Le dottrine non scritte di Platone

Platone
Platone

Platone nacque ad Atene nel 428/427 a.C. da una ricca famiglia. Ben presto entrò in contatto con gli uomini più colti dell’Atene di quel tempo. Fu discepolo di Socrate e ne fece il personaggio principale di quasi tutti i suoi dialoghi.

 

Platone è uno dei pochi filosofi di cui ci siano pervenute tutte le opere: 34 dialoghi, un monologo e una raccolta di Lettere.

 

Sappiamo che intorno al 385 a.C. egli fondò l’Accademia, un luogo in cui si insegnava e si studiava conducendo una vita in comune, dedicata alla ricerca e alla preparazione di uomini politici e legislatori.

Aristotele, discepolo di Platone, affermò che proprio qui il filosofo tenne alcune lezioni sul Bene (che, però, non furono messe per iscritto e che quindi furono denotate come “dottrine non scritte”).

Tuttavia alcuni discepoli di Platone, che assistettero a queste lezioni, stesero una relazione scritta su questo argomento e la chiamarono proprio “Sul Bene”. E’ grazie a loro, quindi, se parte degli insegnamenti orali di Platone sono giunti fino a noi.

Ci chiediamo, quindi, come mai queste dottrine non furono messe per iscritto da Platone stesso. Probabilmente il filosofo decise di non scrivere di questi insegnamenti proprio perché non voleva che essi venissero divulgati tra la gente inesperta e che quindi potessero essere fraintesi.

 

Leggendo le “dottrine non scritte”, però, gli studiosi si sono accorti che parte delle dottrine presenti in esse sono in contraddizione con quelle esposte da Platone stesso nei dialoghi.

Quali saranno, allora, le dottrine da considerare valide? Quelle dei dialoghi o quelle delle “dottrine non scritte”?

A questo proposito è sorto un acceso dibattito fra gli studiosi.

Secondo alcuni, Platone non ha mai esposto i suoi insegnamenti oralmente e quelle che sono giunte a noi come “dottrine non scritte” sono un fraintendimento dei dialoghi da parte di Aristotele.

Altri ritengono che le dottrine orali siano la parte più significativa degli insegnamenti di Platone e che quindi i dialoghi rappresentino solamente un introduzione ad essi per far comprendere le dottrine anche agli estranei all’Accademia.

Altri ancora, infine, ritengono che le relazioni delle “dottrine non scritte” si riferiscano all’insegnamento tenuto da Platone nei suoi ultimi vent’anni di vita; a partire dal periodo, quindi, in cui venne composta la Repubblica.

Quale sarà l’ipotesi più attendibile?

Innanzitutto, dato che Aristotele trascorse vent’anni nell’Accademia, risulta impossibile che questi abbia frainteso o forzato radicalmente il pensiero del maestro (anche perché gli altri studiosi della scuola avrebbero potuto smentirlo). È da considerare errata, dunque, la prima ipotesi.

Neanche la seconda ipotesi può essere ritenuta vera poiché molte sono le differenze tra le “dottrine non scritte” e quelle presenti nei dialoghi precedenti alla Repubblica e tante sono anche le somiglianze che possiamo trovare tra le “dottrine non scritte” e quelle contenute nei dialoghi dalla Repubblica in poi.

Consideriamo, quindi, l’ultima ipotesi come quella più probabile: Aristotele affermò che ad un certo momento Platone modificò la dottrina delle idee, collegando le idee con i numeri. Ciò corrisponde al fatto che nei dialoghi precedenti alla Repubblica le idee non sono collegate con i numeri, mentre nei dialoghi dalla Repubblica in poi e nelle “dottrine non scritte” vi è questo collegamento.

 

Potremmo concludere, dunque, dicendo che i dialoghi scritti avviano un discorso che porta ad un elevato livello, ma il punto conclusivo si trova solamente nelle “dottrine non scritte”.

