Torneo di scacchi 2012-2013: seconda fase eliminatoria

Venerdì 11 gennaio 2013 comincia la seconda fase eliminatoria del torneo di scacchi.

incontri torneo di scacchi – 11 gennaio 2013
Girone A Girone B Girone C Girone D
Vitale – Lisanti Siniscalco – Nan Men Malcovati – Cappelli Comini – Tornabene E.
Prevedini – Sassi Vanin – Tornabene F. Rattenni – Rossiccone Villanucci – Cappellini

scacchiera

La vita: “un pendolo tra noia e dolore”

Schopenhauer
Schopenhauer

La vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia. Tutto soffre, persino l’amore è un’illusione. Il filosofo argomenta così: l’amore puro non esiste in quanto, in fondo, è espressione del nostro egoismo, del nostro tornaconto personale e strumento della Natura per perpetuare la vita. Noi nobilitiamo l’amore, lo idealizziamo, ma in realtà è l’espressione del “desiderio sessuale”. E il desiderio, nel momento in cui non è appagato, è mancanza che produce “dolore”. Una volta poi che viene appagato, si arriva alla noia e poi ad un nuovo desiderio, e così via.
Il filosofo non solo spoetizza l’amore, ma tralascia l’aspetto positivo del desiderio (che non esprime solo mancanza, ma anche la gioia dell’attesa) e del godimento. Vede solo ciò che è negativo.
La vita è dunque desiderio insaziabile, manifestazione di un’unica Volontà, senza causa né scopo, che è la radice noumenica, cioè il fondamento metafisico di ogni cosa.
Ma come liberarsi allora da questa “terribile” vita che ci si prospetta?
Egli in primo luogo condanna il suicidio: non è un buon rimedio al problema. La soppressione di un singolo individuo, oltre ad esser un estremo atto di volontà, non comporta alcun danno alla Volontà stessa, che continua ad esistere nel resto del mondo.
Vengono così proposte tre vie di “salvezza”.
L’arte, contemplazione disinteressata degli archetipi (non “questo amore”, ad esempio, è l’oggetto dell’arte, ma “l’amore”, il modello di amore), libera l’individuo dalla catena quotidiana dei desideri e dei bisogni.
La “pietà”, amore disinteressato verso il prossimo, nasce dal sentire come nostro il dolore altrui e ci libera dall’egoismo.
E, per ultima, l’ “ascesi”: la soppressione di ogni desiderio di vita.
Schopenhauer evidenzia quest’ultima come il punto di arrivo, il traguardo a cui bisogna giungere per essere davvero liberi dall’infinita catena di desideri, noia e dolore che fin qui ci ha perseguitati. Non mi convince per nulla!
Se noi siamo manifestazioni della Volontà, come potremmo sottrarci ad essa? Se è davvero parte di noi, come possiamo sopprimerla senza autodistruggerci? E infine, la nostra eventuale volontà di liberarci dalla Volontà, non sarebbe, comunque, un atto di volontà? Mi sembra una di quelle conclusioni campate per aria che ogni studente, almeno una volta nella sua carriera scolastica, ha scritto per finire in fretta il tema di italiano e consegnarlo prima al professore.

Bacone: un nuovo metodo per “interpretare” la natura

"Instauratio magna" di Bacone


Nel periodo che va da metà Cinquecento a metà Seicento, i filosofi cominciano a concentrare la loro attenzione sul metodo per conoscere la realtà. Fanno parte di questa “corrente” filosofi come Bacone (Sir Francis Bacon), Cartesio (René Descartes) e altri pensatori sia precedenti sia successivi.

Vorrei porre l’attenzione, però, su Bacone, che ha dato un grande contributo per formare il concetto moderno di scienza. In particolare la sua metodologia ha portato un grande apporto nel campo della botanica, zoologia, anatomia, embriologia ecc.; in seguito ad una paziente e graduale analisi dei fenomeni con l’aiuto di mezzi di classificazione di stile baconiano si è ottenuta un’importante serie di risultati scientifici.

La sua opera più celebre è il Novum Organum, chiamato così in contrapposizione all’Organon (“strumento”) di Aristotele: infatti, Bacone si distacca completamente dal metodo dei sillogismi aristotelico e ne propone uno completamente nuovo.

Il Novum Organum di Bacone si divide fondamentalmente in due parti:

• La pars destruens, in cui sono esposti gli errori da cui dobbiamo liberarci per delineare il metodo della ricerca della verità. Occorre purificare la nostra mentalità da una serie di errori che avevano causato sino ad allora lo scarso progresso delle scienze. Tali errori (o per meglio dire, i pregiudizi dell’uomo) sono definiti “idola” e si dividono in idola tribus (pregiudizi fondati sulla stessa natura umana, che tende a semplificare e a compiacersi di astrazioni), idola specus (pregiudizi derivanti dal singolo individuo condizionato dall’ambiente in cui si trova, dal temperamento, dall’educazione, dalle letture, dagli amici, ecc.), idola fori (pregiudizi che derivano dal contatto reciproco tra gli uomini, in particolare dal loro “commercio” di idee e pensieri) e idola theatri (pregiudizi derivanti dalle “false eredità” delle teorie filosofiche, ma anche di altre scienze, tramandate dalla tradizione). Una volta abbattuti questi muri, possiamo accostarci al “vero” metodo di conoscenza.

