Platone riteneva che nessun uomo è uguale ad un altro. Ciò è dato anche dal fatto che, secondo il filosofo, l’anima di un uomo è tripartita, cioè l’anima di un uomo ha tre parti: c’è una parte razionale, che presiede all’uso della ragione, una parte concupiscente, che regola i desideri e i bisogni primari dell’uomo, e una parte animosa, che sarebbe una parte intermedia tra le precedenti, che genera le passioni positive, come ad esempio il coraggio. Il filosofo inoltre immaginava che, in uno Stato ideale, la cui forma di governo era la monarchia (infatti Platone riteneva che la tirannide era ingiusta e la democrazia corrotta, visto che aveva condannato a morte uno degli uomini migliori, Socrate; verso la vecchiaia Platone riterrà una forma mista il governo migliore), gli uomini che avevano l’anima la cui parte prevalente era quella razionale dovevano essere i governanti, quelli con la parte animosa dovevano essere i guerrieri e quelli con la parte concupiscibile, non essendo in grado di tenere a freno i loro istinti, avrebbero dovuto essere i lavoratori. Insomma, gli uomini non erano paragonabili tra loro.
Secondo la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, che è un testo giuridico elaborato durante la Rivoluzione francese, oltre ai vari diritti fondamentali dell’ uomo, c’è il principio di uguaglianza, cioè tutti gli uomini sono pari tra loro, senza distinzioni di alcun genere.
Chi ha ragione quindi?
La Dichiarazione, verrebbe da dire, perché elenca una serie di diritti importantissimi ed è stata prodotta in tempi moderni, durante una rivoluzione a cui poi ne è seguita una repubblica.
Ma ha proprio torto Platone?
Secondo me no. Il mio parere è che sia il filosofo che la Dichiarazione hanno qualcosa sia di giusto sia di errato. È vero che abbiamo tutti gli stessi diritti fondamentali, come ad esempio il diritto alla vita, però è anche vero che non siamo tutti uguali, in quanto ogni persona ha un proprio carattere, una propria personalità, insomma un proprio modo di essere. Perciò bisogna pensare che siamo uguali solo in determinati aspetti, per il resto è molto meglio essere diversi.
L’inquisizione arrivò in Spagna nel XV secolo come strumento totalmente nelle mani del re. Questa istituzione doveva svolgere il compito di emarginare fin da subito le deviazioni religiose attraverso il rogo o la prigione per evitare che queste si espandessero maggiormente.
In Spagna, in particolare, la religione fu un affare di Stato; infatti il Sant’Uffizio (così era inizialmente chiamato il tribunale) prendeva il nome dal compito che doveva svolgere, l‘officium santo: difendere la fede cattolica. In particolare indagava sugli ebrei convertiti per scoprire chi continuasse a praticare clandestinamente l’antica fede.
Dopo l’espulsione della minoranza ebraica, nel 1492, il Sant’Uffizio si mosse contro i moriscos, i musulmani convertiti di buon grado o con la forza che vennero perseguitati fino alla definitiva espulsione avvenuta all’inizio del XVI secolo. Il tribunale sradicò il protestantesimo spagnolo nel Cinquecento e nel Seicento per poi perseguitare i cristiani blasfemi.
L’inquisizione spagnola dipendeva da un inquisitore generale, nominato dal Papa su proposta del Re, a differenza dell’Inquisizione romana che dipendeva direttamente dal papa. I sovrani spagnoli usarono quest’arma senza scrupoli come un’autentica polizia politica al servizio della monarchia. Il primo e più famoso inquisitore, per il terrore che ispirava, fu Tomàs de Torquemada, un frate domenicano di Valladolid. Egli fu uno spietato funzionario politico: rovinò circa 114.000 famiglie e fornì il modello intransigente a cui si ispirarono i successivi inquisitori. I metodi utilizzati dall’Inquisizione verso eretici, streghe, nemici della fede cristiana prevedevano il ricorso alla tortura. La confisca dei beni degli imputati, che li privava di qualsiasi risorsa finanziaria, produceva una sicura «morte sociale» dei malcapitati. Ma i giudici utilizzavano soprattutto la prigione (solitamente a vita) che spesso era l’anticamera del supplizio. L’Inquisizione amava molto le esecuzioni pubbliche, con grande sfarzo. In Spagna erano chiamate autodafé: una sorta di atto di fede che il condannato doveva pronunciare pubblicamente. I condannati portavano sul capo un copricapo alto, diviso in due punte, chiamato “mitra” ed erano vestiti con una tunica gialla. Essi avanzavano in processione e venivano a lungo esortati a rinnegare i loro errori. Se acconsentivano, ottenevano di morire strangolati; se si ostinavano, venivano bruciati sul rogo.