 

La politica di Platone

Platone per tutta la vita rifletté sulla politica e su quali dovessero essere le perfette virtù del politico e il tipo migliore di governo per una città.
Come può essere considerato oggi il sistema politico di Platone?
Platone nei suoi ultimi due discorsi, il Politico e soprattutto le Leggi, tratta del suo modello di “città seconda”, ossia la città realizzabile che più si avvicina alla città perfetta immaginata dal filosofo, a differenza della Repubblica dove lo stesso Platone ammette di parlare di una realtà utopistica non realizzabile.
Nel Politico indica quali devono essere le caratteristiche del politico, ossia del governante della città: la scienza politica diventa “arte della misura” dove il governante deve essere un “abile tessitore”, che sa intrecciare i diversi elementi di cui è composta la città nella “giusta misura”.
Inoltre nel Politico Platone espone i sei diversi tipi di costituzione; i primi tre rispettosi delle leggi, buoni, e i secondi tre derivati dalla violazione delle leggi, cattivi; nonostante in questo discorso il filosofo pensi ancora che il buon politico non abbia bisogno di leggi perché consigliato dall’arte della misura.
Le costituzioni buone sono la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia, mentre quelle cattive sono la tirannide, l’oligarchia e sempre la democrazia, notando che per questa ultima Platone da lo stesso nome sia che si tratti della buona sia che si tratti della cattiva forma di governo.
Solo nelle Leggi Platone afferma la centralità delle leggi nel governo di una comunità e pensa a una costituzione mista, come Sparta e Creta, dove la monarchia (il re), simbolo di unità, l’aristocrazia (il Consiglio o il Senato), simbolo di saggezza, e la democrazia (il popolo), simbolo di libertà, si uniscono.
E’ interessante notare come Platone, anche se non immediatamente, ma dopo un cambiamento graduale, arrivi tuttavia ad un modello di politica molto simile al sistema di governo dei principali stati mondiali.
Una nota negativa del pensiero del filosofo, secondo il mio punto di vista, è il fatto che ripone troppa importanza nella monarchia e di come questa sia una condizione necessaria in un buon governo.
Secondo la mia opinione la forma di governo corretta comprende un ristretto gruppo di persone competenti delegate ad amministrare la comunità, ma il vero potere decisionale deve essere del popolo, che democraticamente elegge tutti i suoi rappresentanti.
In realtà però un governo non è o buono o cattivo solo perché la forma è una monarchia anziché una democrazia; l’elemento fondamentale che rende un governo giusto è la componente umana, perché sta nell’abilità del governante, uno o tanti che siano, amministrare la comunità in modo che tutti diano il loro contributo e che tutti possano essere felici, usando come diceva Platone l’arte della misura.

Ineluttabile?

Quanta fiducia nel futuro avevamo noi quasi sessantenni quando eravamo giovani studenti. Era il momento dell’utopia, del Principio speranza, della teologia della speranza. Ma l’utopia spesso si è rovesciata.
Oggi i nostri giovani hanno paura del futuro. Li capisco.
Il rimedio non sta in illusorie speranze, ma nell’assunzione di responsabilità.
Venerdì, assemblea degli studenti.
Mi hanno colpito le parole di un ragazzo: «Dobbiamo pensare a quale scuola ed a quale società vorremmo per i nostri figli».
Lo avrei abbracciato.

l'avvenire è ineluttabile?

Parola: causa e motivo delle nostre decisioni

Oggigiorno la parola è diventata causa e motivo delle nostre decisioni.
Anche senza rendersene conto l’uomo è sopraffatto dalle parole.
Le nostre scelte sono condizionate dalle parole. La ragione ha un ruolo importante e fondamentale nelle decisioni di tutti noi ma bisogna tener conto che le parole spesso e volentieri sono causa di scelte sbagliate.

Basti pensare alle innumerevoli pubblicità che la società ci propina. Le promesse che esse garantiscono influenzano l’uomo, futuro compratore. Tutto ciò è solo merito delle parole.

La parola non è utilizzata solo dalle pubblicità per stregare l’essere umano. Pensiamo alla politica; non sono forse le parole illusorie, a volte ingannevoli che ci spingono a votare questo o quell’altro? Quante volte i politici o uomini rilevanti della società promettono, promettono e poi non concludono? I loro discorsi, carichi di promesse, molte volte sono colmi di parole illusorie. L’uomo in genere non se ne rende conto, salvo poi realizzare di aver sbagliato a dare fiducia a una persona abile solo nel parlare.

