La società di Platone

Scultura raffigurante la testa di Platone
Testa ritraente Platone, rinvenuta nel 1925 nell’area sacra del Largo Argentina a Roma e conservata ai Musei Capitolini. Copia antica di opera creata da Silanion.
L’originale, commissionato da Mitridate subito dopo la morte di Platone, fu dedicato alle Muse e collocato nell’Accademia platonica di Atene.

Platone, fra le tante opere scritte, ne ha prodotta una per me molto significativa: La Repubblica. Vi presenta il concetto di giustizia ed un modello di organizzazione dello Stato.

Secondo Platone l’anima dell’uomo è costituita da tre diverse parti: razionale, animosa e concupiscibile (desideri corporei). Per rendere al meglio all’interno della società, ogni individuo viene indirizzato verso un’occupazione specifica, secondo il tipo di anima che in lui prevale. Secondo il filosofo, ad esempio, i governanti devono avere un’anima in cui prevale la parte razionale, saper distinguere il bene dal male e possedere il senso della giustizia. Quindi Platone intende che il governo debba essere gestito da filosofi. Sostiene, cioè, un governo di tipo oligarchico, mentre si dimostra critico nei confronti della democrazia, ritenuta una forma di governo inefficiente.

Platone introdurrebbe nel suo stato un sistema che oggi verrebbe definito comunismo appunto “platonico”, in cui suggerisce l’abolizione della proprietà privata nelle classi superiori e l’introduzione della comunione dei beni al fine che tutti siano tenuti a vivere condividendo i propri possedimenti nell’interesse della comunità. Questa iniziativa è pensata anche affinché non si formino caste all’interno della società poiché Platone pensa che non ci debbano essere al suo interno differenze eccessive di ricchezza e povertà in quanto anche nocive e possibili fonti d’ingiustizia.

Il filosofo propone inoltre che lo stato non debba essere troppo esteso, affinché i confini siano ben protetti.

Secondo Platone le donne dovrebbero avere gli stessi diritti degli uomini e ricevere lo stesso tipo di educazione. Non dovrebbero esistere coppie fisse perché la stessa sessualità dovrebbe essere esercitata come servizio alla comunità ed i periodici accoppiamenti decisi dai governanti allo scopo di ottenere la miglior prole possibile.

Secondo il comunismo platonico, i bambini dovrebbero essere tolti alle famiglie in tenera età e allevati in comune a cura dello Stato, ignorando i loro genitori naturali, e considerando ogni adulto come un padre e ciascun ragazzo come un fratello.

I ragazzi fin da giovani in base alla loro predisposizione, dovrebbero essere indirizzati verso le attività più opportune per il loro tipo di anima:

  • prevalenza dell’anima razionale: educazione ginnico-musicale, studio di matematica, astronomia e filosofia per diventare, infine, governanti
  • prevalenza della parte animosa: educazione ginnico-musicale per diventare guerrieri
  • prevalenza della parte concupiscibile: avviamento al lavoro manuale.

Questo tipo d’organizzazione politica e sociale è sicuramente di tipo utopistico, Platone ne era consapevole. Nonostante questo, il filosofo ha scritto questa composizione per mandare dei messaggi chiari alla comunità:

  • chi governa deve avere come punto di riferimento sempre e soltanto il bene comune
  • la ricchezza spesso corrompe.

Platone e la dialettica come confutazione

Papiro Oxyrhynchus con frammento de La Repubblica.
Papiro Oxyrhynchus con frammento de La Repubblica.

Platone fu un filosofo ateniese. Nacque ad Atene intorno al 428 a.C. da genitori aristocratici: il padre Aristone, gli impose il nome del nonno, cioè Aristocle. La sua data di nascita viene fissata da Apollodoro di Atene, nella sua Cronologia, all’ottantottesima Olimpiade. Fu un altro Aristone, un lottatore di Argo, suo maestro di ginnastica, a chiamarlo per la larghezza delle spalle “Platone”, che praticava una sorta di lotta o pugilato.

Un aspetto importante delle teorie filosofiche di Platone fu la “dialettica”: ne parlò per la prima volta nel Menone. In quest’opera contrappose il dialogo usato dai sofisti, che pur di raggiungere il loro obiettivo ingannavano la gente, a quello in cui le persone difendevano la loro tesi senza alcun tipo di inganno. Sempre nel Menone, Platone sostiene che la dialettica si serve di ipotesi e ne deduce le conseguenze per stabilire se sono vere oppure false.

