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Freud e la cioccolata

Mi sorprendo canticchiare l’operetta “Wien, Wien, nur du allein” mentre osservo dal bianco e rosso tram n. 2 l’imponente Rathaus e gli edifici neoclassici dell’Universität. Scendo un po’ perplesso alla fermata dello Schotten Ring, e, poco dopo, incrocio sospirando la Maria Theresien Straße. Costeggio ora l’austera mole della Rossauer Kaserne pensando al problema che da Rozzano mi conduce qvi, anzi, qui, a Vienna. Una follia che mi costa un occhio della testa.
Il semaforo della Türkenstraße è rosso. Un’ambulanza con sirena mi sfreccia lamentosamente davanti. Forse una profezia.
Verde. Proseguo in Schlickgasse e giungo alla fatidica Berggasse. Sono davanti alla mitica Haus Berggasse 19.
Il massiccio portone in legno coronato da grosse pietre levigate. Premo il citofono: S.Freud. Il portello scatta ed entro nell’androne illuminato da fioca luce. Scale. Secondo piano. Porta verde. Elegante. Suggestiva. Mi accoglie il barbuto professore in persona. Sono emozionato. La tappezzeria rossa, le porte in lacca bianca, le librerie stracolme, la luce discreta delle finestre primo novecento. Zeitgeist.
Colgo l’aspro odore di sigaro. Virginia, penso.
Guten Tag, sie sind rechtzeitig” siete puntuale.”Bitte liegen Sie unten auf der Couch” accomodatevi sul divano.”
Guten Tag, Herr Doktor. Ich komme von Rozzano, Provinz Mailand. Italien.” Ribatto eccitato e garrulo.
Ja, Ja, Jetzt, denke sie im liegen.” ora, rilassatevi e pensate. Il dottor Freud è ospitale e mite come lo sa esserlo l’auditor viennese che certifica la nostra scuola.
Mi sento meglio, proprio meglio.
“So?” Già, tocca me parlare, è la regola. Il tempo di Freud è prezioso e…costoso.
Sento la mia voce dire in un tedesco maccheronico: “Ich bin hier, ein ernstes Problem zu lösen, Herr Doktor.” Sono qui per un serio problema. (Ho mandato a memoria il discorso in aereo con un vocabolarietto.)
Frustration, Herr Doktor”.
“Hmm.” Fa Freud senza aggiungere altro. Il divano è proprio comodo, e mi vedo rispecchiato nelle lenti del grande psiconanalista che, come si sa, ascolta senza interferire.
“Alla fine di una pesante mattina di scuola…”,”Am Ende eines schweren Morgens der Arbeit mit den Studenten…
“L’unico sollievo dell’anima è una tavoletta di cioccolato dalla macchinetta.” “Der einziges Trost der Seele ist Schokolade vom Schuleverkaufäutomaten.”
Mit Haselnüßen.” Alle nocciole, aggiungo pedante.
Il professore sorride bonario, ma scruta la mia anima senza intervenire.
Sechzig Eurocents!” sessanta centesimi.
“Hmm.”
“La tavoletta viene avanti. Die Schokolade kommt vorwärts,”
Aber es stoppt am letzten Moment! Ma si ferma all’ultimo istante. Blockiert. Bloccata. Blockiert! Die Maschine ist kaputt.” “Und die Schokolade stoppt dort. E resta là. Unerreichbar, Herr Doktor! Irraggiungibile, inaccessibile, frustrante.”
“Profate le patatine!”, scoppia il dottore divertito, che un po’ d’italiano lo mastica per le sue vacanze in Tirolo, tirando un’azzurra boccata di sigaro.

GLI APACHE, KEATS E LA REGINA

Come il disincantato conte Chojnicki dice nel romanzo di Roth allo sconcertato Baron Trotta (mio spirito guida) “Franz Joseph kennt mich.”, così sua graziosa maestà Elisabeth II mi conosce. Ero in prima fila in piedi accanto al portone quella mattina di qualche anno fa durante la Sua augusta visita a Milano e, scendendo compostamente dalla Rolls a tre metri da dove stavo, guardò nella mia direzione e i nostri sguardi si incrociarono. Avrà pensato: ” Have we ever met before?” sì, maestà, nel New Mexico.

Quell’incontro e quello sguardo privato coronavano anni di passione sfrenata per l’Inghilterra e dintorni. Tutto era iniziato quella mattina del marzo 1963 nel bar di via Fatebenefratelli, quando un mio giovane amico offrì cinquanta lire alla famelica divinità allora nota come juke box.
Il braccio meccanico si mise in movimento, catturò un riluttante 45 giri in vinile dall’etichetta viola e l’inesorabile puntina fece il resto. Bang! La vita di un uomo può cambiare così.
In pochi istanti, il locale frequentato dagli agenti della questura, si trasformò per incanto in un angolo riarso del Nuovo Messico: Apache!
Non era una voce umana quella che eccheggiava tra il banco e i tavolini, era il ruggito possente di una Fender, con la Gibson la più famosa chitarra elettrica rock. Che sound, che impasto di timbri, e il battere suggestivo del tamburo… Era un call, una chiamata.

