Riconosco nella simpatica ironia del pezzo l’indole e l’intelligenza dell’autore, ma anche una leggera impronta ?franchiana’; suppongo pèrò che questo sia solo frutto di una immotivata presunzione?
Al di là di ciò, le righe di Luca mi inducono ad una riflessione.
Nel dialetto del mio paese, seppellire si dice mett via, cioè mettere via, archiviare.
Il Monumentale, prima di essere un museo a cielo aperto, è un cimitero, un luogo che racconta tante storie ormai archiviate. I ragazzi archiviano più che mai!
Anche il dolore più intenso, fortunatamente, si archivia. La vita di chi ci sta intorno è concepita come una specie di espressione chiusa tra due parentesi tonde e la nostra vita è un’espressione costituita da tante parentesi tonde? Più tardi ci si accorge che le tonde sono incluse tra quadre, queste ultime tra graffe e, per quanto si semplifichi, raramente il contenuto delle parentesi è irrilevante. Allora ci si interessa delle storie raccontate dalle tombe e si capisce persino che esse fanno tutte parte di una lunghissima espressione che è la storia, cioè, in gran parte, la nostra vita!
Caro Luca, sapere che i miei studenti possono giocare a nascondino tra le tombe del Monumentale è una delle poche ragioni che mi inducono a continuare nel mio lavoro: è la constatazione che la vita è forte, e il sapere che essa vi presenta ancora solo parentesi tonde è sottilmente rassicurante?
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musicisti
La quinta X è una classe di musicisti. Quando entro stanno già suonando.
Sada, che somiglia molto a Mick Jagger, dà prova di straordinario virtuosismo ed usa il banco come una batteria. Eccezionale senso del ritmo.
Giulia Ferreri imita con la bocca uno strumento musicale.
Piani suona con un elastico teso tra le sedie, Natoli soffiando con la bocca appoggiata ad un foglio di carta.
La signorina Saldini suona con un fermaglio per i capelli, Cirielli con la cannuccia di una penna.
Blues di alto livello!
Li ascolto commosso, poi, alla prima pausa, comincio a spiegare la concezione schopenhaueriana della musica.
Maledetta pubblicità!
Giornata impegnativa oggi: argomenti di rilievo da spiegare.
Comincio in quinta X dove devo spiegare la differenza tra la concezione kantiana e schopenhaueriana per quanto riguarda fenomeno e noumeno. Cerco gli esempi opportuni, richiamo le conoscenze acquisite, ma dal fondo un ritornello continua ossessivo: «Non c’è mare senza canotto, non c’è 12 senza 88!». Faccio appello alle mie migliori risorse, catturo l’attenzione degli spot-dipendenti e porto a termine la lezione.
Seconda ora in terza K. Devo spiegare la transizione, attraverso Melisso di Samo dal monismo degli eleati al pluralismo di Empedocle ed Anassagora. La lezione inizia bene: interesse e partecipazione, ma dal fondo mi giunge un ritornello martellante: «Non c’è mare senza canotto, non c’è 12 senza 88!». Faccio appello alle mie migliori risorse, improvviso uno show che neanche Beppe Grillo, coinvolgo i recalcitranti e arrivo in fondo, ma un poco cotto.
Terza ora in quarta K: lezione sul pensiero politico di Tommaso d’Aquino. Spiego con passione un argomento che mi piace; illustro la concezione tomista della legge; su richiesta di Zampara, spiego in che senso Tommaso migliori Aristotele. Ma, inesorabile, giunge dal fondo il ben noto motivo: «Non c’è mare senza canotto, non c’è 12 senza 88!». Faccio appello alle mie migliori risorse: risveglio il pathos dell’impegno etico-politico e giungo alla fine della lezione, ma ormai un po’ appannato.