I politici, abili oratori, sanno come utilizzare le parole a loro favore. Per mezzo di esse, fanno appello alle emozioni di noi cittadini, scavano e si soffermano sui nostri punti deboli, sui nostri sentimenti. Sanno che le nostre emozioni hanno un ruolo fondamentale e puntano proprio su di esse. Riescono a conquistarci promettendo la risoluzione di tutti i problemi che ci affliggono anche se alla fin fine sappiamo benissimo che dalle parole ai fatti ce ne vuole. Ma non si sa come in alcuni casi le nostre emozioni e i nostri sentimenti riescono a prevalere sulla ragione.
E’ ciò che succedeva nell’antica Grecia: gli oratori, abili nel parlare e nel convincere il popolo delle proprie idee, puntavano sulle emozioni. Come sosteneva Gorgia, filosofo sofista vissuto a cavallo fra il V e VI secolo: “La parola è una gran dominatrice”. Egli aveva capito che la parola è impiegata dall’uomo per suscitare emozioni. Ne faceva infatti ampio uso. La usava però in modo sbagliato, egli preferiva utilizzarla per persuadere la gente. Non gli interessava il significato primario, quello razionale delle parole, a lui importava più l’effetto che esse facevano sull’animo umano.

Possiamo infatti dire che questa “tecnica oratoria” usata dai greci è presente ancora oggi.

Anche nella vita quotidiana..
L’amico che ti fa false promesse? T’illude con le parole.
Tu stesso che menti ai tuoi cari solo per evitare guai? Li illudi con le parole.

Le parole hanno uno strano potere di riuscire a suscitare nell’uomo innumerevoli emozioni: oltre a creare inganno, illusioni e influenze positive o negative che siano, i discorsi riescono a provocare gioia, ilarità, commozione, tristezza…
Esse sono un potente mezzo indispensabile nella vita di tutti noi. Bisognerebbe solo riuscire a cogliere il significato primario e soprattutto decifrare il vero messaggio attraverso la ragione, senza farsi trascinare dalle emozioni che suscitano in noi. Il significato vero, quello primario è quello razionale.

Opinioni e verità assolute

L’uomo è misura di tutte le cose, per quello che sono così come sono e per quello che non sono così come non sono.

Così affermava Protagora, filosofo del V secolo a.C. Secondo lui, dunque, tutto è relativo: intendendo con uomo ogni singolo individuo, non vi sono opinioni giuste ed opinioni sbagliate, non esistono certezze. L’uomo è in grado di giudicare ogni cosa per come essa gli appare, poiché non possiede la capacità di definire il concetto di “verità assoluta”. Siamo tutti diversi, vediamo ogni cosa in modo diverso, e questo porta ad opinioni spesso completamente diverse, soggettive, ma in ogni caso corrette. Emozioni, gusti, sentimenti: sono tutte qualità soggettive, che possono variare da un individuo all’altro, ma che non possono essere giudicate “vere” o “false”, poiché dipendono da un personale punto di vista.

Se quest’affermazione risultasse vera, allora, come dovremmo porci di fronte alla scienza? Semplicemente, potremmo pensare alla celebre frase “la matematica non è un’ opinione”. Questa materia, che studiamo fin dalla prima elementare, consiste in una lunga lista di teoremi, dimostrazioni, postulati, regole verificate in migliaia di anni da moltissimi studiosi, e in ogni parte del mondo essa viene insegnata allo stesso modo in tutte le scuole. Questo perché i professori di matematica non potranno mai avere un’opinione personale su ciò che insegnano: due più due fa quattro, e non farà mai cinque.