Quando la musica finì, mi sentìi prostrato, svuotato keatsianamente dalle emozioni vissute, folgorato dalla dea della musica. Chi suona? Chiesi. Sono inglesi, ‘The Shadows’ mi fu risposto, pronunciati allora alla meneghina, ‘de Scèdos’.

Finì con un fondo d’investimento. Cinquanta e cinquanta lire precipitavano garrulamente nello slot dell’insaziabile macchina fino ad esasperare gestore e avventori:” Te podet no cambiaa musica? Propi semper quella?”
Sì, cari sciùri, propi semper quella. Quel rombo impetuoso, quel tuono elettronico, quella titanica melodia evocava rocce rosse, mustang pezzati, uomini rossi e winchester, cespugli rotolanti: America!

Da allora emozioni a gogò, estasi sublimi, spettacoli, cuori infranti, l’art pour l’art… il registro blu da prof. d’inglese.

Alt! Fermi tutti. perchè già allora, nella Milano dei primi anni Sessanta, in coda alla cassa dei music shop con le seicento lire in mano, il dilemma inquietante si insinuava tra le pieghe della felicità: “Heard melodies are sweet, but those unheard are sweeter.” La fatale profezia di Keats turbava le ‘great expectations’ di un futuro prof d’inglese : estrarre l’ultimo disco degli Shadows fresco fresco da Londra dalla custodia e prepararsi alla delusione di una tune inferiore ad Apache, o lasciarlo riposare nella stillness della sua busta per sempre, incontaminato, avvolto nell’ovatta dell’immaginazione eccitata dal suggestivo titolo in inglese?
That was the question.

Perfidia (come la suonavano bene The Shadows)

La sirena cambia tono e pare sempre più vicina. Il lampo azzurro intermittente spazza la mia via. E’ per me, solo per me. I vicini si affacciano a curiosare. E’ il professore. Barcolla. Si appoggia ad un’auto ferma. E’ una vita che accompagno parenti sulle ambulanze, stavolta è tutta mia. Accidenti come sto male. Devo avere si e no cinque minuti di vita, lo si legge sui volti tesi dei volontari. Fagli un C12. Ossigeno. Tutto l’ossigeno. Mettigli la pinzetta al dito. E’ giunta la mia ora. Avanti una supplente. Cosa è successo, mi fa quello col modulo. Non ricordo, sono caduto in bagno, voglio un legale. E le verifiche di febbraio, penso, chi le correggerà? Mi dia un documento. Ma siamo seri, sto o non sto morendo? Il veicolo è ora lanciato nell’alba buia d’inverno. Il solito vecchio, penserà la gente svegliata dalla sirena. Ennò, cari miei, io di roba ne devo ancora spiegare, un insegnante non può lasciare un piano di lavoro a metà per il suo banale funerale. Che fifa, ragazzi, stavolta ci lasciamo le penne. Com’è bianco il soffitto. Mamma, che sbalzi. Come farà uno a morire? Siamo arrivati, fa lo zelante crocerossino per consolarmi. Oddio, Non respiro più. Era un brav’uomo, dirà il preside. Si stenda. Si fa presto a dire si stenda a un morituro. Acc, devo ancora interrogare il Cittrulli di 3S. Si assenta il furbetto, adesso imparerà a giocare con l’i-pod mentre spiego. Beh, ok, lo sentirò da ghost. Non mi sfuggirà più. Un voto che va dato, va dato. La sirena si spegne. Porte spalancate. Pronto soccorso. Infermieri annoiati. Com’è banale morire, penso. Insufficienza respiratoria. Urgente, via, spazio 4. Dalla barella al lettino a rotelle, viaaa verso la fineee. Che macabra gardaland. Com’è bello andar sulla carrozzella. Someone is knocking at yo’ do’ Oh Lord. It’s old sinner… Ah come la cantavano i Golden Gate Quartet. Elettrodi, presto. Nooo sul petto villoso con gli adesivi, voglio morire in pace. Tuttapposto. Alles in Ordnung diceva l’usciere di Schoenbrunn al barone von Trotta. Non è infarto. O bella. Lastre! Ecco qua, prof., solo due costole rotte: VI e VII.
Un duello al Prater all’alba per una leggiadra viennese? No. Guardi questo puntino bianco qui sotto l’ascella. Spillone Voodoo. Cittrulllliiiiiiiii, gran…!