Nonostante queste pene bisogna però ricordare che i giudici dell’Inquisizione erano dei tecnici del diritto molto competenti e scrupolosi, infatti, per esempio, nella città di Toledo i giudici rifiutarono di bruciare delle presunte streghe incolpate dell’adorazione del demonio quando la folla ne chiamava a gran voce la morte. Inoltre L’Inquisizione era un’istituzione unica nel suo genere poiché rifiutava di prendere in considerazione i vari privilegi personali e locali introducendo così un concetto di uguaglianza di fronte alla legge.
A una prima superficiale osservazione e lettura dei testi può sembrare che Sant’Agostino voglia far dipendere la ragione umana dalla fede. Invece, leggendo le sue considerazioni sul rapporto tra fede e ragione, o meglio ancora tra fede e conoscenza, si scopre un uomo d’avanguardia, le cui idee anticipano di secoli molti studi filosofici successivi.
Secondo Agostino infatti la fede e la ragione umana, non devono essere viste come due mezzi contrastanti per raggiungere la conoscenza, ma come due potenzialità che l’uomo deve saper integrare. Le Scritture così come ci furono consegnate usano spesso un linguaggio ambiguo, perciò la ragione può aiutare la fede a comprendere le verità rivelate, interpretando metafore e immagini bibliche. Ma allora la ragione umana è migliore della fede e la sovrasta? No perché la ragione umana può spingersi ovunque, ma non ci permette di sapere cosa si deve raggiungere, allora la fede entra in gioco e guida l’animo umano alle decisioni giuste.
In alcune occasioni però è necessario che si lasci spazio per indagare alla ragione, e che solo in seguito la fede intervenga per analizzare ciò che la ragione ha scoperto.
Sant’Agostino dà un esempio di ciò parlando dei testi antichi: spiega infatti come l’uomo possa imparare dagli scritti antecedenti al cristianesimo, ma si debba servire di essi come un mezzo: non rinnega la validità dei testi pagani, ma ritiene necessario analizzare la loro dottrina sotto un ottica cristiana.
Citando il filosofo: “Non si tratta di rigettare la fede, ma di percepire con la luce della ragione le verità che già credi con la ferma fede”. Ciò che ci sta dicendo è che la fede (ma vale anche per altre correnti di pensiero) non varia la propria natura se osservata con la razionalità, ma deva farsi forte di ogni tipo di conoscenza che possiamo fornirle. Agostino dice inoltre che non si deve mai subordinare la ragione alla fede poiché ci furono donate allo stesso modo, ed essendo un dono è bene che usiamo anche la ragione; inoltre senza di essa non potremmo nemmeno capire cosa voglia dire “credere in Dio”.
Agostino rimane però un uomo di chiesa e un teologo, e conclude dicendo che la fede deve essere anteposta alla ragione là dove essa non può spingersi, e che grazie alla fede che purifica la mente, la ragione può riprendere la sua strada.
Tenendo conto del fatto che queste sono parole di un religioso del IV secolo d.C. è innegabile che siano all’avanguardia per la loro epoca.
Pur non essendo io credente ritengo questi pensieri assai saggi e queste idee moderne. Infatti alla ragione umana serve un metodo per scegliere la strada da percorrere, e sia esso la fede o qualsiasi altra dottrina, è importante che nessuno dei due venga subordinato all’altro. Ciò è importante poiché l’uomo rimane prima di tutto un essere razionale.
Tommaso d’Aquino nella Summa theologiae propone 5 prove dell’esistenza di Dio. Queste prove riscossero grande successo al suo tempo e furono indubbiamente frutto di una grande deduzione logica, tuttavia zoppicano in alcuni punti e alla luce delle nostre nuove conoscenze risultano altamente improbabili; ora tenterò quindi di confutarle.