Non solo in campo scientifico è possibile riscontrare verità inconfutabili. Anche nella vita di tutti giorni, magari senza accorgercene, ci troviamo davanti a situazioni  in cui i nostri pensieri e le nostre idee non vengono coinvolti; determinati contesti in cui non potranno sorgerci dubbi: il cielo è azzurro, e lo è per tutti. La pasta è un alimento, ed io non potrò mai contraddire quest’affermazione.
Vi sono cose, quindi, su cui gli uomini non potranno mai trovarsi in disaccordo, non avranno visioni differenti su determinati argomenti, non potranno dimostrare di avere ragione. Tali cose sono definite “oggettive”, e su di esse il pensiero umano non può esercitare la sua influenza. Se tutto fosse relativo, molti concetti universali perderebbero la loro veridicità. Se su determinati temi gli uomini potessero esprimere il loro dissenso o dare un personale parere, diventerebbe inutile studiare e continuare ad imparare; ogni cosa potrebbe essere messa in discussione, da chiunque e in qualunque momento.

Infine, però, bisognerebbe fare una precisazione per quanto riguarda i campi in cui il relativismo agisce. Esistono cose che dipendono dalle nostre preferenze ed influiscono esclusivamente sull’individuo stesso, come, per esempio, i nostri gusti. In questi casi, io possiedo la piena libertà di esprimere le mie opinioni e i miei pareri senza preoccuparmi di coinvolgere altre persone, di ferirle o di recarle danno. In altre situazioni, però, la nostra libertà di opinione deve essere in qualche modo frenata, poiché vi sono circostanze in cui le nostre preferenze incidono sulla vita e sull’animo altrui, come il bene e il male. Un esempio scontato potrebbe essere l’Olocausto, in cui una sola persona ha messo in atto ciò che egli riteneva più adeguato, ma che ha procurato conseguenze atroci a milioni di persone. Non è corretto lasciare ad una preferenza individuale ciò che riguarda anche altri esseri, perché la nostra libertà non ha il diritto di limitare quella altrui.

Il “vero” e il “falso” esistono in particolari circostanze. Il relativismo, dunque, può essere applicato solo in determinati campi, quando un fattore viene percepito in maniera differente da ogni individuo; quando non è possibile parlare di “verità assoluta”; quando vengono coinvolte le nostre sensazioni e, inoltre, quando nessuno viene toccato dalle nostre scelte.

Protagora e il relativismo.

Protagora fu uno degli esponenti più alti del movimento sofista ed anche un innovatore:contribuì a  spostare l’attenzione  della filosofia dall’ambito naturalistico a quello umano. In fondo aprì la via persino a Socrate.

Protagora era un relativista. Affermava cioè che non esiste la possibilità di stabilire verità o valori assoluti, perché ogni affermazione è relativa al contesto in cui viene detta.

Io una volta appresa questa cosa ci ho riflettuto cercando di trovare qualche verità o postulato indiscutibili e confutare il relativismo. Mi è venuto in mente quasi subito l’esempio della matematica, con tanto di postulati geometrici. La matematica è senza dubbio indiscutibile e bisogna considerarla così com’è. Tuttavia oltre all’esempio della matematica sono riuscito a trovarne un altro: la capacità di pensiero. Io,uomo, sono capace di pensare e di riflettere e non si può smentire una tale affermazione! E’ probabilmente la verità più assoluta di tutte e,forse, quella più basilare.

Chi, come Protagora, afferma che non esiste né vero né falso, dal mio punto di vista, sbaglia: è vero o falso che io essere umano sono in grado di pensare? È vero o falso che la matematica non è un’opinione bensì una verità inconfutabile?

Posso quindi concludere che il relativismo di Protagora non è inconfutabile come può sembrare all’inizio, sono d’accordo sul fatto che molte verità che oggi sono considerate assolute, non è detto che lo siano realmente, tuttavia non condivido l’affermazione che tutte le verità assolute non esistano. Per me la differenza tra vero e falso c’è e non è discutibile. Al contrario si può mettere facilmente in dubbio il concetto di pretendere di poter confutare qualsiasi verità. Ciò che voglio dire è che non tutto è giudicabile e che anche i più sapienti uomini non sempre hanno ragione.