Nel Fedone Platone perfeziona questa tesi precisando che la dialettica consiste nel formulare ipotesi riguardo a ciò che si vuole sapere e analizzando quali conseguenze ne derivano: se la conseguenza contraddice l’ipotesi, questa va considerata insostenibile e quindi falsa. Se invece esse non sono in contraddizione, l’ipotesi può essere considerata sostenibile. Questo però, non basta ad assicurarsi che essa sia vera: per ottenere questa assicurazione, bisognerà cercare di rendere “ragione ” dell’ipotesi, cioè di vedere se essa è riconducibile ad un’ipotesi più generale, ossia se è a sua volta una conseguenza di un’altra ipotesi, della cui verità si sia certi; e se anche di questa non si è certi, bisogna risalire ad un’ipotesi ancora più generale, finche non si giunga ad un punto sufficiente, cioè in un punto in culi la verità sia stata accertata con sicurezza.

Quando non si è certi di qualcosa o si vuole sapere qualcosa, la soluzione migliore è cercare delle ipotesi: in seguito bisogna cercar di distruggerle mediante autentiche confutazioni. L’ipotesi che riuscirà a resistere alla confutazione, una volta distrutte tutte le altre, sarà l’ipotesi vera.

Questo è affermato da Platone nella Repubblica.
La situazione presentata in precedenza, capita molto spesso allo studente quando si trova di fronte a un test a crocette in cui il professore come risposte, oltre a quella giusta ne ha inserite alcune ambigue che potrebbero sembrare giuste. Ora, come fa lo studente a capire qual è quella giusta? Innanzitutto deve aver studiato e poi sceglie la risposta giusta andando per esclusione: crea delle ipotesi e cerca di capire perché la risposta presa in considerazione può essere sbagliata. Quando vede che l’ultima ipotesi non “smontata” corrisponde a una risposta, solo a quel punto è certo che sta scegliendo la soluzione corretta.

L’illustrazione di questo procedimento fatta da Platone la troviamo nel Parmenide, dove si dice esplicitamente che la dialettica consiste nell’applicare alle idee l’argomentazione usata da Zenone di Elea a proposito delle realtà sensibili, che consisteva nel dimostrare una tesi mediante la confutazioni delle ipotesi.

Platone inoltre, afferma che non basta assumere, come faceva Zenone, una singola ipotesi e dedurne le conseguenze per vedere se esse sono contraddittorie fra di loro: bisogna assumere anche l’ipotesi opposta alla prima e dedurne ugualmente le conseguenze per vedere se anche queste siano contraddittorie fra di loro.
Ultimo ma non per importanza è “il principio di non contraddizione” che da Platone viene implicitamente formulato e che impone di considerare come falso un discorso contenente delle contraddizioni, ma anche la validità di quello che sarà chiamato il “principio del terzo escluso”, ossia del principio per cui, fra due tesi contraddittorie l’una rispetto all’altra, è necessario che una sia vera e l’altra sia falsa, così che, una volta individuata, mediante la confutazione, qual è quella falsa, si sa con sicurezza anche qual è quella vera.

Dio si fa!

È proprio con queste parole che il nostro amico filosofo Hegel definisce Dio, ma (ahimè) non ci sta dicendo che Dio sia un fattone. Secondo Hegel Dio è tutto e tutto è Dio, anche tu caro lettore sei una parte di Dio! In altre parole Hegel afferma che Dio prende coscienza di se stesso gradualmente grazie a noi. Ma come? In sostanza si forma e progredisce grazie alla nostra morte, ossia: noi siamo rappresentazioni finite di Dio, che, ovviamente, non è finito. Ciò significa che noi, in quanto esseri determinati, siamo negazione di qualcosa, quindi nel momento della nostra morte si ha la negazione di una negazione, ovvero un’affermazione; più precisamente, la negazione del finito è l’affermazione dell’infinito, cioè di Dio.

Dio, però, non progredisce solo attraverso la nostra morte ma (per fortuna!) anche grazie alla nostra vita; infatti secondo Hegel noi siamo stimolati ad agire nel momento in cui ci troviamo di fronte ad un ostacolo, di conseguenza cresciamo, e con noi anche Dio, poiché noi siamo suoi momenti.