La prima via e la più evidente, è quella che parte dal moto. È certo infatti e consta ai sensi, che alcune cose si muovono. Ora tutto ciò che si muove è mosso da altri … Muovere, infatti, vuol dire trarre dalla potenza all’atto: ora una cosa non può essere portata all’atto se non in virtù di un ente che sia già in atto … Se, dunque, ciò da cui deriva il moto si muove a sua volta, sarà necessario che anch’esso sia mosso da un terzo, e questo da un quarto. Ma in questo caso non si può procedere all’infinito … Dunque è necessario arrivare ad una prima ragione del mutamento che non muti affatto; e tutti riconoscono che esso è Dio.
La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente. Vediamo infatti, nelle cose che cadono sotto i sensi, un ordine di cause efficienti; tuttavia non si vede, né è possibile, che una cosa sia causa efficiente di sé stessa, poiché, se così fosse, una cosa dovrebbe essere prima di sé stessa, il che è impossibile.(Ogni causa precede sempre i suoi effetti). Ma non è possibile che nelle cause efficienti si proceda all’infinito… Dunque è necessario porre una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio.
Tommaso ritiene a ragione, che esista una causa efficiente prima ingenerata e non causata da altro che metta in moto le varie cause successive, tuttavia se si considera il concetto di causa e effetto, bisogna ammettere che questo è limitato in un certo tempo e uno certo spazio mentre Dio è al difuori di questi concetti perché non è “presente” nello spazio e non è influenzato dal concetto di tempo. Inoltre, o ammettiamo che tutte le cose hanno una causa (quindi anche Dio), oppure esiste qualcosa di non causato che sia causa di tutto il resto. Questo potrebbe essere l’energia o la materia, o anche più enti, infatti se si ammette l’esistenza di qualcosa ingenerato non è detto che sia uno e uno solo.
Attribuire questo ruolo ad un essere superiore significa cercare di dare una spiegazione a fenomeni immanenti di cui non si ha i mezzi e le conoscenze materiali per poterli spiegare razionalmente.
Oggi sappiamo che l’energia non si crea e non si distrugge ed è la causa di tutti i fenomeni fisici che possiamo osservare.
La terza via è presa possibile e dal necessario, ed è questa. Tra le cose noi ne troviamo di quelle che possono essere o non essere; infatti alcune cose nascono e finiscono, il che vuol dire che possono essere e non essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose esistenti in natura sono tali che possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad esistere se non per qualcosa che è. Dunque, se non c’era ente alcuno, è impossibile che qualcosa cominciasse ad esistere e così anche ora non ci sarebbe niente, il che è evidentemente falso. […]Dunque bisogna concludere all’esistenza di un essere che sia di per sé necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questi tutti dicono Dio.
Come detto sopra San Tommaso non trovando queste qualità in alcun ente materiale le attribuisce a Dio, tuttavia per poter fare questa affermazione, prima dovrebbe aver potuto vedere ogni cosa materiale e accertarsi che potesse anche non esistere. Inoltre noi oggi possiamo ancora una volta attribuire queste caratteristiche all’energia che, come sappiamo, non può essere creata ne distrutta, e può a sua volta diventare materia che poi si può plasmare nei vari enti che compongono l’universo. E ancora possiamo pensare che i singoli enti possano non essere necessari mentre sia necessario il loro insieme, per esempio per fare una macedonia servono vari frutti ma nessuno di essi è fondamentale, mentre è necessario il loro insieme infatti deve esserci più di un tipo di frutto.
La quarta via parte dai gradi di perfezione che si riscontrano nelle cose. C’è infatti nelle cose il più e il meno buono, il più e il meno vero, il più e meno nobile, e così via. Ma il più e il meno si dicono di cose diverse in quanto si avvicinano diversamente ad un massimo, come è più caldo ciò che si avvicina di più a ciò che è caldo al massimo. Vi è dunque un essere verissimo e ottimo e nobilissimo, e quindi qualcosa che è in grado massimo … Ora ciò che è massimo in un genere è causa di tutto ciò che appartiene a quel genere … Vi è dunque qualcosa che è causa dell’essere, della bontà e della perfezione di tutti gli enti, e quello chiamiamo Dio.
Questa dimostrazione non regge poiché per stabilire un rapporto tra due enti basta confrontarli tra di loro e non serve paragonarli ad un terzo ente che rappresenta il massimo termine di paragone. Per esempio si può affermare che il topo è più piccolo dell’ orso senza conoscere l’elefante.