• La pars construens, in cui Bacone espone il suo metodo rigoroso di conoscenza della realtà. Secondo il pensatore inglese, se si vuole realmente “interpretare la natura” e coglierla nella sua struttura più profonda (quella che lui chiama la “forma” dei corpi), bisogna adottare un metodo induttivo rigoroso, quello che lui propone attraverso la teoria delle tabulae.

Ciò che, però, ha attirato la mia attenzione è il nuovo metodo di conoscenza proposto dal filosofo, la pars construens che lui espone. Vediamo di analizzarla nei dettagli.

La pars construens è presentata da Bacone nel secondo libro del Novum Organum. Per il pensatore inglese, se non ci si vuole accontentare di “anticipare la natura” con affrettate e sommarie induzioni, ma si vuole veramente “interpretare la natura” cogliendo la “forma” dei corpi, si deve seguire un metodo induttivo rigoroso, elencando i vari casi in cui la “forma” si presenta nelle tabulae.

Bacone individua tre tipi di “tavole”:

• Nella tavola della presenza (tabula praesentiae) si raccolgono tutti i casi positivi, cioè tutti i casi in cui il fenomeno si verifica (per esempio, Bacone prende in analisi il calore che viene prodotto dal sole, dal fuoco, dai fulmini, attraverso strofinamento, ecc.).

• Nella tavola dell’assenza (tabula absentiae in proximitate) si raccolgono tutti i casi in cui il fenomeno non ha luogo, mentre si sarebbe creduto di trovarlo (per esempio, sempre per quanto riguarda il caldo, i raggi della luna, la luce delle stelle, i fuochi fatui, ecc.).

• Infine, nella tavola dei gradi (tabula graduum) sono presenti i gradi in cui il fenomeno aumenta e diminuisce (ad esempio, le variazioni di calore in uno stesso corpo in relazione a vari ambienti o ad altre particolari condizioni).

Una volta compilate le tre tavole, l’intelletto deve procedere all’induzione vera e propria, cioè all’individuazione della “forma”. Tale processo deve avvenire per via di “esclusioni” e di “eliminazioni”: ossia si deve procedere allo scarto delle ipotesi false. Ad esempio, il calore non è soltanto un fenomeno celeste, perché anche i fuochi terrestri sono caldi; né solo un fenomeno terrestre, visto che il sole è caldo; dipende da un particolare elemento, l’antico elemento chiamato “fuoco”? No, poiché qualsiasi corpo può essere riscaldato per sfregamento, ecc. Per via di eliminazioni sarà così possibile tentare una prima interpretazione positiva, detta vindemiatio prima. Tale interpretazione dovrà essere ulteriormente sottoposta a esperimenti di vario genere, fino all’esperimento “cruciale” (experimentum crucis), che dovrebbe permettere di accettare in modo definitivo l’ipotesi o di rifiutarla.

In prima analisi il metodo baconiano sembrerebbe valido, anche se un po’ troppo rigido per quanto riguarda la sua schematizzazione e la sua lentezza nel compiersi. Allora perché nel corso dei secoli il suo metodo è stato a poco a poco dimenticato, mentre il metodo galileiano oggi è ancora alla base dell’analisi scientifica? Quali sono i suoi limiti?

Sebbene presenti molti elementi in comune con il metodo scientifico moderno, la procedura di Bacone manca di un elemento fondamentale: la matematica; ovvero lo strumento rigoroso di un’analisi quantitativa delle esperienze scientifiche di cui, di lì a poco, Galilei comprenderà l’importanza fondamentale. Inoltre, Bacone sostiene, a differenza di Galilei, di voler conoscere lo schematismus latens ed il dinamismus latens della realtà, cioè la struttura nascosta e l’elemento dinamico latente delle cose: in qualche modo, dunque, si può dire che Bacone sia ancora alla ricerca dell’essenza, cosa che lo differenzia moltissimo dalla concezione scientifica moderna.

Infatti nei suoi scritti notiamo che Bacone arriva addirittura a compiere delle affermazioni che oggi risulterebbero alquanto inverosimili: per esempio, sosteneva che l’oro è composto da una serie di nature semplici (quali il colore, il peso specifico, la duttilità, la malleabilità, ecc.); con la conoscenza di queste nature semplici, è possibile “rivestire” (superinducere) di nature nuove un corpo dato; ad esempio, si può produrre un metallo con le caratteristiche dell’oro, o una pietra trasparente, o un vetro molto resistente, ecc. Tali affermazioni, secondo me, mostrano come Bacone abbia qualche legame con la tradizione magico-ermetica, anche se Bacone rifiuta ufficialmente la magia. Allora sembra quasi naturale che un soggetto del genere, col passare degli anni sia stato abbandonato nell’oblio, non credete anche voi?

George Washington: il più grande presidente degli Stati Uniti

Geoge Washington

Se una persona si presentasse davanti a uno statunitense e gli chiedesse chi sia stato il più grande presidente degli Stati Uniti, risponderebbe immediatamente George Washington. Eppure coloro che lo conobbero rimasero delusi nel parlare con lui: infatti non era né brillante né intellettuale (Thomas Jefferson afferma che i suoi talenti erano mediocri e che non aveva grandi idee), in compenso era un accorto uomo d’affari (traeva molto profitto dalla sua piantagione a Mount Vernon).