In entrambe le situazioni tutto si basa sul susseguirsi di tesi, antitesi e sintesi. Per capire meglio cosa intenda Hegel con questi termini prendiamo il seguente esempio: noi nasciamo in una condizione di innocenza (tesi), ossia non conosciamo il vizio; crescendo scopriamo l’esistenza del vizio (antitesi); la virtù è la sintesi, cioè il saper vivere in modo innocente pur conoscendo il vizio.

Tutta la storia e la realtà procedono secondo questo sistema dialettico.

Gabriele Bertoli, Roberta Bertoli & Federica Landais.

Atatürk: il padre dei Turchi

Atatürk
Dopo la prima guerra mondiale la Turchia era un paese sconfitto e occupato dalle potenze straniere, intenzionate a smembrare l’Impero ottomano. Le condizioni di pace furono durissime: l’obiettivo era quello di annientare la Turchia. Il sultano Maometto IV e i suoi ministri si sottomisero alla volontà dei vincitori; tuttavia non tutti si rassegnarono: nell’esercito, forti anche dell’appoggio della popolazione,  numerosi ufficiali erano contrari alla politica servile e succube. Fra questi vi era anche Mustafà Kemal, futuro Atatürk, che riuscì ad evitare una terribile sorte al suo paese.
Così il 15 maggio 1919, i Greci, sostenuti dagli Alleati, occuparono l’importantissima città di Smirne. Questa invasione fu considerata da tutti i cittadini turchi un terribile affronto a cui non si poteva restare inermi. L’evento coincise con la partenza di Kemal verso l’Anatolia, luogo dove doveva essere sovrascritto l’accordo di disarmo delle truppe ottomane.
Il sultano mai si sarebbe immaginato che un o dei suoi migliori generali gli si sarebbe rivoltato contro e avrebbe organizzato una resistenza interna. Dopo aver rassegnato le dimissioni dall’esercito, Kemal si ribellò all’annunciato smembramento del paese. Gli obiettivi erano l’indipendenza e la sovranità della nazione.
Nel marzo 1920 Kemal riunì un’assemblea nazionale di cui divenne il primo presidente. Ormai era evidente che  in Turchia c’erano due poteri, e che una guerra civile tra i nazionalisti di Kemal e il governo del sultano, oltre a una guerra d’indipendenza contro gli stranieri invasori (Greci, Inglesi, Francesi) erano inevitabili.
Nel 1922 i Kemalisti riuscirono ad avere la meglio, entrarono in Smirne e trattarono con gli alleati occidentali.
La Turchia venne riconosciuta libera, sovrana e indipendente. Il 29 ottobre 1923 in Turchia venne proclamata la Repubblica e Kemal ne divenne il primo presidente. Il suo prestigio aumentò esponenzialmente: fu rinominato Atatürk, il “padre dei Turchi”.

Il neopresidente iniziò subito un intenso programma di riforme per far entrare la Turchia nella civiltà.
Le sue idee-forza erano il nazionalismo, il populismo, il riformismo, il laicismo, il repubblicanesimo e lo statalismo, e considerando queste mise mano in tutti i settori: istituzione,diritto, religione, istruzione, costumi, vita quotidiana.

Per quanto riguarda la religione, secondo Atatürk uno Stato civilizzato è innanzitutto uno Stato laico, per questo liberò in grande misura l’islam dalla Turchia, abbandonado la legge religiosa per una legislazione  di tipo  occidentale, non considerando più l’islam la religione di Stato, e sopprimendo il sultanato e il califfato. Anche la società e la cultura vennero laicizzate. Venne eliminata la poligamia, le donne ottennero gli stessi i diritti di voto e di uguaglianza in materia ereditaria, l’insegnameto religioso lentamente scomparve. Infine si avvicinò decisamente alla cultura occidentale, sostituendo i caratteri arabi con quelli latini, il calendario dell’egira con quello gregoriano, e il giorno di riposo del venerdì con la domenica. Anche lo spazio venne unificato tramite una rete ferroviaria di ultima generazione di 2800 chilometri.

