Gita a Paris – Capitolo primo

Luca Cirio

La settimana scorsa siamo stati a Paris e ho deciso di narrarvi una storia che prende ispirazione da questo viaggio…racconterò tutto in terza persona…ogni riferimento a persone, fatti e cose è puramente voluto.
Domenica 19 febbraio 2006, ore 23.00: L’Oltreuomo (che poi sarei io, a detta del prof paganini) scende dalla macchina per arrivare al ritrovo alla stazione centrale per la partenza. Non piove da più o meno un paio di secoli e questa maledetta sera i simpatici angioletti infami hanno deciso di rovesciargli addosso tutta l’urina che avevano conservato nelle loro vesciche…imperterrito, il nostro eroe avanza con una borsa su una spalla e la sua fedelissima chitarra scrausa da quattro soldi sull’altra imprecando contro ogni dio presente sul monte olimpo per la pioggia scrosciante che infradicia il suo giubbotto e, come se non bastasse, gli bagna gli occhiali conferendogli un aspetto più demente di quanto non lo sia di solito. Sconsolato, scorge in lontananza una moltitudine di disperati ragazzi in attesa…ebbene sì, sono i suoi compagni di viaggio. Il tempo di chiacchierare un pò e poi via, sul treno. La massa di giovanotti sale mentre un gruppetto di sei ragazzi, composto dall’Oltreuomo, Sbarbatelli, il Conte, il Biondino, il Meridionale e il Poeta viene mandato in esilio in un vagone dimenticato dal mondo. Questi ragazzi ignorano di essere lì lì per passare la notte più lunga della loro vita. Una volta trovata una scomoda sistemazione nel loro scompartimento, i sei ragazzi cercano inutilmente varie attività per passare il tempo, tra cui il gioco del gessetto, guardie e ladri, la tombola e rubamazzetto: niente da fare. L’unica cosa che riesce a suscitare la loro ilarità è una foto fatta a Sbarbatelli in cui si nota inequivocabilmente l’eccessivo spazio volumetrico occupato dal suo naso?il poveretto non sa che a causa di questo sarà oggetto di scherno per i restanti quattro giorni. L’Oltreuomo tira allora fuori la sua chitarrina in cerca di conforto musicale nei suoi idoli Hendrix e Dylan, ma viene costretto dai 5 amici a cantare tutto l’ultimo album di Mino Reitano, ghost track compresa. Intanto il tempo passa e le palpebre dei cinque amici si chiudono lentamente?una volta riusciti a incastrarsi per cercare invano la comodità in uno scompartimento di 2 metri quadri (devono averlo inventato così il tetris in russia?), il sonno prende il sopravvento.
Fine prima puntata!!!!!!!

LACRIME DI COCCODRILLO

Il nuovo numero della “CURIERA” fa nascere in me istinti censori, ma resisto: anche se in questo caso il costo del “protagonismo degli studenti” è veramente spropositato.
Mi soffermo soltanto sui due immancabili articoli sull’autogestione: il primo, meno insolito, versa le solite lacrime di coccodrillo per il comportamento dei compagni.
E mi fa arrabbiare, perché tutti gli anni predico nel deserto: perché bisogna svilire l’importanza di un diritto di partecipazione usandolo male? Perché, se il massimo dei giorni consecutivi è quattro, bisogna per forza farli tutti, per di più improvvisando, senza contenuti, senza programma e senza risultati?
Il secondo articolo sull’autogestione, invece, garrulo e felice, traccia un quadro inquietante del “gruppo sesso”: non certo perché si siano fatte grandi scoperte (del resto ormai impossibili, dopo migliaia di anni di infaticabile esercizio a tutte le latitudini) ma per la volgarità e l’indelicatezza dell’approccio. Non sono certo l’unico a pensarla così.
E non sono nemmeno l’unico a pensare che le ore di scuola non possano essere legittimamente impiegate in attività tanto povere di contenuti quanto ricche di provocazioni gratuite, di tentativi di intrusione indelicata nella sfera privata delle persone, che non sono certo tenute a dichiarare in pubblico se sono vergini o no, su sollecitazione di “capigruppo” che dimenticano un vecchio e popolare adagio: tanto più se ne parla, quanto meno se ne fa.
Dopo aver visto i servizi d’ordine penare e soffrire per buttare la gente nelle aule, (dove peraltro non si faceva niente se non bivaccare senza costrutto), dico con assoluta chiarezza che così non mi sta più bene.
Preparatevi dunque, cari studenti, perché ci sarà da discuterne: dalla ripresa del confronto uscirà, spero, qualcosa di nuovo.