La quinta via parte dal governo delle cose. Vediamo infatti che alcuni enti privi di conoscenza, ossia i corpi naturali, operano per un fine; il che risulta dal fatto che operano sempre o il più delle volte in modo da conseguire ciò che è il meglio. Da ciò è manifesto che non raggiungono il fine per caso, ma perché vi sono orientati. Ora gli enti che non hanno conoscenza non tendono al fine se non vi sono diretti da uno che ha conoscenza e intelligenza, come la freccia è diretta dall’arciere. Dunque vi è un principio intelligente dal quale tutte le cose della natura sono ordinate ad un fine, e questo chiamiamo Dio.
Il fatto che un ente naturale e privo di conoscenza giunga apparentemente ad un presunto fine non implica che questo sia mosso da Dio. È normale che corpi apparentemente simili si comportino allo stesso modo perché hanno le stesse caratteristiche fisiche. Il sale si scioglie sempre in acqua e possiamo dire che questo succede a causa delle sue proprietà chimico-fisiche e non perché è predisposto a conseguire una presunta perfezione. Inoltre in natura esistono molti fenomeni ed enti dal comportamento ciclico (per esempio gli astri) e che quindi non tendono ad un fine e non sono in alcun modo ordinati. Tommaso fa un’analogia tra degli enti privi di conoscenza di cui sappiamo per esperienza che vengono effettivamente mossi verso il loro fine da enti intelligenti ed altri enti che sembrano anch’essi mossi verso un fine, e poiché non ci fa capire chi li muova attribuisce questo ruolo a Dio. Ma un ragionamento analogico, soprattutto quando esce dal campo dell’esperienza, non ha mai il valore di una prova stringente.
Rouen, 30 Maggio 1431: Giovanna d’Arco, eroina francese, protagonista indiscussa della guerra dei cent’anni viene arsa viva con l’accusa di eresia. Aveva diciannove anni. 7 Luglio 1456, la pulzella d’Orleans viene riconosciuta innocente. Le accuse cadono. 16 Maggio 1920: la giovane viene proclamata santa.
Ma come mai una ragazza della sua età diventò così importante e pericolosa da essere uccisa?
Quando la giovane rivoluzionaria, figlia di contadini, si presentò alla corte di Carlo, il delfino di Francia, sostenendo che Dio le avesse detto che era suo compito salvare la nazione, non furono in molti a crederle e fu solo dopo svariati interrogatori che il futuro re si decise, seppur con qualche rimostranza, ad affidarle un esercito. Quella fu probabilmente la miglior scelta che potesse fare, dal momento che in poco tempo la pulzella conseguì notevoli vittorie ottenute grazie al grande incoraggiamento che dava alle sue truppe, tra le quali la più famosa ad Orleans. In seguito Carlo fu proclamato re a Reims e da questo momento iniziarono i problemi per Giovanna. La ragazza aveva ottenuto l’appoggio del popolo, ma nell’ambiente di corte era diventata ingombrante. Lo stesso Carlo VII non le affidò un altro esercito e quando venne catturata durante un attacco a Compiègne era praticamente sola. Fatta prigioniera dai Borgognoni venne presto venduta agli inglesi che la accusarono di eresia e stregoneria. Il re di Francia non mosse un dito per liberarla, sebbene sapesse che se la giovane fosse stata dichiarata eretica anche la sua posizione sul trono avrebbe vacillato. Il processo si aprì il 9 Gennaio 1431 e fu presieduto da due giudici ecclesiastici, il vescovo Pierre Cauchon e l’inquisitore Jean le Maistre, ma in realtà fu interamente guidato da un folto gruppo di teologi dell’Università di Parigi, che parteciparono al processo come assessori. Gli interrogatori a cui venne sottoposta puntavano a farle dire qualcosa che potesse essere indizio di eresia o stregoneria. Gli inquisitori volevano far crollare Giovanna e probabilmente pensavano che sarebbe stato un compito facile data la sua età e le sue umili origini, ma la pulzella rispondeva a tutte le domande con fermezza e con una punta di ironia. Quando furono letti all’imputata i settanta articoli di accusa, poté constatare che molti erano palesemente falsi, come l’accusa di bestemmia. Ma agli inquisitori non interessava altro che eliminarla. Chissà come avrebbero reagito sapendo che stavano chiamando strega una Santa?