Allora cosa ha reso quest’uomo così famoso in tutto il mondo?

Di certo le sua doti di uomo d’affari non furono le ragioni che lo resero famoso. In un primo momento uno potrebbe pensare che il motivo della sua fama siano le sue qualità in battaglia, ma analizzando a fondo i suoi combattimenti notiamo che non fu un grande condottiero come Alessandro Magno o Cesare, né i suoi successi militari si avvicinarono alla magnificenza di quelli napoleonici. Il genio di Washington va piuttosto ricercato nel suo temperamento, nella sua personalità: infatti fu il suo carattere di gentiluomo di campagna a farlo eccellere sugli altri; tale virtù, però, dovette coltivarla nel corso degli anni e questo fu ammirato da tutti i suoi contemporanei.

Fu in ambito politico, però, che Washington compì il suo gesto più eclatante. Il gesto che lo rese famoso fu dare le dimissioni da comandante in capo delle forze americane: dopo la firma del Trattato di pace di Versailles con la Gran Bretagna nel 1783, Washington sbalordì il mondo quando, il 23 dicembre dello stesso anno, consegnò la spada al Congresso e si ritirò nella sua fattoria a Mount Vernon. Fu un atto fortemente simbolico che segnò per sempre il suo destino. Avrebbe potuto diventare re o dittatore come ricompensa per il suo valore militare, ma decise di esprimere il desiderio di tutti i componenti della nuova nazione: tornare alle rispettive occupazioni in un “paese ormai libero, pacifico e felice”; la sua sincerità fu apprezzata da tutti.

Washington comprese che il gesto che aveva compiuto gli avrebbe fatto acquisire una fama istantanea. Una volta guadagnato questo lustro per i suoi valori morali, fu attento a non scialacquare gli onori ricevuti: trascorse il resto della sua vita cercando di proteggere la propria immagine pubblica in un modo che ai giorni nostri risulterebbe imbarazzante, ossessivo ed egoistico. Ma i suoi contemporanei capirono le sua ragioni: in quei tempi era normale che i gentiluomini usassero ogni mezzo per mantenere intatto l’”onore”, ossia la stima dei propri pari. Solo alla luce di questo valore si possono comprendere molte azioni di Washington dopo le sua dimissioni.

Nel 1787 fu convinto a recarsi a Filadelfia per partecipare alla stesura della Costituzione. Dopo l’approvazione del testo costituzionale, egli pensò di poter tornare alla vita tranquilla della sua piantagione a Mount Vernon, ma i suoi concittadini si aspettavano che diventasse il presidente del nuovo governo nazionale. Fu così eletto presidente nel 1789 e dimostrò di rimaner fedele ai suoi ideali: affermava infatti di pensare costantemente alle generazioni future, ai “milioni che non sono ancora nati”. Gettò le basi dell’autonomia presidenziale e rese il capo dello Stato la figura dominante del governo. Fin dal 1792 era intenzionato a ritirarsi per sempre a vita privata, ma i suoi consiglieri lo convinsero a rimanere per un secondo mandato. Nel 1796, però, Washington era così determinato a ritirarsi che nessuno riuscì a dissuaderlo.

Dopo la sua carica, la mentalità americana, per quanto riguarda le elezioni presidenziali, cambiò: infatti se i membri dei vari partiti (come quello repubblicano di Jefferson) presentassero come candidato “un manico di scopa” e lo chiamassero “figlio della patria” o qualsiasi altra denominazione per soddisfare le esigenze degli elettori, riceverebbero comunque “i loro voti in toto”. Ormai la gente votava per il partito, indipendentemente dal candidato. Nella nuova era dei partiti non importavano più l’influenza personale e il carattere. È per questo che il personaggio di George Washington conserva il suo valore di eroe intramontabile.

San Tommaso d’Aquino: il grande innovatore

San Tommaso d'Aquino

Nell’arco dell’intera storia della filosofia, il frate domenicano Tommaso d’Aquino è stato di sicuro una delle personalità più influenti e, ancor oggi, conta un numero straordinario di “seguaci” della sua dottrina. Con tale pensatore la fiducia nella possibilità di conciliare fede e ragione, in nome di una concezione rigorosamente unitaria del sapere, raggiunge l’apice. Pochi anni dopo la sua morte le “nozze” fra filosofia e teologia entreranno in crisi.

Come mai questo pensatore ha avuto un così grande rilievo nella storia?

In primo luogo bisogna rilevare che la sua filosofia è importantissima per dottrina cattolica, ed avendo la religione cattolica quasi un miliardo e duecento milioni di credenti, appare quasi naturale che questo filosofo sia ancor adesso tra i più letti e commentati nel mondo.

Possiamo riassumere la sua grande novità rispetto al pensiero precedente in tre punti essenziali:

  1. Cambiamento importante nel pensiero religioso, in particolare per quanto riguarda la natura umana e ciò che l’uomo può dire della natura divina: fino ad allora i pensatori cristiani (compreso Agostino)
    • privilegiavano la “teologia negativa”: l’uomo non può affermare nulla intorno a Dio, perché, essendo l’essere stesso, è sostanzialmente qualcosa di indefinibile
    • svalutano il corpo che, legato alla terra, svia l’uomo dai suoi obiettivi ultraterreni
    • ritengono non vi sia alcuna somiglianza tra noi e Dio: egli è l’essere divino irraggiungibile e noi inutili creature terrene.