Vita da prof

il professor Paganini

Bistrattato professore, tu non puzzi di sudore. La tua vita è comodona e puoi startene in poltrona. Sempre quello è il ritornello: «Troppo lunghe le vacanze! Credi d’essere il più bello? Sono giuste queste usanze? Sono poche diciott’ore, lazzaron d’un professore».
Val la pena di smentire chi non vuol proprio capire?
«S’io son furbo e tu sei grullo – lesto lesto dico allora – s’io son sveglio e tu citrullo, che ci vuoi mai fare ora? Ci dovevi allor pensare e deciderti a studiare»
Ma se mi vorrai ascoltare, forse ti potrò spiegare come abbia la fatica il docente per amica.
Non ha posa il professore e lavora a tutte l’ore. Certo stira le camicie, ma il pensiero corre a Nietzsche. Se pulisce i pavimenti ha presenti gli studenti. Se cucina un bel rognone non dimentica Platone. Riordinando il cassettone, lui rimugina Bacone. Se si mette le pianelle gli sovvien tosto d’Apelle. Quando è intento a spolverare lui continua a meditare. Non pensar che sia vanesio: ha imparato da Cartesio.
Anche il dì di Ferragosto, con il vino e con l’arrosto, il pensiero lesto vola: non dimentica la scuola.

Centomila registri di ghiaccio

il professor Paganini


Lunedì 30 gennaio 2006, entrando a scuola, vengo accolto dal prof. Pigni con sferzanti parole in tedesco. Non mi preoccupo: tutti sanno che quando Pigni non ha niente da dire, lo dice in tedesco.
Poi, però, continua in un italiano asburgico: «Lei, professofe, sabato non era al suo posto di combattimento nelle trincee dell’Istituto Calfino. La sua diserzione è stata notata. Qvesta è una grafe mancanza. Sarà deferito alla corte marziale e io personalmente afrò il piacere di comandare il plotone d’esecuzione!».
Lo guardo pieno di compatimento: è la prova vivente che la scuola può far male. Tutti, venerdì, hanno sentito i telegiornali che annunciavano la chiusura delle scuole.
Non voglio infierire e mi limito ad un bonario: «Mo’ va…»
Mi guarda serio e, parlando finalmente come Dio comanda, mi dice: «Guarda che non scherzo, sabato la scuola era aperta e tu e quel giacobino di Colavolpe non eravate al vostro posto.
Noi eravamo qui con i registri ghiacciati, con un pugno di studenti, a guardare Il mestiere delle armi, nel freddo di una scuola senza riscaldamento, sferzata dalla tormenta e voi siete rimasti sotto le vostre coperte».
La ferita narcisistica è terribile. Io ho sempre dichiarato che a scuola sto come un topo nel formaggio, ho sempre detto che quando verrà il momento della pensione mi aggrapperò alla cattedra e dovranno venire i carabinieri per portarmi via, ed ora vengo accusato di esser venuto meno al mio dovere, di aver lasciato i colleghi soli nel momento del bisogno.
Cerco di dirmi che la strada era quasi impraticabile, che i mezzi pubblici erano pochi e terribilmente in ritardo, che la mia automobile era stata sepolta dal materiale ammassato da uno dei pochi mezzi spazzaneve attivi nel mio comune, tanto che ho impiegato due ore e mezza per liberarla, usando l’unico mezzo utile a mia disposizione: la paletta della pattumiera. Ma non riesco a darmi pace.
Dovevo immaginarlo che per il nostro avamposto culturale, sperduto al confine del deserto dei tartari dell’ignoranza, non potevano certo valere le consegne impartite dai comandi generali per il grosso della truppa. Come ho potuto non dotarmi di una slitta e dell’opportuna muta di cani?
Le scuole di intere regioni sono rimaste chiuse per neve, ma l’istituto Calvino di Rozzano non è una scuola come le altre, non ha professori come gli altri e non ha un preside come gli altri.
Per riscattarmi non mi resta che offrirmi di guidare un viaggio di istruzione… in Siberia

Piaceri

il professor Paganini


Lezione sul Positivismo. Come spesso capita, si parla di felicità. Un riferimento a John Stuart Mill mi spinge a chiedere se sia meglio essere un Socrate sofferente o un porco soddisfatto.
Un tempo la sola idea di essere un porco soddisfatto suscitava ripugnanza, oggi sembra una simpatica soluzione. Disperando di poter trovare la felicità, ci si aggrappa al piacere. O forse, dato che la felicità è piacevole, ci si illude che il piacere dia la felicità.
Risultato: un coro grufolante di porci soddisfatti. Solamente la signorina Maiello si chiama fuori.
Che fare?
«Se quel che conta è il piacere – dico – ho la soluzione che fa per voi!»
Propongo le cure del mio amico neurochirurgo dottor Felice d’Edonis, che ha trovato il modo di garantire il piacere inserendo degli elettrodi nelle aree giuste del cervello. Certo, si vive una vita virtuale, in un letto di ospedale, monitorati dai computer, ma una vera goduria! Sicuramente meglio di Matrix. «Chi è interessato?» chiedo.
Le adesioni precipitano: soltanto Ravanelli è interessato.
Forse non tutto è perduto.