FRAMMENTI URBANI

LE LUCI DELLE AUTO
accendono e
spengono
con effimeri riflessi
intermittenti,
l’asfalto lucido e
la ringhiera della
corsia filovie.

Lampioni gialli
brillano
come stelle giganti
oltre i vetri
appannati e gocciolanti
del mio bus.

Lo sciaquìo delle ruote e
il tamburellare
della pioggia
sul tetto
ritmano
il viaggio di
volti mesti ed
umidi.

Un poster della stazione
di Porta Romana
supplica
“Delta:Lasciateci lavorare.”

PRIMA FERMATA

Il motore elettrico comincia a ronzare
sul lungo 15 arancione
fermo al capolinea di Rozzano.
I passeggeri attendono impazienti
nel brusìo,
il conduttore assente.
Una dolce brezza muove le foglie degli alberi
nel caldo, assolato meriggio.

Eccolo finalmente salire
e chiudere di schianto le tante porte.
Un brusco sobbalzo,
e parte il gigante,
con l’usuale
stridìo
di metallo sui binari.

Pali, transenne ed alberi
sfrecciano nel finestrino.
Realtà nuove si susseguono.
Prima fermata.

M.Pigni

Il riflesso negli occhiali.

No, caro Prof. Pigni, a me non la fa. Lei è un pazzo! Ma davvero vuol farmi credere di essere volato a Vienna dal Dr Freud? E di avergli sottoposto il caso clinico – peraltro patetico, se lo lasci dire – dell’ “atto mancato” di una macchinetta che si rifiuta di darle il cioccolato? Se lo lasci dire, la sua patologia è ben più grave di una semplice nevrosi d’angoscia: i suoi sintomi sono davvero allarmanti e si collocano nell’ambito dei disturbi psicotici. Altro che analisi, lei avrebbe bisogno di un T.S.O. (trattamento sanitario obbligatorio)!
Sappia comunque che esiste la prova provata che lei è vittima di un’allucinazione. Io posso dimostrarle che in realtà non ha mai incontrato il Dr. Freud, e sa come? Lei dice di essersi visto rispecchiato nelle lenti del medico; ebbene, ciò è impossibile dal momento che egli non si siede mai di fronte al paziente, ma si colloca alle sue spalle! Come faccio a saperlo? Da anni, due volte la settimana, vado in Berggasse 19 per la mia terapia analitica col Dr. Freud!