La ragazza fece un appello al giudizio del Papa, che però venne respinto dal tribunale. La sentenza arrivò inesorabile e prevista: morte. Giovanna ricevette per l’ultima volta la Comunione e chiese che davanti al suo rogo fosse posta una croce di processione. Da notare è il fatto che per contrappasso una sua statua sia stata posta nella cattedrale di Winchester, dinnanzi alla tomba del Cardinale Beaufort, il quale ebbe un ruolo decisivo nel tragico processo.
La salvatrice di Francia era diventata troppo potente, troppo importante per rimanere in vita.
Per molti secoli è stata esempio di una grande condottiera, di tenacia e di forza spirituale; è stata ed è tutt’ora un modello per molte giovani che, come lei hanno deciso di non rimanere in disparte.
Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, ha visto nell’impostazione tolemaica un’espressione di narcisismo dell’uomo e nel copernicanesimo la prima grande contestazione della centralità dell’uomo.
L’impostazione tolemaica è un modello astronomico proveniente dall’astrologo, astronomo e geografo greco Tolomeo, vissuto nel II secolo d.C. Egli riprese e perfezionò ulteriormente il sistema proposto da Ipparco (le cui opere sono andate tuttavia perdute) nel II secolo a.C. .
Si trattava di un sistema di tipo geocentrico; esso poneva dunque la Terra al centro dell’universo, supponendo che gli altri corpi celesti ruotassero intorno ad essa.
Il sistema copernicano fu invece introdotto da Nicolò Copernico (Mikołaj Kopernik), astronomo polacco; egli propose (nel XVI secolo) un modello astronomico di tipo eliocentrico: il Sole fisso al centro dell’universo e gli altri pianeti che vi girano intorno. Non fu il primo modello eliocentrico: anche Aristarco di Samo nel III secolo a.C. ne aveva proposto uno, ma gli antichi avevano preferito l’ipotesi tolemaica.
L’interpretazione dell’affermazione di Freud potrebbe sembrare banale: l’uomo si riteneva tanto importante da porsi addirittura al centro dell’Universo. È opportuno guardare la definizione, presa dal vocabolario, del termine “narcisismo” riferito al singolo individuo umano: adorazione morbosa di sé stessi, che si esprime nel culto e nella cura maniacale per il proprio corpo e che spinge a improntare a totale egoismo i rapporti con il mondo. Dunque, nel nostro caso, l’Uomo, inteso come genere umano, si sarebbe posto al centro dell’Universo, “mettendo in mostra” puro egoismo. Simile, ma più improntata all’ambito sessuale, è l’interpretazione che Freud dà del narcisismo nella sua opera Introduzione al narcisismo. Il termine «narcisismo» deriva dalla descrizione clinica; Freud lo riprese da Paul Näcke, che lo adottò nel 1899 per descrivere l’atteggiamento di chi tratta il proprio corpo allo stesso modo con cui viene di solito trattato il corpo di un oggetto sessuale, per cui lo utilizza per raggiungere un personale soddisfacimento. Il termine “narcisismo” viene così ad indicare una perversione che ha assorbito tutta la vita del soggetto. Dunque, ricapitolando, Freud vide nell’impostazione tolemaica un’espressione di narcisismo dell’Uomo proprio per la fermezza e costanza con la quale Egli difese questo modello.
Copernico ebbe il coraggio di andare contro il buon senso comune, osò mettere in discussione una teoria scientifica accettata da secoli e, soprattutto, scalzò l’essere umano da una posizione di privilegio. Il copernicanesimo è, allora, davvero, la prima grande contestazione della centralità dell’uomo.
Sembra ovvio, persino banale. Eppure mi sorge spontanea una domanda: com’è possibile che durante il Medioevo (durante il quale il genere umano “venne condotto” dai dogmi della Chiesa), e fino alla rivoluzione scientifica, l’Uomo, abbia ritenuto corretto il sistema tolemaico e ritenuto falso a prescindere qualsiasi altro modello, quando è ben risaputo che la mentalità medievale pone Dio, e non l’uomo, al primo posto? E, d’altra parte, com’è possibile che proprio nel periodo umanistico-rinascimentale, quando l’Uomo si scopre artefice del suo destino, Egli cominci finalmente ad accettare il sistema copernicano, che elimina l’uomo dal centro dell’universo?