Quarta ora in quinta K, altra lezione su Schopenhauer. Inizio vivace, mi sembra di esser anche più brillante che nell’altra quinta. Quasi quasi mi complimento con me stesso, quando riecco il malefico ritornello: «Non c’è mare senza canotto, non c’è 12 senza 88!». Non resisto ed esplodo cantando a mia volta: «Non c’è mare senza ombrellone, non c’è classe senza un…» Non concludo, lascio che intuiscano. Ridono e la lezione può terminare. Poi Volpini, lo spot-dipendente di turno, mi chiede con l’aria più ingenua di questo mondo: «Non c’è classe senza cosa, prof.?». «Senza un secchione, Volpini, – gli rispondo – ma non sei tu quello!»
4 novembre
Torno a scuola dopo 20 giorni di malattia. Lascio l’automobile nel parcheggio e mi avvio zoppicando verso l’ingresso della scuola. Sorrido e pregusto la calda accoglienza che, solitamente, i colleghi riservano a chi rientra dopo un’assenza per motivi di salute.
Quando, finalmente, varco la porta della sala prof., vengo accolto da un «Oh, no!» detto in coro da colleghe e bidelle.
Al mio sguardo tra l’interrogativo e l’interdetto replicano: «Il tuo supplente era così bello!».
Già! Giovane, bello, Bonazzi di cognome. Che si chiamasse anche Eros di nome?
Mi lecco un po’ la ferita narcisistica parlando con Pigni del 4 novembre (per un asburgico come lui conta soltanto San Carlo) e finalmente raggiungo la classe. Racconto subito l’episodio agli alunni e le belle risate mi riconciliano col mondo.
Santi e sicari
La scorsa estate ho ricevuto una lunga lettera di critica ad un mio vecchio articolo. L’autore, un brianzolo trapiantato in Francia, mi scriveva, tra l’altro, a proposito dello Stato laico: « Ma in realtà questa è una conquista costantemente minacciata per l’appunto dal “ritorno del religioso”».
Sarà vero?
Qualche giorno fa mia moglie, che insegna alle elementari è tornata da scuola avvilita. «Sono così depressa: in quinta ho chiesto se sapevano qualcosa di San Paolo e mi hanno risposto che è quello che ha fondato la banca cui fanno pubblicità in TV. Ho fatto la faccia scura e qualcuno ha corretto: “No! É quello dell’Ospedale dove hanno ricoverato mia nonna”».
Per consolarla, le ho raccontato di quel nostro alunno di terza Liceo che nel compito di storia ha scritto: «Secondo la teologia cattolica il papa è il sicario di Cristo».
Il risultato del mio tentativo di darle conforto non è stato brillante: mi ha proposto di frequentare insieme un corso per idraulici.
Che si ottengano risultati migliori?
PS
Una collega che si è trasferita in un liceo sul mare mi ha scritto suggerendomi di consolare mia moglie ricordandole che, quando eravamo sezione staccata del Liceo Allende, molti studenti intendevano S. Allende come “Sant’Allende”.
Chi sarà mai stato il postulatore della causa di Canonizzazione?
Un giorno come un altro
Arrivo a scuola presto. All’ingresso non ci sono bidelli. La sala prof. è buia come il ventre del pesce che inghiottì Giona. Alzo le tapparelle, ma il cambiamento non è significativo. Poi, pian piano, arrivano colleghi e colleghe. Oggi sembra che ognuno abbia il suo fagottino di dolore e si sente solo un parlare spento e un po’ annoiato. Non arriva neanche Caterina, la custode, con il consueto TIR di circolari.
Armato dei registri raggiungo la quarta Z. L’appello passa quasi inosservato. Cerco di iniziare la lezione, ma continuano a conversare placidamente, come se il professore non fosse ancora entrato. Che sia diventato trasparente?
Innalzo le mani, con un gesto di richiamo, per farmi notare. Niente. Vorrei quasi avere un fumogeno. Poi mi forzo e, trovando risorse inaspettate, faccio uscire una voce tonante: «Questo strano gesticolare è del vostro professore: pur sapendo che l’oblio lo porterà con sé, vorrebbe che ciò avvenisse un altro giorno». Si può cominciare.
Poi, spiegando San Tommaso scopro che Fornero al teorema di Pitagora crede per fede, mentre la signorina Pugni sostiene che non vale sempre. Tutto sommato, avrebbe anche ragione, se soltanto sapesse spiegare perché.