Platone e la dialettica

Platone
Platone

La dialettica è per Platone la tecnica propria della filosofia, tant’è vero che egli è generalmente considerato il padre della dialettica. Il termine identifica un metodo discorsivo, cioè fondato sull’uso di concetti, parole e  proposizioni in cui le idee vengono spiegate mettendole in relazione le une con le altre. Quando descriviamo una cosa con le parole, infatti, non facciamo altro che mettere in relazione questa cosa con le altre, individuando che cosa di essa può essere detto e che cosa no. Per capire meglio questo concetto si può far riferimento ad un semplice esempio: vogliamo sapere che cos è la giustizia; il metodo da seguire per arrivare a rispondere a questo quesito, seguendo la definizione del termine “dialettica”, consisterà nel mettere in relazione l’idea di giustizia “in negativo” con le cose che non è, poi in “positivo” con le cose che è. Nel primo caso troveremo, ad esempio, che la giustizia non è empia, nel senso che una definizione di giustizia compatibile con il fatto che un uomo giusto sia anche empio non è possibile. Mentre nel secondo caso troveremo che la giustizia è “coraggiosa”, nel senso che una definizione di giustizia compatibile con il fatto che un uomo giusto non sia coraggioso non può essere corretta. In sintesi la dialettica è, nella sua essenza, l’arte di riunire (quindi l’analisi) e dividere (la sintesi), di collegare organicamente, in base a precisi rapporti ciò che è relativamente unitario a ciò che è relativamente molteplice, ciò che è relativamente universale a ciò che è relativamente particolare. Detto questo possiamo giungere alla conclusione che la dialettica di Platone è suddivisa in due tipi: la dialettica come confutazione e la dialettica come unificazione e divisione. Per quanto riguarda la prima, sappiamo che Platone parla della dialettica per la prima volta nel Menone, dove contrappone il modo di discutere e di confutare praticato dai sofisti, che mira al successo con tutti i mezzi, persino con l’imbroglio, al modo di discutere praticato tra amici, dove ciascuno difende ugualmente la propria tesi, ma solo con mezzi leciti; quindi dando risposte sincere alle domande dell’interlocutore usando solamente le premesse che questi ha concesso. Quest’ultima è la vera dialettica, l’arte di confutare sulla base delle premesse concesse dal proprio interlocutore. Sempre nello stesso testo, Platone precisa che la dialettica si serve di ipotesi, di cui ignora la verità e ne deduce le conseguenze, per giudicare in base a queste se l’ipotesi sia vera o falsa. Come si possa accertare la verità, viene detto nella Repubblica, dove Platone afferma che per arrivare al principio anipotetico, bisogna “distruggere le ipotesi” ovvero confutarle. Ciò significa che bisogna prima formulare tutte le ipotesi possibili riguardo ad un argomento, poi cercare di distruggerle tutte mediante delle confutazioni, l’ipotesi che riuscirà a resistere alle confutazione, una volta distrutte tutte le altre, sarà quella vera, cioè un principio non ipotetico. Per quanto riguarda il secondo tipo di dialettica Platone precisa ulteriormente il significato del termine, definendolo un metodo, un percorso del sapere per ricondurre ciascuna specie di cose molteplici all’unica idea a cui tutte partecipano, questa idea insieme con le altre idee del medesimo tipo all’idea superiore e più generale. Nel Fedro, infatti Platone afferma che la dialettica è l’arte di ricondurre il molteplice all’uno, o “unificazione”, e l’arte di dividere l’uno nel molteplice, o “divisione”. Nel Sofista, Platone riprende la stessa definizione, precisando che la dialettica consiste nel saper dividere per generi, scoprendo quali idee comunicano tra loro e quali non comunicano. In tal modo la dialettica si configura come una classificazione generale di tutte le idee, ovvero una scienza universale.

Idòla baconiani, realtà ancora presenti?