Dal Messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Palazzo del Quirinale, 31/12/2012
Sta per iniziare un anno ancora carico di difficoltà. Non ci nascondiamo la durezza delle prove da affrontare, ma abbiamo forti ragioni di fiducia negli italiani e nell’Italia. Più di un anno fa dissi a Rimini : si è nel passato parlato troppo poco “il linguaggio della verità”. Ma avere e dare fiducia “non significa alimentare illusioni, minimizzare o sdrammatizzare” i dati più critici della realtà : si recupera fiducia “guardandovi con intelligenza e con coraggio. Il coraggio della speranza, della volontà e dell’impegno”.
Ebbene, penso che una maturazione in questo senso ci sia stata, specialmente tra i giovani. Sono loro che hanno più motivi per essere aspramente polemici, nel prendere atto realisticamente di pesanti errori e ritardi, scelte sbagliate e riforme mancate, fino all’insorgere di quel groviglio ed intreccio di nodi irrisolti che pesa sull’avvenire delle giovani generazioni. I giovani hanno dunque ragioni da vendere nei confronti dei partiti e dei governi per vicende degli ultimi decenni, anche se da un lato sarebbe consigliabile non fare di tutte le erbe un fascio e se dall’altro si dovrebbero chiamare in causa responsabilità delle classi dirigenti nel loro complesso e non solo dei soggetti politici.
E che dire poi dell’indignazione che suscitano la corruzione in tante sfere della vita pubblica e della società, una perfino spudorata evasione fiscale o il persistere di privilegi e di abusi – nella gestione di ruoli politici ed incarichi pubblici – cui solo di recente si sta ponendo freno anche attraverso controlli sull’esercizio delle autonomie regionali e locali?Importante è che soprattutto tra i giovani si manifesti, insieme con la polemica e l’indignazione, la voglia di reagire, la volontà di partecipare a un moto di cambiamento e di aprirsi delle strade. Perché in fondo quel che si chiede è che si offrano ai giovani delle opportunità, ponendo fine alla vecchia pratica delle promesse o delle offerte per canali personalistici e clientelari. E opportunità bisogna offrire a quanti hanno consapevolezza e voglia di camminare con le loro gambe : bisogna offrirle soprattutto attraverso politiche pubbliche di istruzione e formazione rispondenti alle tendenze e alle esigenze di un più avanzato sviluppo economico e civile.
Prospettare una visione per il futuro delle giovani generazioni e del paese è importante fin da ora, senza limitarsi ad attendere che nella seconda metà del 2013 inizi una ripresa della crescita in Italia e adoperandosi perché si concretizzi e s’irrobustisca.
Buon Anno a tutto il “Mondo del Calvino” con una bella poesia di Rodari.
L’anno nuovo
Indovinami, indovino
tu che leggi nel destino:
l’anno nuovo come sarà?
Bello, brutto, o metà e metà?
“Trovo stampato nei miei libroni
che avrà di certo quattro stagioni,
dodici mesi, ciascuno al suo posto,
un carnevale e un ferragosto,
e il giorno dopo del lunedì
avrà sempre un martedì. Di più per ora scritto non trovo
nel destino dell’anno nuovo:
per il resto anche quest’anno
sarà come gli uomini lo faranno”
“Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem” ossia “Non moltiplicare gli enti se non necessario”; con questa affermazione Guglielmo di Occam, filosofo inglese del Trecento, diede vita al principio metodologico conosciuto con il nome di “Rasoio di Occam”.
Tale principio suggerisce, individuato un fenomeno che vogliamo analizzare, di scartare eventuali ipotesi aggiuntive che andrebbero solo a complicare la nostra formulazione e fermarci al primo stadio della nostra teoria, se già la riteniamo sufficiente. Ad esempio: se affermo che una pentola d’acqua messa su un fornello dopo un certo periodo di tempo bolle poiché ha raggiunto una data temperatura, potrei anche aggiungere che bolle poiché è il 6 dicembre 2012 o perché mi trovo a Milano; grazie al Rasoio di Occam siamo in grado di estrapolare un’unica teoria “purificata” da ogni assurda aggiunta; nel nostro caso sarà: l’acqua bolle poiché ha raggiunto la sua temperatura di ebollizione indipendentemente da in che giorno o dove si trovi. Di questo modo ci accorgiamo di come tutte le scienze moderne si avvalgano di tale principio per dar vita a degli enunciati, poiché, come visto in precedenza, senza di esso sarebbero infinite le ipotesi formulabili. Occam ci raccomanda quindi di stare ben lontani dalle complicazioni, poiché tra molte e diverse ipotesi la più semplice e sintetica (pur sempre ragionevole), è anche la più plausibile. Come dargli torto? La storia lo prova: le teorie più semplici hanno quasi sempre superato un maggior numero di controlli rispetto alle teorie più complesse.