Atatürk attuò anche numerose  riforme ecomomiche, con il fine di porre fine all’arretratezza e avviare una politica di industrializzazione. Dopo anni difficili per le guerre (la prima guerra mondiale e quella di indipendenza) e l’indebitamento dello stato, la ripresa economica era compromessa.
Inizialmente la politica fu di tipo liberista, con solo un contributo iniziale dello stato all’industria. Tuttavia la crescita, per la forte concorrenza, rimase debole. Con la crisi del 1929 l’economia fu colpita duramente. I dirigenti kemalisti cambiarono orientamento, indirizzandosi verso il protezionismo e il dirigismo (politica di intervento dello stato nelle vicende economiche).
La Turchia così riuscì a diventare meno dipendente dall’estero e a risollevare l’economia, anche se non ci fu un vero e proprio Boom.
Le riforme necessariamente suscitarono resistenza sia nello stesso ambiente di Atatürk, sia fra il popolo. Soprattutto in Anatolia scoppiò una rivolta curda (popolo che ancora adesso non accetta la sovranità turca), in nome della difesa dell’islam. Kemal ne approfittò e ottenne il controllo della stampa e il totale potere giudiziario. La giustizia divenne del tutto arbitraria, i tribunali sommari. Fino al 1929 si contarono 7500 arresti, 600 esecuzioni. Dopo pochi anni non vi era più alcuna opposizione organizzata.
Ma di che natura era il governo kemalista? Dittatura o democrazia? Dittatura senza dubbio. Anche se siamo lontani dal totalitarismo, in quanto non cercò mai di irregimentare la società, (non istaurò né organizzazioni giovanili, né milizie) Atatürk ebbe fino alla sua morte poteri quasi illimitati.

Atatürk è tuttora oggetto in Turchia di un vero e proprio culto. L’insulto alla sua persona è un reato, e il preambolo della Costituzione della Repubblica turca è dedicato a lui: «Il capo immortale e l’eroe senza rivali» (Preambolo della Costituzione della Repubblica Turca)

Francesco Mastrogiovanni

Panta Rei: tutto scorre

Pánta rhêi hōs potamós: tutto scorre come un fiume.

È un famoso aforisma di Eraclito.

Eraclito nacque a Efeso intorno alla metà del VI secolo a.C. Della sua vita sappiamo quel poco che si può desumere dai frammenti di interpretazione particolarmente difficile (per questo fu soprannominato dagli antichi “l’oscuro”) . Uno fra queste proviene da un frammento del trattato Sulla natura:

Non si può discendere due volte nel medesimo fiume…

Niente è immobile, ogni cosa muta e si trasforma continuamente. L’elemento che più si presta, proprio per la sua mobilità, a simboleggiare il divenire, è il fuoco. Il fuoco ha la caratteristica di poter trasformare tutte le cose ed esse, viceversa, possono trasformarsi in fuoco. Il fuoco dunque simboleggia il divenire universale. Per Eraclito questo divenire non è casuale e caotico, bensì regolare e ordinato. La realtà quindi era afferrabile e razionale. Il fuoco, possiede i caratteri essenziali della realtà e viene perciò considerato l’arché.

Ma cosa significa davvero?

Tale espressione, per me, può essere interpretata oggi così: non ci si può bagnare nello stesso fiume due volte perché tutto scorre e nulla è stabile, quindi, dato che anche l’acqua scorre e cambia, implica che ogni momento della vita è unico. Eraclito utilizza il fiume come metafora della vita perciò non ci sarà mai uno stesso secondo simile a un altro, perché tutto è diverso.

Un’altra possibile interpretazione è invece quella di Cratilo, discepolo di Eraclito, che porta alle estreme conseguenze la posizione del maestro. Secondo Cratilo tutto scorre via con una rapidità tale per cui diventa impossibile cogliere l’essenza delle cose. La conseguenza paradossale a cui Cratilo arriva è l’impossibilità di nominare le cose, poiché esse, nel momento in cui le nomino, già sono diventate altro. Cratilo pensava, infatti, che non è possibile bagnarsi nelle acque di un fiume nemmeno una volta. Quindi la realtà non può mai essere afferrata e conosciuta dal pensiero.

Estrema, forse troppo, la posizione di Cratilo.

Quindi rimane un problema filosofico di interpretazione.