    Per Tommaso, al contrario,

    • ciò che noi possiamo dire di Dio non è del tutto sbagliato: di certo non potrà mai arrivare a determinare la sua grandezza, ma serve comunque ad esaltarla
    • il corpo deve essere rivaluto perché anch’esso è opera di Dio e ha un ruolo positivo nella vita umana
    • vi è una similitudine tra l’essere umano e Dio: infatti tutti gli esseri da lui creati traggono dal divino la loro essenza e l’uomo è tra quelli che ne trae di più perché è l’unico essere che ha in sé sia l’elemento spirituale (l’anima) sia l’elemento terreno (il corpo).
  2. Il rapporto tra fede e ragione, che è uno dei temi più importanti sviluppati nella sua filosofia: egli riprende il concetto agostiniano (“credo ut intelligam, intelligo ut credam”) e lo conferma, affermando anch’egli che fede e ragione devono trovare un accordo e collaborare, che filosofia e teologia sono scienze che vanno usate entrambe per raggiungere la verità. Per dare credito alla sua idea che fede e ragione possono collaborare, Tommaso compie una dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, rivelando così che il “credo quia absurdum” di Tertulliano è sbagliato come del resto tutte le correnti fideiste (di cui fa parte anche Guglielmo di Occam), le quali affermavano che nessuno degli attributi divini poteva essere oggetto di dimostrazione, altrimenti Dio non avrebbe compiuto il gesto inutile di rivelare all’uomo ciò che poteva scoprire con le sue sole forze.
  3. La sua teoria della conoscenza: Tommaso a riguardo espone una teoria realista, ossia l’uomo è in grado di conoscere la realtà che lo circonda; tale posizione è contrastata da filosofi come Guglielmo di Occam (il quale era un frate francescano; in quel periodo domenicani e francescani erano ordini religiosi avversi tra loro e, anche in ambito filosofico, avevano sempre posizioni contrastanti): questi filosofi sposavano una posizione nominalista, cioè l’uomo non ha alcuna possibilità di comprendere la realtà.

Dopo questo breve sunto, cerchiamo di analizzare più a fondo i tre elementi della dottrina di Tommaso.

Come citato sopra, fino a quel momento i filosofi cristiani prediligevano la “teologia negativa”, in altre parole, per quanto riguarda il nostro modo di predicare qualcosa di Dio, l’uomo è in grado solamente di dire cosa Dio non è (ad esempio: Dio non è cattivo, Dio non è ingannevole, Dio non è malvagio, ecc.), ma se volesse dire cosa Dio sia, non potrebbe perché la sua natura ineffabile fa sì che nulla di ciò che si professi di lui serva in qualche modo a comprendere il suo essere, il linguaggio umano non può far nulla per descriverlo. San Tommaso, invece, sebbene non si distacchi totalmente da tale tradizione, ritiene che ciò che noi diciamo di positivo sul suo conto (esempio: Dio è glorioso, onnipotente, onnisciente, ecc.), anche se non riesce comunque a estrapolare la sua essenza, serve comunque a valorizzare la sua magnificenza e a cogliere parte del suo essere. Per quanto riguarda invece la natura umana, secondo la “teologia negativa” l’uomo, fatto di anima e corpo, deve “disprezzare” la sua parte corporea che, essendo legata al mondo terreno, lo distoglie dai suoi obiettivi più importanti, ovvero il raggiungere la felicità nella vita ultraterrena. Tommaso al contrario rivaluta il corpo: dopotutto Dio ha creato l’uomo come unione di anima e corpo, ponendolo, di fatto, al confine tra il mondo delle sostanze spirituali (perché possiede l’anima) e il mondo terreno (perché possiede il corpo); il corpo, essendo in stretto legame con l’anima, ha anch’esso una funzione rilevante nel conseguimento della felicità terrena, che contribuisce così anche alla felicità ultraterrena, l’unica davvero importante per il vero cristiano. Il fatto che l’uomo sia un essere a metà strada tra le sostanze spirituali e il mondo terreno è inoltre un segno evidente della nostra somiglianza col divino.

Altra questione è la teoria della conoscenza secondo Tommaso. Nella storia della filosofia la gnoseologia (ossia “teoria della conoscenza”) è da sempre uno degli ambiti più trattati, la quale in particolare nel mondo medievale si divideva in due posizioni contrastanti: la posizione realista, secondo cui l’intelletto è in grado di conoscere la realtà, e la posizione nominalista (cui appartiene Guglielmo di Occam e uno dei più grandi scrittori contemporanei, Umberto Eco, che mostra la sua concezione nella sua opera “Il nome della rosa”: “nomina nuda tenemus”), secondo cui l’intelletto umano non riesce ad avere una conoscenza del reale e i nomi che noi diamo alle cose sono semplici etichette che noi poniamo agli oggetti che sembrano avere una vaga somiglianza. Tornando a Tommaso, la sua teoria della conoscenza viene esposta nel seguente modo: l’anima intellettiva umana non è in grado di apprendere direttamente gli intellegibili, ma può conoscere le forme delle cose solo nella loro unione con i corpi, in altre parole soltanto grazie all’esperienza sensibile. L’anima (fatta di facoltà attiva e passiva) considera le forme sensibili nel loro aspetto universale, ossia la facoltà attiva astrae gli elementi comuni (gli universali) e li imprime nella facoltà passiva, che conserva tutti gli universali raccolti.