Gli idòla baconiani risalgono a quattrocento anni fa, ma magari, dedicandogli più attenzione, possiamo accorgerci che potrebbero anche applicarsi alla realtà odierna. Quante volte, negli ultimi tempi, sentiamo parlare di pregiudizi? Pregiudizi che si possono verificare per questioni di razzismo, pregiudizi che si possono verificare a scuola da parte di un professore nei confronti di un alunno, pregiudizi, addirittura, tra uomo e donna. Insomma, i pregiudizi sono diventati parte integrante della nostra vita, nel bene e nel male. Bacone, nel Seicento, affermava che esistevano degli errori e dei pregiudizi, chiamati appunto idòla, che celano all’uomo il vero sapere e non gli consentono una reale concezione della natura. Divide inoltre questi enti in quattro categorie:

  • Idòla tribus: pregiudizi che sono nati dalla natura stessa e che affliggono tutti gli uomini (ovvero tutta la “tribus”). Bacone afferma che tutti gli uomini indistintamente tendono a semplificare la complessità della realtà, a cercare una finalità nella natura e a concepirla solo in funzione dell’uomo, ad affidarsi all’esperienza sensibile.
  • Idòla specuspregiudizi che derivano e dipendono dalla sua educazione, dal suo stato sociale ed economico e dalle sue abitudini. Sono quindi personali, propri di ciascun individuo.
  • Idòla fori: pregiudizi derivanti dai rapporti fra gli individui e dal linguaggio con cui si comunica. Le parole alle volte significano più cose di quante se ne vorrebbe dire, altre volte sono troppo poco significanti, e pertanto comportano possibili errori d’interpretazione.
  • Idòla theatripregiudizi causati dalle teorie filosofiche precedenti a quella baconiana che hanno diffuso falsi sistemi.

Per Bacone sono queste le cause della lontananza dell’uomo dalla verità, dalla vera conoscenza della realtà e della natura. Per Bacone sono queste le cause degli errori dell’uomo nel percepire la realtà. E noi? Noi quando sbagliamo? Quando commettiamo errori rispetto alla realtà che ci circonda o rispetto alle persone che incontriamo? Spesso, direi. Molte volte sbagliamo nel giudicare o nel valutare una persona come spesso ci sbagliamo quando parliamo. Ora, il mio obiettivo in questo articolo era dimostrare che gli idòla possono essere ancora riconosciuti in una società che noi denominiamo “moderna”. La categoria di idòla che mi sembra più direttamente riconducibile alla nostra realtà è quella degli idòla specus. Essi, infatti, come abbiamo detto, derivano dal nostro modo di essere e dalla nostra educazione. L’esempio più banale ma anche il più diretto che si può individuare sono i nostri pregiudizi riguardo una cultura diversa. Il nostro spontaneo distacco provocato dalla paura della diversità è proprio dovuto alle nostre origini culturali e perciò alla nostra educazione. Un altro esempio che si può ricollegare a questo tipo di idòla è il modo in cui noi, trovandoci davanti una persona diversa da noi, anche solo caratterialmente, cerchiamo di proiettare su di essa il modo in cui noi siamo fatti, il nostro modo di pensare, senza essere nemmeno minimamente obiettivi o aperti nei confronti della persona con cui ci rapportiamo.
Anche molti dei nostri amati proverbi non fanno altro che danneggiarci; ad esempio: “chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che lascia, non sa quel che trova”, proposizione che esorta a non progredire, che ci tiene fermi dove siamo giunti e non ci esorta a cercare, a documentarci, a interessarci. Appare molto evidente come questo proverbio contenga conclusioni sbagliate eppure noi ci ostiniamo a ripeterli diligentemente ad alta voce. Non dovremmo forse renderci conto che Bacone, già quattrocento anni fa, aveva previsto e commentato quello che sarebbe stato il nostro modo di fare? Non siamo forse un pò troppo prevedibili? Sì, non siamo abbastanza abili da cambiare un modo di essere che già caratterizzava l’uomo del Seicento.

Beatrice Bonelli

Francis Bacon
Francis Bacon

Sapere di non sapere

“Io so di non sapere”.

Questa frase è del famoso filosofo Socrate, processato e condannato a morte, con l’accusa di corrompere i giovani e di introdurre nuove divinità in luogo di quelle tradizionali.

Socrate viene definito il più sapiente dall’oracolo di Delfi ed egli, incredulo, inizia ad indagare. Pone domande a tutti coloro che venivano reputati sapienti. Si rende conto che nessuno veramente sa e quindi, sapendo di essere ignorante come loro, ma ammettendo di non sapere, può essere considerato più sapiente degli altri, che invece credevano di sapere.