Freud e la cioccolata

Mi sorprendo canticchiare l’operetta “Wien, Wien, nur du allein” mentre osservo dal bianco e rosso tram n. 2 l’imponente Rathaus e gli edifici neoclassici dell’Universität. Scendo un po’ perplesso alla fermata dello Schotten Ring, e, poco dopo, incrocio sospirando la Maria Theresien Straße. Costeggio ora l’austera mole della Rossauer Kaserne pensando al problema che da Rozzano mi conduce qvi, anzi, qui, a Vienna. Una follia che mi costa un occhio della testa.
Il semaforo della Türkenstraße è rosso. Un’ambulanza con sirena mi sfreccia lamentosamente davanti. Forse una profezia.
Verde. Proseguo in Schlickgasse e giungo alla fatidica Berggasse. Sono davanti alla mitica Haus Berggasse 19.
Il massiccio portone in legno coronato da grosse pietre levigate. Premo il citofono: S.Freud. Il portello scatta ed entro nell’androne illuminato da fioca luce. Scale. Secondo piano. Porta verde. Elegante. Suggestiva. Mi accoglie il barbuto professore in persona. Sono emozionato. La tappezzeria rossa, le porte in lacca bianca, le librerie stracolme, la luce discreta delle finestre primo novecento. Zeitgeist.
Colgo l’aspro odore di sigaro. Virginia, penso.
Guten Tag, sie sind rechtzeitig” siete puntuale.”Bitte liegen Sie unten auf der Couch” accomodatevi sul divano.”
Guten Tag, Herr Doktor. Ich komme von Rozzano, Provinz Mailand. Italien.” Ribatto eccitato e garrulo.
Ja, Ja, Jetzt, denke sie im liegen.” ora, rilassatevi e pensate. Il dottor Freud è ospitale e mite come lo sa esserlo l’auditor viennese che certifica la nostra scuola.
Mi sento meglio, proprio meglio.
“So?” Già, tocca me parlare, è la regola. Il tempo di Freud è prezioso e…costoso.
Sento la mia voce dire in un tedesco maccheronico: “Ich bin hier, ein ernstes Problem zu lösen, Herr Doktor.” Sono qui per un serio problema. (Ho mandato a memoria il discorso in aereo con un vocabolarietto.)
Frustration, Herr Doktor”.
“Hmm.” Fa Freud senza aggiungere altro. Il divano è proprio comodo, e mi vedo rispecchiato nelle lenti del grande psiconanalista che, come si sa, ascolta senza interferire.
“Alla fine di una pesante mattina di scuola…”,”Am Ende eines schweren Morgens der Arbeit mit den Studenten…
“L’unico sollievo dell’anima è una tavoletta di cioccolato dalla macchinetta.” “Der einziges Trost der Seele ist Schokolade vom Schuleverkaufäutomaten.”
Mit Haselnüßen.” Alle nocciole, aggiungo pedante.
Il professore sorride bonario, ma scruta la mia anima senza intervenire.
Sechzig Eurocents!” sessanta centesimi.
“Hmm.”
“La tavoletta viene avanti. Die Schokolade kommt vorwärts,”
Aber es stoppt am letzten Moment! Ma si ferma all’ultimo istante. Blockiert. Bloccata. Blockiert! Die Maschine ist kaputt.” “Und die Schokolade stoppt dort. E resta là. Unerreichbar, Herr Doktor! Irraggiungibile, inaccessibile, frustrante.”
“Profate le patatine!”, scoppia il dottore divertito, che un po’ d’italiano lo mastica per le sue vacanze in Tirolo, tirando un’azzurra boccata di sigaro.

Per cominciare

Qualcuno deve pur cominciare.
Per non dar l’idea che si debba essere bravi, comincio io: la critica domestica (la più sincera) dice che i miei pochisssimi versi, scritti nei momenti di ispirazione profonda, fanno veramente schifo. Dunque…

Rime
Di corvée è questo il giorno
e mondar devo carote
non mi sto a guardare intorno
ma mi sento un don Quijote
il coltello stringo in man ben fiero
arrendetevi, radici, al mio impero.

Tra i fornelli non ho crucci
sbuccio ben molte patate
che nemmeno il gran Carducci
n’ha si buone mai mangiate.
Tra padelle e polpettoni,
mio maestro sia il Tassoni.

E se altro ho da fare
e la camera da letto
devo ancora rassettare
o pulire il gabinetto,
lieto volo col pensiero
anche nel Celeste Impero.

Sbatto bene il materasso
metto nuova biancheria
e del buon Torquato Tasso
la mia sorte sia men ria.
La mia mente vo’ innalzare
e con l’arte via volare.

Angelo Paganini

GLI APACHE, KEATS E LA REGINA

Come il disincantato conte Chojnicki dice nel romanzo di Roth allo sconcertato Baron Trotta (mio spirito guida) “Franz Joseph kennt mich.”, così sua graziosa maestà Elisabeth II mi conosce. Ero in prima fila in piedi accanto al portone quella mattina di qualche anno fa durante la Sua augusta visita a Milano e, scendendo compostamente dalla Rolls a tre metri da dove stavo, guardò nella mia direzione e i nostri sguardi si incrociarono. Avrà pensato: ” Have we ever met before?” sì, maestà, nel New Mexico.

Quell’incontro e quello sguardo privato coronavano anni di passione sfrenata per l’Inghilterra e dintorni. Tutto era iniziato quella mattina del marzo 1963 nel bar di via Fatebenefratelli, quando un mio giovane amico offrì cinquanta lire alla famelica divinità allora nota come juke box.
Il braccio meccanico si mise in movimento, catturò un riluttante 45 giri in vinile dall’etichetta viola e l’inesorabile puntina fece il resto. Bang! La vita di un uomo può cambiare così.
In pochi istanti, il locale frequentato dagli agenti della questura, si trasformò per incanto in un angolo riarso del Nuovo Messico: Apache!
Non era una voce umana quella che eccheggiava tra il banco e i tavolini, era il ruggito possente di una Fender, con la Gibson la più famosa chitarra elettrica rock. Che sound, che impasto di timbri, e il battere suggestivo del tamburo… Era un call, una chiamata.