Zappa, che ha chiesto di andare ai servizi, rientra simulando dolori in tutto il corpo. Commento: «Consolati, se soffri sei vivo». «Professore, preferirei essere morto» è la sua risposta. Ma quando gli auguro soavemente: «Che Dio ti accontenti», la mano è lesta allo scongiuro.
Inferno
15 settembre – quarta X
Sono appena entrato ed arriva trafelato Tardini dalla terza. Ansimando, quasi senza parole, mi mostra un libro. Lo fisso con lo sguardo interrogativo.
«L’Inferno – mormora – Professore, va bene l’Inferno?».
La tentazione della battuta è troppo forte: «Non ce n’è bisogno, Tardini – gli rispondo – Sarò io il tuo Inferno».
Ed è solo allora che capisce lo sbaglio.
Angelo Paganini, docente di Storia e Filosofia
La professoressa Marzia Squadroni
Anche durante le vacanze i professori pensano alla scuola.
Qualche giorno fa, mentre passeggiavo sul crinale tra la Val Parma e la Val Magra, ho incontrato una collega di un’altra scuola, in tuta mimetica: «Mi sto allenando – mi dice – per essere efficiente all’inizio delle lezioni!»
La professoressa Marzia Squadroni, sarà per via del nome, pensa che la scuola sia una guerra, una dura lotta, senza esclusione di colpi, da condurre contro selvaggi infidi, che potranno essere portati alla civiltà solamente attraverso il vaglio purificatore della sofferenza.
Per lei lo studente è, per definizione, un subdolo mentitore da smascherare. Se pare che uno studente sappia, indaga bene: troverai l’errore. Se uno studente sembra comportarsi bene, è meglio diffidare: sotto sotto si sta prendendo gioco dell’insegnante.
A questa regola fanno eccezione soltanto le poche vittime della sindrome di Stoccolma, sempre pronte a compiacere la docente padrona, ma anche per loro vale la legge fondamentale: la scuola è e deve essere dolore oppure non è scuola.
Per fortuna si dice che da noi non ci sia nessuno così…
Vatti a fidare…
Vatti a fidare degli amici!
Colavolpe mi ha ridotto che neanche Gregor Samsa.
Nemmeno Kafka sarebbe arrivato a tanto.
E poi dicono delle armi! Le matite sono più pericolose. Bisognerà introdurre un permesso speciale: il porto di matita.
Almeno, però, mi ha lasciato il computer: mi consolerò pensando che sono al centro del web.
il Paga
l’uomo felice…
Sono anni che propongo al Consiglio di Classe un lavoro di approfondimento interdisciplinare sul tema della Felicità: niente da fare. Mi prendono anche un po’ in giro, come se la mia richiesta fosse motivata dalla personalissima esigenza di non affogare nella sfiga.
Forse gioca tra i colleghi anche la paura di dover riconoscere le proprie infelicità: 40, 50, 60 anni e una piega amara sulla bocca; molto meglio non parlarne.
Eppure tutti abbiamo provato la felicità. Com’è che ci vien difficile definirla? Perché il “che cos’è” della felicità sembra sfuggire alla nostra presa?
I più sembrano pensare che abbiano ragione gli inglesi, che la felicità sia happiness, qualcosa che accade (to happen) e dunque non è in nostro potere. La fortuna è cieca e la sfiga ci vede benissimo.
Altri pensano, credono, sperano che la felicità si possa costruire o si possa raggiungere.
Altri altro ancora.
Come sarà?
Anche quando sono felice, non so ben rispondere. però voglio proporvi una storia: la storia dell’uomo felice, una storia raccontata da Italo Calvino, che faccio un po’ mia e, dunque, mi permetto di cambiare, ma poco poco.
Eccola.
Un re aveva un figlio unico e gli voleva bene come alla luce dei suoi occhi. Ma questo Principe era sempre scontento. Passava intere giornate affacciato al balcone, a guardare lontano.
– Ma cosa ti manca? – gli chiedeva il Re. – Che cos’hai?
– Non lo so, padre mio, non lo so neanch’io.