Inoltre, con tale principio crollano i pilastri della metafisica e della gnoseologia tradizionale: cade il concetto di sostanza poiché delle cose noi conosciamo solo le qualità o gli accidenti che ci rivela l’esperienza. Altrettanto succede per il concetto metafisico di causa efficiente: ciò che si conosce grazie all’esperienza è la diversità tra causa ed effetto, ma non è necessario istituire un definito vincolo metafisico tra di essi. Occam non distingue perciò tra causa efficiente e causa finale poiché l’una non agisce perché desiderata dall’altra e inoltre perché non è possibile dimostrare che ogni evento abbia una causa finale. Non ha senso dire che il fuoco brucia in vista di un fine dal momento che non è necessario perché il fuoco bruci.
Il rasoio di Occam attua un processo di economizzazione della ragione che esclude dal mondo della scienza gli enti e i concetti considerati superflui, in primo luogo gli enti e i concetti metafisici.
Secondo voi quale potrebbe essere il miglior campo in cui attuare questo principio? Si pensi alla politica e alla Costituzione italiana: tanti eletti con le stesse idee e troppe leggi, a volte poco conciliabili fra loro. Perché non si getta tutto, politici e costituzione in una padella?
Come della pancetta si libera del proprio grasso per far sì che rimanga la vera sostanza carnosa, allo stesso modo noi potremmo ridurre il numero delle persone da eleggere, che portano solo confusione, e di quelle leggi con clausole cavillose, che non fanno altro che complicarci l’esistenza.
Forse è giunto il momento di applicare il rasoio di Occam alla politica, alla burocrazia, al diritto: staremmo tutti meglio.
Protagora afferma: “L’uomo è misura di tutte le cose, per quello che sono così come sono, per quello che non sono così come non sono”. Questa massima può essere interpretata in due modi:
interpretazione relativista: la natura delle cose è esattamente così come pare a ciascuno (quindi visione soggettiva)
accettazione dei limiti umani: gli uomini devono attenersi a criteri di giudizio esclusivamente umani, perché non possono confrontarsi con una verità assoluta e quindi divina.
Io non sono d’accordo con questo pensiero. A mio parere ogni persona ha una visione soggettiva delle cose e del mondo, ma spesso essa corrisponde all’oggettività e ad un pensiero comune considerato reale e concreto da tutti. Penso quindi che delle verità assolute con cui paragonarsi esistano e siano assolutamente accessibili dall’ uomo.
Per quello che ho capito sul pensiero di Protagora, se una persona dice “il sole brilla” e un’altra dice “il sole non brilla”, allora entrambe le affermazioni sono giuste. Secondo me non è vero perché ad esempio in questo caso, tra i pensieri dei due, una verità assoluta che può essere provata c’è, ed è che il sole brilla. Quindi ritengo esatta solamente la prima affermazione e di conseguenza, ritengo sbagliato il pensiero di Protagora.
Certo, Protagora potrebbe rispondermi: “per te il sole brilla, ma soltanto di giorno, per un cieco non brilla mai. E tutti e due avete ragione”. No, invece, perché io posso vedere il sole brillare solo di giorno ma ciò non significa che per me brilli solo in quel momento: esso non smette mai di brillare ma semplicemente lo fa da un’altra parte del mondo. Vi è quindi una spiegazione scientifica in grado di dimostrare ciò che è vero ed oggettivo. Il cieco non vede il sole brillare perché ha una percezione del mondo diversa, ma questo non significa che egli viva in un mondo concretamente diverso; quindi anche per lui ci devono essere delle certezze, magari anche dimostrate scientificamente, e queste portano al formarsi di pensieri comuni ed oggettivi.