Il rapporto tra fede e ragione è una questione piuttosto ampia che affonda le sue radici all’origine delle prime comunità cristiane e che è diventato col passare degli anni un problema sempre più importante dato che il cristianesimo si era ormai affermato come religione europea. Tale problema parte alle origini del cristianesimo con Tertulliano che condanna in modo categorico la ragione e la filosofia (“credo quia absurdum”); poi prosegue con Sant’Agostino, secondo il quale la fede è fondamento della ricerca razionale e la filosofia chiarisce i contenuti di fede, predisponendo l’uomo ad accoglierli (“credo ut intelligam, intelligo ut credam”); in seguito vi è Anselmo d’Aosta, il quale, non distaccandosi totalmente dalla posizione agostiniana, afferma che, anche se la fede ha un primato sulla ragione, quest’ultima chiarisce ciò che si possiede già con la fede (“credo ut intelligam”). Ed ecco che arriva Tommaso d’Aquino, che sotto molti aspetti rivela di avere punti in comune con Agostino: secondo la sua concezione unitaria del sapere, è impossibile che due scienze come filosofia e teologia siano separate, anche se la filosofia può creare contrasti con le verità di fede; dato che comunque la priorità va data alla rivelazione divina, in quei casi bisogna sottostare ai risultati raggiunti dal teologo. Entrambe le scienze tendono a un’unica verità, ma diverso è il modo di conoscerla: pur utilizzando entrambe il medesimo metodo di ricerca (tratto dalla logica aristotelica), partono però da premesse differenti, che in ambito teologico derivano dalla fede, mentre in ambito filosofico sono evidenti. Come conciliare dunque due scienze così diverse, una legata alla fede, l’altra alla ragione? Semplicemente la teologia ha il compito di fornire un sommo sapere speculativo e pratico, mentre la filosofia ha lo scopo di intendere sempre meglio i contenuti della rivelazione, di dimostrare che alcuni dogmi che la ragione umana è in gradi di indagare e capire (come l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima) non siano contraddittori, di combattere le posizioni contrarie alla fede. Le due scienze non sono in contrasto, ma al contrario sono complementari.

Al giorno d’oggi, in cui l’uomo è ormai approdato a una visione laica della vita, completamente distaccata dalla religione e dal sapere teologico, come si può conciliare la filosofia di un pensatore cristiano medievale, che ritiene che filosofia e teologia siano semplicemente due facce di una stessa moneta?

Secondo me, bisognerebbe partire dal presupposto del perché esista la religione e perché, fin dall’antichità, l’uomo ha avuto bisogno di credere in uno o più enti soprannaturali. Una reale spiegazione credo che sia impossibile trovarla, ma per me è possibile dimostrare l’esigenza per l’uomo di una religione. Prendiamo in esame due casi: al giorno d’oggi se andiamo in mezzo alle tribù eschimesi, possiamo notare che essi possiedono una loro religione seppur animista, lo stesso vale se andiamo in mezzo alle tribù amazzoniche o a qualsiasi altra popolazione tribale o civilizzata; tutti possiedono una religione e questo è un primo elemento per dimostrare il bisogno religioso dell’uomo. La seconda via riguarda l’analisi storica: se prendiamo in considerazione i nostri antenati, come l’homo sapiens di Neanderthal, o le prime tribù nomadi preistoriche, possedevano anche loro una religione. Quindi appare quasi evidente che l’essere umano, unico dotato di ratio, abbia bisogno di credere in uno o più enti sovrumani.

Dunque perché ci meravigliamo che nel corso della storia parte fondamentale della filosofia sia stata dedicata alla religione? Del resto Tommaso non ha fatto altro che incarnare in modo straordinario la mentalità della sua epoca.

Questa breve precisazione, forse un po’ fuori luogo, aveva semplicemente lo scopo di convincere il lettore che, anche se viviamo ormai in una società che si ritrova quasi al rifiuto della religione, è altrettanto vero che la società occidentale affonda le sue tradizioni nel credo cristiano e involontariamente ne siamo ancora molto influenzati. Quindi è inutile cercare di fuggire dal “mos maiorum”, ma dovremmo piuttosto cercare di conciliare tradizione e innovazione, che è ciò che la Chiesa in questi anni sta cercando di compiere.

Dopotutto è quello che ha fatto Tommaso ai suoi tempi, ha conciliato la tradizione della rivelazione divina con gli scritti aristotelici che in quel periodo, grazie alla formazione delle università e ad illustri personalità come Guglielmo di Moerbeke, si stavano diffondendo con una rapidità impressionante, tanto da essere stati più volte oggetto di censura da parte della Chiesa.

Ritorniamo al commento del pensiero di Tommaso. Secondo me, riguardo al superamento della “teologia negativa” vi è poco da condividere ai giorni nostri, perché, trattandosi di ciò che si professa di Dio e della natura umana sotto l’aspetto religioso, riguarda comunque qualcosa di strettamente teologico, non riguardante la società laica moderna; tale problema tuttavia interessa l’ambito della Chiesa che ha confermato la posizione di Tommaso riguardo a quel problema teologico.