– Sei innamorato? Se vuoi una qualche ragazza dimmelo, e te la farò sposare, fosse la figlia del Re più potente della terra o la più povera contadina!
– No, padre, non sono innamorato.
E il Re a riprovare tutti modi per distrarlo! Teatri, balli, musiche, canti, ma nulla serviva, e dal viso del Principe di giorno in giorno scompariva il color di rosa.
Il Re emanò un editto e, da ogni parte del mondo, venne la gente più istruita: filosofi, dottori e professori. Vennero persino dall’Istituto Calvino. Il re mostrò il Principe e domandò consiglio.
Quelli si ritirarono a pensare, poi tornarono e dissero:
– Maestà, abbiamo pensato, abbiamo letto le stelle. Ecco cosa dovete fare. Cercate un uomo che sia felice, ma felice in tutto e per tutto, e cambiate la camicia di vostro figlio con la sua.
Quel giorno stesso il Re mandò ambasciatori per tutto il mondo a cercare l’uomo felice.
Gli fu condotto un prete: – Sei felice? – gli domandò il Re.
– Io sì, Maestà!
– Bene. Avresti piacere di diventare il mio vescovo?
– Oh, magari, Maestà!
– Va’ via! Fuori di qua! Cerco un uomo felice e contento del suo stato, non uno che voglia star meglio di com’è.
E il Re si mise ancora in attesa.
C’era un altro Re, suo vicino. Gli dissero che era proprio felice e contento: aveva una moglie bella e buona, un mucchio di figli, aveva vinto tutti i nemici in guerra e il paese stava in pace. Subito il Re, pieno di speranza, mando gli ambasciatori a chiedergli la camicia.
Il Re vicino ricevette gli ambasciatori e: – Sì, sì, non mi manca nulla. Peccato, però, che quando si hanno tante cose, poi si debba morire e lasciare tutto! Con questo pensiero soffro tanto che non dormo la notte!
così gli ambasciatori pensarono bene di tornarsene indietro.
Per sfogare la sua disperazione, il Re andò a caccia. Tirò a una lepre e credeva d’averla presa, ma la lepre, zoppicando, scappò via. Il Re le tenne dietro e s’allontanò dal seguito.
In mezzo ai campi sentì una voce d’uomo che cantava allegramente. Il Re si fermo: – Chi canta così non può che esser contento!
Seguendo il canto si infilò in una vigna e, tra i filari, vide un giovane che cantava potando le viti.
– Buon dì, Maestà, – disse quel giovane – così di buon’ora già in campagna?
– Benedetto te, vuoi che ti porti con me alla capitale? Sarai mio amico.
– Ahi, ahi, Maestà, no, non ci penso nemmeno, grazie. Non mi cambierei nemmeno col Papa.
– Ma perché, tu, un così bel giovane?
– Ma no, vi dico. Sono contento così e basta.
– Finalmente un uomo felice – pensò il Re. – Giovane, senti: devi farmi un piacere.
– Se posso, con tutto il cuore, Maestà.
– Aspetta un momento, – e il Re, che non stava più nella pelle per la contentezza, corse cercare il suo seguito: – Venite! Venite! Mio figlio è salvo! Mio figlio è salvo – e li porta da quel giovane.
– Benedetto giovane, – dice, – ti darò tutto quello che vuoi, ma dammi, dammi…
– Che cosa, Maestà?
– Mio figlio sta per morire! Solo tu lo puoi salvare. Vieni qua, aspetta! – e lo afferra, comincia a sbottonargli la giacca. Tutt’a un tratto si ferma, gli cascano le braccia.
L’uomo felice non aveva camicia.
Morale della favola?
Due interpretazioni
Interpretazione pessimistica: è proprio vero, la felicità non è in nostro potere. Se capita, bene, altrimenti…
Interpretazione ottimistica: la felicità non sta nel possedere qualcosa, beni o privilegi o, persino, una camicia e, se non dipende dall’avere, allora può esser per tutti.
Quale sarà la risposta giusta?
Silenzio, per favore. Forse riusciremo a sentirla.