La libertà di S. Tommaso d’Aquino

S. Tommaso d’Aquino spiega che l’uomo non sarebbe pienamente uomo se non mirasse a qualcosa che sta al di sopra dell’uomo stesso. La ragione umana può dimostrare che Dio esiste risalendo quindi a Dio dalla realtà, ma l’uomo non può arrivare al suo destino se non attraverso la sua libertà. La libertà è la capacità che l’uomo ha di essere arbitro, cioè padrone delle proprie azioni, scegliendo tra varie possibilità e alternative: di agire oppure di non agire, di fare una cosa piuttosto che un’altra. Se l’uomo fosse portato al suo destino senza libertà, non potrebbe essere felice, non sarebbe una felicità sua, non sarebbe il suo destino. E’ attraverso la sua libertà che il destino, il fine, lo scopo, l’oggetto ultimo può diventare risposta per lui. Il destino è qualcosa di fronte al quale l’uomo è responsabile, è frutto della libertà. La libertà dunque ha a che fare non solo con l’essere protesi a Dio come coerenza di vita ma anche con la scoperta di Dio. Ci sono tanti scienziati, letterati che approfondendo la loro esperienza, hanno scoperto Dio, e tanti che invece hanno creduto di eliminare Dio attraverso i loro studi. Questo significa che riconoscere Dio non è un problema né di scienza né di sensibilità estetica o filosofica, ma è un problema di libertà. La volontà dell’uomo impone delle scelte buone o cattive seguendo un proprio giudizio. La grazia divina “infonde” virtù che portano l’uomo ad una felicità che in questa vita non si potrà trovare. Nel fare ciò, la grazia non distrugge la libertà umana perché ciascuno si muove secondo la propria volontà, liberamente. La grazia divina è dunque indispensabile perché l’uomo voglia il bene e raggiunga la felicità, ma è una grazia che l’uomo vuole liberamente e che quindi “non ha luogo senza un movimento del libero arbitrio”. Ciò significa che ogni uomo decide o meno di chiedere la grazia per sé, e quando la chiede lo fa perché è cosciente di non essere in grado, senza di essa, di raggiungere il proprio destino.

San Tommaso: il rapporto tra fede e ragione

Tommaso d'Aquino


Tommaso d’Aquino, nato intorno al 1225 e morto il 7 Marzo 1274, è ritenuto uno dei maggiori pensatori del Medioevo. Egli era un domenicano che ispirò la sua riflessione teologica alla dottrina del filosofo greco Aristotele, cercando di conciliarla con la tradizione cristiana.

San Tommaso aveva una concezione unitaria del sapere: riteneva che la filosofia e la teologia fossero due ambiti strettamente connessi.

Ciò contrastava con le convinzioni diffuse in quel periodo, secondo le quali esse erano due attività intellettuali distinte poiché la filosofia spesso si opponeva ad alcuni concetti cristiani; in particolare molte autorità civili ed ecclesiastiche avevano tentato di censurare la dottrina aristotelica, ma ciò ebbe uno scarso successo, dato che essa continuò ad influenzare e affascinare il mondo medievale.

Inoltre bisogna considerare che nel mondo latino, molto più che nel mondo arabo, vi erano numerosi seguaci (tra i quali spicca Boezio di Dacia) dell’averroismo, ossia il pensiero filosofico e scientifico di Averroè e della sua scuola. Esso affermava tra le sue tesi la subordinazione della fede alle verità di ragione (ritenuta l’unico organo idoneo ad acquisire conoscenze scientifiche), l’eternità della materia e del mondo, l’unicità dell’intelletto possibile per tutti gli uomini (definita “monopsichismo”). Molti suoi seguaci però non concordavano con il commentatore arabo a proposito del rapporto fede – ragione, affermando la loro separazione, ma non contrapposizione (in quanto le verità razionali possono essere in contrasto, ma non invalidare le verità rivelate). Gli averroisti latini affermavano il primato della fede sulla ragione e distinguevano i principi, i mezzi e gli ambiti da cui derivavano le conclusioni divergenti. Questa posizione fu osteggiata da molti pensatori medievali come Bonaventura e lo stesso Tommaso d’Aquino, che vedevano in essa il pericolo di cadere in una doppia verità. Quest’ultima è una dottrina attribuita proprio ad alcuni scolastici medievali, secondo la quale devono essere considerate simultaneamente vere una conclusione raggiunta dalla ricerca filosofica e una contraria accettata per fede . Averroè fu a lungo considerato il fautore di questa dottrina, ma in realtà egli sostenne che religione e filosofia hanno funzioni e destinatari differenti: la prima esprime la verità per l’azione e prepara allo studio della seconda, la quale, avendo di mira la speculazione, può riguardare un numero di persone più limitato. Dunque la verità è una sola, ma diverso è il modo di conoscerla.