Più interessante risulta invece l’ambito gnoseologico che nel corso della storia è stato trattato dalla maggior parte dei filosofi, fino ad arrivare, come già detto prima, ai giorni nostri con Umberto Eco, fautore della posizione nominalista. A mio parere, la posizione realista, di cui fa parte Tommaso, è quella più “giusta” da sposare, perché dà grande rilievo al ruolo della ragione umana. Io ritengo infatti che, se per assurdo non avessimo realmente la possibilità di conoscere la realtà, l’uomo non avrebbe in sé la sua insaziabile sete di sapere e il progresso a cui siamo pervenuti nei giorni nostri non avrebbe mai potuto realizzarsi; del resto se i nominalisti come Occam avessero ragione, periodi storici come il Rinascimento, in cui l’uomo rivaluta la sua ragione, pensa, desidera una conoscenza approfondita della realtà, non sarebbero mai potuti esistere.

Altro ambito è il rapporto fede-ragione. Anche quest’altro nodo fondamentale della dottrina di Tommaso è difficile da ricondurre ai giorni nostri per via della sua natura teologica, ma trattando anche di ragione è più facilmente interpretabile. Se fossi un credente ferreo, sarei completamente d’accordo con Tommaso perché se esiste un modo per cui fede e ragione possano collaborare e per cui le verità di fede possano essere dimostrate, ne andrei subito in cerca. Ma essendo un soggetto critico verso la religione, non credo di poter essere d’accordo con Tommaso, perché secondo me la teologia parte da presupposti non condivisibili da tutti, ma solo dai credenti. All’interno delle visioni cristiane di sicuro Tommaso ha una posizione migliore rispetto al fideismo, ma risulta comunque difficile da conciliare con la visione moderna del mondo.

In tale discorso rientrano le sue famose prove dell’esistenza di Dio, che, devo ammettere, adducono forti argomentazioni a sostegno della tesi, ma si poggiano comunque su premesse non del tutto concrete.

Io ammetto che l’uomo abbia bisogno di credere nel divino, ma è davvero possibile dimostrare l’esistenza di Dio con le sole risorse del mondo sensibile? Lascio la questione aperta, poiché neanche io ho una soluzione a riguardo.

Il flagello della peste nera

Il basso Medioevo si chiuse con una catastrofe: la peste nera. A causa della violenza di questa malattia e alla rapidità di contagio, l’inefficacia delle cure, causò  la morte di numerose persone in tutta Europa. In Europa la peste nera si manifestò tra il 1348 e il 1352 e in soli quattro anni uccise tra i 20 e i 25 milioni di persone. Alcune importanti città come Venezia, Parigi e Londra persero numerosi cittadini. La peste colpì tutti: bambini, anziani, adulti..

Non essendo riusciti ad individuare né i portatori, né tanto meno la causa, i medici diedero una loro teoria a riguardo. Questa teoria era chiamata “aerea”, essi infatti credevano che l’aria fosse corrotta a causa di una cattiva congiunzione dei pianeti. Difatti i medici consigliavano di fuggire verso regioni più salubri, chiudersi in casa.. L’unica misura efficace contro il contagio da questa malattia era quella di distruggere con il fuoco tutto ciò che era venuto a contatto con il morto. Il credo era invece convinto che tutto ciò si trattasse di un Castigo voluto da Dio, e perciò contribuì al contagio, organizzando processioni, in cui le folle di fedeli si infettavano.

La peste rappresentò quindi un vero e proprio spartiacque, tra la vita “vecchia” e la vita “nuova”, poiché subito dopo provocò una forte crisi demografica e rese ancora più morboso l’atteggiamento degli umani nei confronti della morte. Il mondo che rinacque dopo la peste era dunque diverso: travolto dalla superstizione, oscurato dalla conoscenza della brevità della vita, pessimista e crudele, attaccato al potere e al denaro.

Uno dei maggiori autori italiani, Giovanni Boccaccio, inquadrò il Decameron, una delle sue opere più famose, nella cornice della peste.

“Gli stracci di un poveruomo appena morto erano talmente poco appetibili che furono gettati per strada e due maiali ci ficcarono subito dentro il grugno, com’è loro abitudine. Poi li afferrarono con i denti e se li strofinarono sul muso. Meno di un’ora dopo cominciarono a barcollare come se avessero preso un veleno, poi tutti e due crollarono morti sugli stracci in cui, per loro sfortuna, si erano imbattuti.”

Questa frase, tratta dal Decameron, dimostra quanto l’idea di contagio fosse stata immediatamente percepita fuori dagli ambienti medici.