Quando la musica finì, mi sentìi prostrato, svuotato keatsianamente dalle emozioni vissute, folgorato dalla dea della musica. Chi suona? Chiesi. Sono inglesi, ‘The Shadows’ mi fu risposto, pronunciati allora alla meneghina, ‘de Scèdos’.

Finì con un fondo d’investimento. Cinquanta e cinquanta lire precipitavano garrulamente nello slot dell’insaziabile macchina fino ad esasperare gestore e avventori:” Te podet no cambiaa musica? Propi semper quella?”
Sì, cari sciùri, propi semper quella. Quel rombo impetuoso, quel tuono elettronico, quella titanica melodia evocava rocce rosse, mustang pezzati, uomini rossi e winchester, cespugli rotolanti: America!

Da allora emozioni a gogò, estasi sublimi, spettacoli, cuori infranti, l’art pour l’art… il registro blu da prof. d’inglese.

Alt! Fermi tutti. perchè già allora, nella Milano dei primi anni Sessanta, in coda alla cassa dei music shop con le seicento lire in mano, il dilemma inquietante si insinuava tra le pieghe della felicità: “Heard melodies are sweet, but those unheard are sweeter.” La fatale profezia di Keats turbava le ‘great expectations’ di un futuro prof d’inglese : estrarre l’ultimo disco degli Shadows fresco fresco da Londra dalla custodia e prepararsi alla delusione di una tune inferiore ad Apache, o lasciarlo riposare nella stillness della sua busta per sempre, incontaminato, avvolto nell’ovatta dell’immaginazione eccitata dal suggestivo titolo in inglese?
That was the question.

Perfidia (come la suonavano bene The Shadows)

La sirena cambia tono e pare sempre più vicina. Il lampo azzurro intermittente spazza la mia via. E’ per me, solo per me. I vicini si affacciano a curiosare. E’ il professore. Barcolla. Si appoggia ad un’auto ferma. E’ una vita che accompagno parenti sulle ambulanze, stavolta è tutta mia. Accidenti come sto male. Devo avere si e no cinque minuti di vita, lo si legge sui volti tesi dei volontari. Fagli un C12. Ossigeno. Tutto l’ossigeno. Mettigli la pinzetta al dito. E’ giunta la mia ora. Avanti una supplente. Cosa è successo, mi fa quello col modulo. Non ricordo, sono caduto in bagno, voglio un legale. E le verifiche di febbraio, penso, chi le correggerà? Mi dia un documento. Ma siamo seri, sto o non sto morendo? Il veicolo è ora lanciato nell’alba buia d’inverno. Il solito vecchio, penserà la gente svegliata dalla sirena. Ennò, cari miei, io di roba ne devo ancora spiegare, un insegnante non può lasciare un piano di lavoro a metà per il suo banale funerale. Che fifa, ragazzi, stavolta ci lasciamo le penne. Com’è bianco il soffitto. Mamma, che sbalzi. Come farà uno a morire? Siamo arrivati, fa lo zelante crocerossino per consolarmi. Oddio, Non respiro più. Era un brav’uomo, dirà il preside. Si stenda. Si fa presto a dire si stenda a un morituro. Acc, devo ancora interrogare il Cittrulli di 3S. Si assenta il furbetto, adesso imparerà a giocare con l’i-pod mentre spiego. Beh, ok, lo sentirò da ghost. Non mi sfuggirà più. Un voto che va dato, va dato. La sirena si spegne. Porte spalancate. Pronto soccorso. Infermieri annoiati. Com’è banale morire, penso. Insufficienza respiratoria. Urgente, via, spazio 4. Dalla barella al lettino a rotelle, viaaa verso la fineee. Che macabra gardaland. Com’è bello andar sulla carrozzella. Someone is knocking at yo’ do’ Oh Lord. It’s old sinner… Ah come la cantavano i Golden Gate Quartet. Elettrodi, presto. Nooo sul petto villoso con gli adesivi, voglio morire in pace. Tuttapposto. Alles in Ordnung diceva l’usciere di Schoenbrunn al barone von Trotta. Non è infarto. O bella. Lastre! Ecco qua, prof., solo due costole rotte: VI e VII.
Un duello al Prater all’alba per una leggiadra viennese? No. Guardi questo puntino bianco qui sotto l’ascella. Spillone Voodoo. Cittrulllliiiiiiiii, gran…!