Il maestro di Tommaso, Alberto Magno, sosteneva la tesi delle autorità, considerando che la fede si basa sulla rivelazione divina, mentre la ragione si può occupare solo di quanto le è accessibile; però egli pensava che si dovesse avere il diritto di studiare anche la fisica e la filosofia aristotelica per capire meglio le leggi che governano il mondo naturale.

Tommaso d’Aquino riconosce che teologia e filosofia partono da premesse differenti, perché la prima inizia la sua indagine e riflessione da verità accolte, a cui si crede per fede, al contrario la seconda analizza fenomeni e concetti evidenti, che si possono raggiungere razionalmente. Egli però ritiene che esse si servano dello stesso metodo scientifico, ossia il criterio aristotelico, per giungere a delle conclusioni; quindi non ci possono essere contraddizioni tra la scienza teologica e quella filosofica, ma nel caso in cui esse esprimano tesi contrastanti, Tommaso afferma che la teologia è superiore in quanto i suoi principi sono infallibili perché ottenuti dalla rivelazione divina, dunque la contraddizione è data da un uso scorretto della ragione, che può arrivare a conoscere da sola esclusivamente una parte dei dogmi affermati nelle Sacre Scritture.

Inoltre secondo San Tommaso la teologia deve fornire un sommo sapere speculativo e pratico, mentre la filosofia ha il compito di dimostrare la non contraddittorietà dei preamboli di fede (come l’affermazione dell’esistenza di Dio, la definizione di esso, dei suoi attributi e l’immortalità dell’anima), deve combattere eventuali posizioni contrarie ad essa e infine chiarire i misteri della fede attraverso analogie e similitudini. Tutte queste funzioni configurano la filosofia anche come una teologia “naturale”.

Dunque egli ritiene che, oltre ad alcuni contenuti religiosi inaccessibili per la ragione umana, ve ne sono altri che essa può arrivare a conoscere e approfondire razionalmente.

Rispetto a visioni tetre, cupe come quella incarnata da San Pier Damiani, il cui centro è la visione religiosa del mondo, la superiorità di essa rispetto ad ogni elemento e il disprezzo delle questioni umane e terrene, Tommaso appare come un innovatore perché egli comprende che non si può credere nell’assurdo, ma che anzi fede e ragione debbono necessariamente collaborare; San Tommaso sostiene dunque il principio formulato da Sant’Agostino “Credo ut intelligam, intelligo ut credam” (“Credo per comprendere, comprendo per credere”). Per questo il teologo domenicano rivaluta il corpo e il mondo terreno.

Il rapporto fede – ragione è stato a lungo oggetto d’indagine, analisi e discussione per diversi filosofi e teologi, ma in realtà esso è stato, è e probabilmente sarà un tema di riflessione per tutti gli uomini di ogni periodo storico, anche nella società attuale.

Io penso che questo sia un argomento molto delicato, che coinvolge tutti in prima persona e su cui è difficile, anzi impossibile, trovare considerazioni condivise.

In una società laica come la nostra, la cultura e il modo di pensare stanno diventando sempre più autonomi dalla religione; ciò porta a credere che la teoria esposta da San Tommaso sia difficile da mettere in atto, perché mentre la fede esprime assiomi ritenuti veri per fiducia nella rivelazione divina, invece la ragione si basa, come detto, solo su elementi logici, deducibili dalla diretta osservazione e dall’esperienza di ognuno di noi.

Inoltre personalmente non ritengo che entrambe siano improntate ad un metodo scientifico, perché esso richiede dei principi evidenti e universalmente noti, quindi può esserlo solo la filosofia, la ragione (anche se Tommaso afferma che la teologia è una scienza perché i principi religiosi acquistano un’evidenza speciale agli occhi del credente, anche perché essi derivano dalla conoscenza che Dio ha di se stesso, trasmessa agli uomini attraverso la rivelazione). Poi ci sono casi in cui esse cadono in contraddizione tra di loro, giungendo a conclusioni divergenti; di ciò era consapevole anche Tommaso e, proprio per questo, egli capì che per esporre il suo pensiero era necessario trovare un punto d’incontro per entrambe e conciliarle (e lo fece infatti affermando che anche la teologia è una scienza).