Il metodo socratico nella scuola di oggi

Il metodo socratico, la maieutica, non vuole trasmettere nozioni, ciò che conta è la ricerca, tramite il dialogo, non della verità assoluta e superiore ma di una verità che raggiunta potrà e dovrà essere rimessa in discussione. Il maestro allora è realmente sullo stesso piano dei discepoli, non è un modello che si abbassa al loro livello: questo non occorre poiché è il dialogo stesso che li rende eguali: nessuno è depositario di verità, tanto meno Socrate che va sempre ricercando e investigando. Dialogando inoltre si realizza un comportamento concretamente virtuoso perché il confronto con l’altro implica il rispetto, l’ascolto serio, vero e interessato delle ragioni dell’interlocutore a cui si dà spazio con la tecnica delle brevi domande e risposte.
Il dialogo è quindi la condizione che permette il riconoscimento della verità e la realizzazione di un comportamento autentico e virtuoso.
Similmente, la scuola di oggi, non dovrebbe limitarsi a insegnare dei concetti ma sollecitare l’alunno a un autonomo sviluppo delle proprie capacità.
Secondo me si dovrebbe cominciare a formare le persone da un punto di vista umano e discutere su argomenti che possono offrire nuovi spunti di riflessione. Se un insegnante si impegnasse ad applicare la maieutica con gli studenti, potrebbe ridare vita a una scuola ormai in crisi. Infatti i giovani non hanno più alcuno stimolo quando vanno a scuola, l’unico intento che li spinge a continuare gli studi, è ricevere il diploma, fondamentale per trovare un lavoro. in questo modo però la scuola si sta trasformando da un mezzo per crescere interiormente e culturalmente, a un luogo dove bisogna obbligatoriamente andare per un tot di anni per prendere il pezzo di carta e lavorare.

La caduta di Costantinopoli e la rinascita

Nel luglio del 1452, il sultano ottomano, Maometto II dichiarò guerra a quel poco che rimaneva dell’ impero bizantino. Dalla sua base ad Adrianopoli cinquantamila soldati si mobilitarono verso Costantinopoli per studiare le difese dei bizantini.
Le difese dei cristiani infatti non erano cosa da poco. La grande capitale era munita da tre ordini di mura con altrettanti fossati per bloccare l’avanzata delle armate di terra. Invece per difendersi da forze marine, i bizantini avevano un originalissimo meccanismo sulle due sponde che, dopo essere stato azionato, alzavano da sott’acqua un’ enorme catena che si posizionava appena sopra il pelo dell’ acqua in modo da bloccare il traffico navale. Inoltre avevano anche una speciale arma: il fuoco greco. Era composto da una miscela di pece, salnitro, zolfo, nafta e calce altamente infiammabile che veniva lanciata sulle navi nemiche per incenerirle. Tuttavia, il sultano non si scoraggiò davanti ad una simile preparazione, e grazie ad un’ungherese specialista nella fusione dei cannoni, ottenne, nel gennaio del 1453, un’enorme bombarda in grado di abbattere le inespugnabili mura bizantine.

L'ingresso di Maometto II a Costantinopoli
L’ingresso di Maometto II a Costantinopoli

Ad aprile gli ottomani iniziarono l’assalto finale contro Costantinopoli. Le forze turche arrivavano a centocinquanta navi da guerra e millecinquecento uomini tra fanti e cavalieri, compresi diecimila Giannizzeri (i Giannizzeri erano le forze d’élite dell’esercito ottomano, in genere, oltre a combattere in guerra, seguivano il sultano ovunque, fungendo anche come guardie del corpo). Invece le forze cristiane arrivavano solo quaranta navi e a dieci/cinquemila unità di terra affiancate da qualche centinaio di Veneziani e Genovesi.
Mentre le mura si sgretolavano sotto i colpi dell’artiglieria turca, Maometto II trovò il modo di aggirare la catena che bloccava la sua flotta. Ordinò ai suoi uomini di far costruire sulla terraferma tra il Bosforo ed il Corno d’oro un passaggio sul quale far passare le navi per mezzo di fusti di legno ingrassati per poi dopo fare ritornare in acqua, ed in questo modo riuscì a far passare settantadue biremi.
Dopo il crollo delle mura iniziò lo scontro. I turchi si fronteggiarono contro i bizantini davanti alla porta di San Romano, dove il comandante Giustiniani fu ferito, causando sbandamento tra le truppe. Inoltre lo stesso imperatore Costantino XII, intento nello spiegare le insegne imperiali, fu sopraffatto e ucciso. Dopo che le forze bizantine furono letteralmente massacrate, iniziò l’ inferno per i cristiani: per tre giorni e per tre notti i turchi saccheggiarono quella che un tempo era la capitale dell’impero più potente, ricco e maestoso d’oriente. Non mancarono di certo stupri, omicidi, spoliazioni di chiese e di palazzi. I morti tra i civili furono almeno quattromila e i prigionieri furono venticinquemila, molti dei quali vennero poi venduti come schiavi.
La notizia della caduta di Costantinopoli si diffuse velocemente in tutto il mondo creando terrore e sgomento tra gli stati europei.

Ma gli ottomani non furono così brutali e assetati di sangue così come vennero descritti dai loro nemici.
Infatti in pochissimo tempo l’impero turco divenne l’impero più avanzato in ogni campo: nella tecnologia (sia per scopi militari che scientifici), nelle arti, nella scienza, nella cultura, nell’ economia.
Dopo la conquista degli ultimi territori bizantini, gli ottomani, desiderosi di porre come nuova capitale del loro impero Costantinopoli (diventata Istanbul), iniziarono subito a ricostruire la città. Negli anni successivi, il sultano cercò di mantenere il più possibile intatti gli edifici bizantini, pur continuando a influenzare la città con lo stile ottomano. La città nel giro di pochi decenni rinacque: la popolazione crebbe da quattromila a centomila abitanti, tra musulmani, cristiani ed ebrei. La gente si trasferiva in questa città venendo sia da est che da ovest, attratta da una capitale al centro dei commerci nota come il crocevia del mondo, all’interno di un impero che era tollerante delle diversità religiose e culturali non solo per tradizione, ma addirittura per legge.

