, ma questa può soltanto imitarle, non potrà mai essere identica ad esse. Le idee stanno nel mondo dell’intelligibile, in quello che Platone chiama “iperuranio” e non trovano una rappresentazione perfetta nella realtà. Pertanto se diciamo che un qualcosa è bello non stiamo affermando che esso è in sé l’idea di bellezza, ma soltanto che esso vi partecipa e ne condivide una data caratteristica. Le idee sono solo dei “modelli”.
Ecco perché ciò smentisce in parte ciò che affermava Zenone: l’idea di punto senza dimensioni, di retta formata da infiniti punti non è applicabile in natura, dove lo spazio è finito e anche la più piccola parte di materia ha una dimensione. Si arriverà ad un certo punto ad una metà talmente piccola da risultare indivisibile e quindi la meta sarà raggiunta e anche Achille riuscirà prima o poi a raggiungere la tartaruga e addirittura a superarla. Non è vero quindi che non esiste il movimento.
Per quanto riguarda invece i paradossi contro la molteplicità dell’essere mi ha colpito in particolar modo quello in cui afferma che “se i molti fossero, dovrebbero essere tali e quali è l’uno, ingenerati, eterni e immutabili, ma siccome ciò non è vero, allora i molti non sono”. Per cercare di confutare questa argomentazione, è necessario appellarsi a un’altra delle “invenzioni” platoniche, la dialettica per unificazione e divisione. Nel Fedro infatti Platone afferma che la dialettica è l’arte di ricondurre il molteplice all’uno e l’arte di dividere l’uno nel molteplice. Trovare quindi ciò che unifica più idee ad un’idea più generale, ma anche fare il processo opposto, cioè dividere ogni idea in idee più specifiche, per scoprire quali idee comunicano fra di loro e quali no. A questo punto mi viene da pensare: “E se i molti facessero parte dell’idea di essere, ma non ne avessero tutte le caratteristiche?”. L’essere potrebbe essere l’idea generale che raccoglie tutto ciò che “esiste”, ma potrebbe poi dividersi in più idee specifiche come quella di ingenerato o infinito di cui non fa parte la nostra realtà. Del resto lo stesso Parmenide affermava che noi “siamo” “doxa”, opinioni, per poi concludere dicendo che non esistiamo in realtà perché l’essere è unico. Non è forse un po’ contraddittoria come affermazione? Se l’essere potesse avere più “sfumature”? Con questo Platone non vuole smentire Parmenide sul fatto che l’essere sia uno, sebbene il suo intento fosse quello, ma sicuramente la confutazione è un buon metodo per avvicinarsi alla verità, anche se a volte non basta.

Risultati della quinta giornata del torneo di scacchi

  • Girone A: Siniscalco vince “a tavolino” (per assenza dell’avversario) e si qualifica per la fase successiva del torneo.
  • Girone E: Malcovati vince “a tavolino” (per assenza dell’avversario) e si qualifica.
  • Girone H: Cappellini vince contro Magri e si qualifica.
  • Alla fine di questa prima fase eliminatoria, risultano qualificati agli ottavi di finale:
  • Girone A: VITALE, SINISCALCO.
  • Girone B: NAN MEN, LISANTI.
  • Girone C: PREVEDINI, VANIN.
  • Girone D: TORNABENE F., SASSI.
  • Girone E: MALCOVATI.
  • Girone F: TORNABENE E., CAPPELLI.
  • Girone G: RATTENNI, VILLANUCCI.
  • Girone H: CAPPELLINI, ROSSICONE.

Per completare le qualificazioni relative al Girone E, Venerdì 14 verrà disputato lo spareggio tra Comini e Ferla.

scacchiera