Il sapere è qualcosa di infinito. Per questo, chi sa di non sapere tutto e riconosce i propri limiti, ammette di essere umano.

Sono d’accordo con Socrate sul fatto che parte della verità va ricercata all’interno di noi stessi, senza presunzione di conoscere. Ci sono molte domande a cui nessuno è riuscito a rispondere e ci sono verità ovvie, come quelle di fatto, che tutti sono in grado di riconoscere.
Le domande più difficili, quelle a cui non troviamo risposte condivise, riguardano il bene ed il male, il giusto e l’ingiusto.

Socrate cerca queste risposte attraverso il dialogo, con molta pazienza, senza aver la pretesa di sapere tutto subito.

L’uomo dei record

Lionel Messi con la maglia del Barcellona

Lionel Messi, famosissimo giocatore del Barcellona, domenica 9 dicembre 2012 ha infranto il record di gol segnati in un anno solare (85 gol), detenuto in precedenza da Gerd Muller e che durava ormai dal 1972. Questo record battuto non fa altro che confermare le grandi qualità del giocatore catalano, il quale ha dimostrato in diverse occasioni le sue qualità innate per il gioco del pallone.

Lionel Messi è nato a Rosario il 24 giugno 1987 da una famiglia molto povera e composta da altri due fratelli ed una sorella. Fin da piccolo Lionel dimostra le sue grandi qualità balistiche, ma la strada verso il calcio professionistico gli viene sbarrata da un problema di malfunzionamento degli ormoni della crescita che lo porta ad essere di statura molto bassa, tanto che viene soprannominato da tutti la pulga (la pulce). Nonostante questo Carles Rexach, il direttore sportivo del Barcellona, quando lo vede giocare per la prima volta rimane talmente estasiato dal suo talento che è pronto a portarlo a giocare nel suo team e si rende anche disponibile a pagargli le cure molto costose qualora si fosse trasferito in Spagna. Messi accetta subito questa opportunità e non avendo a disposizione della carta Rexach fa firmare a Messi un contratto scritto addirittura su un tovagliolo di carta.

Così il giovane Lionel si trasferisce in Spagna e comincia la sua nuova avventura al Barcellona ufficialmente il 1 marzo 2001 aggregandosi alla cantera catalana, dove comincia anche le sue costose cure ormonali, che lo porteranno a crescere fino all’altezza di 1,69m. Dopo soltanto tre anni, il 16 ottobre 2004 all’età di 17 anni fa il suo esordio con la prima squadra e il 1 maggio 2005 segna il suo primo gol. Fin dalla sua prima partita con il Barcellona offre delle prestazioni ottime, che gli permettono di giocare sempre di più, fino a diventare titolare fisso nella formazione blaugrana. Messi comincia così a segnare e a fare assist regolarmente, evidenziando una superiorità tecnica netta nei confronti dei suoi avversari e dei suoi compagni che lo porta ad essere determinante in quasi tutte le partite da lui disputate.

Nel corso di questi anni Lionel ha vinto un numero spaventoso di trofei con il Barcellona (5 Campionati spagnoli, 5 Supercoppe di Spagna, 2 Coppe di Spagna, 3 Champions League, 2 Supercoppe Uefa, 2 Coppe del Mondo per club), ma ha anche vinto numerosi trofei individuali. Quelli più di spicco sono i tre palloni d’oro vinti consecutivamente (2009-2010-2011) che lo portano ad eguagliare giocatori leggendari come Michel Platini, ma avendo ancora 25 anni ha grandi possibilità d’infrangere questo record prestigioso.

La sua statura ed il suo tocco di palla magico rendono quasi impossibile non paragonarlo ad un altro grande calciatore che ha fatto la storia di questo sport: Diego Armando Maradona. I giornalisti spesso si sono sbilanciati, affermando che Messi sia anche più forte di colui che viene ritenuto “il più grande di tutti”. Probabilmente ci saranno tanti dubbi e opinioni riguardo questo tema, ma credo che non si potrà mai arrivare ad una soluzione comune, poiché i due giocatori sono vissuti in due periodi storici diversi ed ognuno dei due ha comunque scritto una pagina importante nella storia del calcio.