Cosa possiamo imparare di buono dai Sofisti

Il movimento sofistico è un movimento filosofico diffusosi nel V secolo a.C. nell’antica Grecia, specialmente ad Atene. Il termine Sofista ha acquisito rapidamente un significato negativo. Come mai?
Ci sono giunte più descrizioni negative che positive dei sofisti:
pochissime opere di sofisti si sono salvate e quindi per conoscerli bisogna affidarsi alle descrizioni dei loro avversari, le quali non possono essere altro che negative.
Una critica rivolta ai sofisti riguardava il modo in cui svolgevano il loro compito. I sofisti infatti diffondevano il loro sapere solo a pagamento e ciò per la mentalità tradizionale era meschino ed ignobile.
Eppure la Sofistica ebbe ugualmente grande successo soprattutto ad Atene.
Infatti i sofisti insegnavano a usare le parole per catturare gli animi della folla e persuaderla e in una città democratica come Atene, a un candidato, per salire al potere, serviva saper usare le parole al fine di formare discorsi persuasivi per convincere i cittadini a votarlo.
I sofisti erano riusciti a trasformare l’arte della parola in una scienza insegnabile come tutte le altre e inoltre essi conoscevano la psicologia umana e quindi sapevano come suscitare le stesse emozioni in persone diverse.
Personalmente mi hanno colpito due cose sui sofisti: la prima è la loro capacità di persuadere la gente con le parole e insegnare agli altri queste abilità; la seconda è l’idea che chiunque sia in grado di imparare i loro insegnamenti.
Da queste caratteristiche possiamo capire che la parola è una gran dominatrice che sa compiere cose divine. La parola sa stroncare la paura, sa rimuovere la sofferenza, sa diffondere gioia, sa intensificare la commozione e sa smuovere gli animi delle persone.
Non è per caso che negli stati dittatoriali la libertà di parola è la prima cosa ad essere abolita; infatti quei sovrani che hanno usato la forza della parola per persuadere gli uomini hanno paura che questa venga usata contro di loro da qualcun altro e quindi di cadere dal loro trono.
Per i Sofisti, il sapere non è solo per pochi privilegiati, tutti sono in grado di accedervi.
I sofisti ci aiutano a comprendere che noi siamo in grado di raggiungere qualsiasi obbiettivo.
Attraverso questa stessa convinzione, si può giungere ad avere l’opinione per la quale tutti hanno diritto a una seconda possibilità. Come ogni uomo è in grado di accedere al sapere così ogni uomo colpevole di un reato è in grado di capire dove ha sbagliato e quindi compiere un cambiamento interiore.

Gorgia

La parola è una gran dominatrice che anche col più piccolo e invisibile corpo, cose profondamente divine sa compiere” questo diceva Gorgia, filosofo greco antico, sostenendo che la parola era uno dei principali mezzi di persuasione. Essa per Gorgia era paragonabile  a un “narcotico” che addormentava la ragione costringendo chi la ascoltava a piegarsi al suo volere,alla parola veniva conferito, quindi, un grande potere:quello di ingannare l’anima grazie alla magia dei suoi discorsi. La parola infatti, per questo filosofo non ha il potere di indicare come stanno realmente le cose ed ecco allora che essa diviene disponibile per altri scopi che vanno dalla già citata persuasione, al tentativo di stimolare emozioni, al manipolare l’ opinione pubblica. I poeti sono i principali fruitori della potenzialità emotiva della parola. La poesia,attraverso i versi poetici è in grado di evocare tutte le emozioni nelle diverse sfumature. Ormai la poesia è diventata un interesse di nicchia mentre, oggi ,per la stragrande maggioranza delle persone la poesia si esprime attraverso i versi delle canzoni dei propri cantanti preferiti. Mentre la capacità persuasiva della parola che può essere spinta sino alla manipolazione delle opinioni altrui, oggi, come  nei secoli passati, è utilizzata sia dai politici sia a chi ambisce a conquistare posizioni di potere. Molto spesso, infatti, con le giuste parole si riesce a persuadere, sedurre e stregare la ragione altrui con le proprie idee (giuste o sbagliate che siano) e spesso anche a far cambiare opinione oltre che ad acquisire consenso. Io sono del parere che la parola ha un grande potere ma se le parole poi non si traducono in fatti, esse possono risultare come un “boomerang” per chi le ha spese. Dietro a qualunque grande oratore ci deve essere sempre, in primo luogo, una grande personalità e una grande credibilità. Ma la grande verità di fondo è che, a volte, un’azione vale più di mille  parole. Un gesto, uno sguardo, un’azione, sostituiscono mille discussioni inutili, o, semplicemente, aiutano a esprimere meglio il proprio concetto. Quante  volte , infatti,  sarà capitato di essere fraintesi o esprimere attraverso le parole il contrario di ciò che pensiamo realmente quando attraverso un singolo gesto si potrebbe evitare tutto ciò. Ecco, allora, che il potere della parola specialmente la parte che riguarda l’espressione dei sentimenti viene più efficacemente sostituita da un abbraccio,un pugno,una risata,un bacio o, più in generale, da gesti meccanici che esprimono appieno l’emozione che si prova in quel singolo momento.