Nonostante ciò, come afferma Tommaso, sia teologia che filosofia cercano di raggiungere conclusioni veritiere e penso che non si possa negare che esse sono in continuo contatto, confronto e si influenzano a vicenda, perché comunque bisogna considerare che la nostra razionalità si trova a vivere e operare in un contesto di tradizioni e usanze fortemente caratterizzate dalle credenze religiose.

L’attualità del pensiero di Tommaso d’Aquino si può riscontrare anche nella lettera enciclica “Fides et Ratio”, promulgata da Papa Giovanni Paolo II nel 1998. In essa egli afferma che “La Fede e la Ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità”. Con questa metafora, il Papa spiega che fede e ragione non si escludono, ma al contrario si completano e si sostengono a vicenda. Spesso l’uomo tende ad utilizzare una sola delle due ali, trovando poi difficoltà a proseguire nel percorso di ricerca della verità, perché quest’ultima può essere raggiunta solo con il dialogo e l’interazione tra fede e ragione (che da sole risultano incomplete). Il Papa inoltre spiega che inizialmente l’uomo non riesce a trovare risposte razionali alle verità religiose rivelate, quindi è necessario in un primo momento invocare la fede per proseguire successivamente la ricerca della verità con l’intelletto, che è indispensabile per capire le rivelazioni divine, che dunque non vanno accettate, ma conosciute, pensate e analizzate dalla ragione.

Viva la sincerità?

Chi non ha mai mentito? E non voglio obiezioni da parte di falsi buonisti sul fatto che tutti, e dico veramente tutti, qualche bugia nella propria vita l’abbiano detta, che si tratti di piccole frottole o di sostanziose falsità. Ma cosa induce l’uomo a mentire?
Ci sono molteplici e differenti motivi che inducono la mente umana a nascondere la verità, coprendola con una bugia: a volte è per puri scopi personali, per apparire chi non si è; altre per paura di assumersi le proprie responsabilità; altre ancore, per proteggere dal dolore una persona a noi cara. Vorrei soffermarmi soprattutto su quest’ultimo ragione, cioè sui casi in cui si mente per non ferire i sentimenti di chi ci sta di fronte, per non far soffrire le persone cui vogliamo bene. Sembra un paradosso: mentire a una persona perché le si vuole bene. Eppure è così.
Lo so. Ora mi direte che le bugie non portano da nessuna parte, che se si tiene a una persona, bisogna dirle sempre la verità, qualunque essa sia. Son d’accordo; o quasi.

Credo sia capitato anche a voi di dover scegliere se dire o meno una “brutta” verità a qualcuno: cosa avete fatto in quella situazione? Cioè, il mio dubbio è: una spiacevole verità è davvero migliore di una consolante bugia, o di una “bugia a fin di bene”? Se sapete che la verità farà star male, recherà solo dolore, farà tormentare l’anima di chi vi sta di fronte, senza che egli possa far nulla per migliorare le cose, mentre una piccola bugia magari gli solleverà il morale, voi cosa fareste? Non sto dicendo di illuderlo, ma di rendergli più dolce qualcosa che sarebbe amaro; dirgli una mezza verità, perché forse l’altra metà farebbe soltanto male. Non c’è nulla di sbagliato in fondo, se il male arrecato dalla bugia è minore di quello causato dalla verità, giusto? Però…
Però, una bugia è pur sempre una bugia, e come tale verrà a galla. Una menzogna, una volta scoperta, anche se a fin di bene, poi causerà doppio dolore: la sfiducia nella persona che l’ha detta e il dover affrontare la dura verità.
Quindi cos’è meglio: lasciar che qualcuno viva serenamente, o persino felicemente, in una piccola falsità oppure destarlo e mostrargli la difficile, aspra e irrisolvibile realtà? Voi cosa ne pensate?

Test di leggibiltà

«Paganini non ripete!» mi dicono spesso. Impossibile: faccio il professore…

Tra le tante cose ripetute, c’è anche l’invito a semplificare il linguaggio.
Sembrano parole al vento, una voce che grida nel deserto.

Ecco allora uno strumento di controllo: http://labs.translated.net/leggibilita-testo/
Utile anche per i prof 😉

Aggiornamento
Purtroppo lo strumento che segnalavo non sembra più disponibile.
Ecco delle alternative: