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La guida indiscussa dell’URSS

Stalin nel 1937
Stalin nel 1937

Dal 1912 Stalin, il cui vero nome era Iosif Vissarionovič Džugašvili (in russo: Ио́сиф Виссарио́нович Джугашви́ли), iniziò ad firmarsi con il nome di “uomo d’acciaio”, pseudonimo con il quale voleva sottolineare la propria forza di volontà che lo contraddistingueva dagli altri compagni del partito. Era un uomo di umili origini e aveva abbandonato gli studi teologici per dedicarsi alle teorie di Marx e Lenin.
Prendeva parte a riunioni segrete di organizzazioni politiche antizariste e, per questo, venne arrestato ben sette volte . Nel 1917 tornò in patria dopo un periodo di esilio e insieme a Kamenev diresse un quotidiano di orientamento bolscevico. Né Trockij né Lenin avevano molta stima nei suoi confronti e tentarono di ostacolare la sua “ascesa” al potere. Nonostante ciò, proprio grazie al ruolo che aveva assunto all’interno del partito, Stalin ebbe la meglio sui suoi oppositori.
Per raggiungere il successo egli applicava quattro regole personali:

  1. ogni metodo è giustificabile se aiuta a raggiungere il successo;
  2. gli uomini devono essere messi da parte quando non servono più;
  3. le alleanze sono fatte per essere rotte;
  4. le idee non hanno valore, se non sono legate al potere.

Siccome si sentiva in condizioni di inferiorità rispetto agli altri membri del partito, iniziò a studiare a fondo per ampliare la propria cultura, si interessò alla storia e alla filosofia; cercò poi di superare la propria paura di parlare in pubblico. I discorsi di Stalin erano comunque molto schematici: ciò faceva molta presa sul pubblico che considerava questo fatto un segno di grande saggezza. Inoltre le sue apparizioni erano molto rare e per questo più sentite dal pubblico. Tutto ciò era stato pensato con il fine di creare un mito attorno alla sua figura.

La sua spietatezza era però un dato di fatto. Molti documenti dimostrano come egli eliminasse i “nemici del popolo” con estrema facilità, senza risparmiare neppure i parenti. Ma tutto ciò era possibile anche a causa dei collaboratori che non si opposero mai alle sue decisioni e non si preoccuparono mai di provare a frenare un uomo che si stava dimostrando a tutti gli effetti un dittatore. Questa incondizionata obbedienza aveva però un secondo fine: solo così gli uomini più vicini a Stalin riuscirono a sfuggire alle purghe.
Stalin fu anche protagonista di un triste primato, quello di far uccidere in un solo giorno più di 3000 persone di cui non conosceva né i reati né le accuse: pronunciò la condanna come se fosse una pura formalità.
Il dittatore morì per emorragia celebrale il 5 marzo 1953, senza mai pentirsi o rinnegare le sue opere crudeli.

Chiara C.

Il colonialismo: sogno o incubo per gli italiani?

Dalla seconda metà dell’Ottocento, gran parte della classe dirigente italiana avrebbe voluto, per il nostro paese, una politica coloniale di successo simile a quella delle grandi potenze europee. I passati fallimenti sotto il governo Crispi e la conquista di Tunisia e Marocco da parte della Francia  furono le cause principali dell’avventato e vergognoso tentativo del nostro paese di sottomettere la Libia. A questi bisognava sommare poi un crescente interesse in questa politica da parte di gruppi industriali e finanziari, i quali volevano ricavare ricchezza dall’acquisizione di territori africani.
Le operazioni militari per la conquista iniziarono il 3 ottobre del 1911 con un bombardamento su Tripoli da parte delle navi italiane, le quali erano fuori gittata per i deboli cannoni turchi. L’esercito, già il giorno dopo, riuscì ad occupare la città senza incontrare resistenze. Questo fatto contribuì  a diffondere tra le nostre truppe un’ottimistica fiducia ed  un atteggiamento paternalistico verso i libici, nonostante noi non conoscessimo per nulla la popolazione e le sue tradizioni. E infatti, il 23 ottobre, dopo quasi un mese dall’inizio delle prime ostilità, scoppiò una rivolta nella zona della Libia italiana: alcuni gruppi di milizia ben organizzata attaccarono varie postazioni italiane e seminarono il panico tra i nostri soldati. Riuscirono ad entrare fino a Tripoli. In questo attacco subimmo gravi perdite: nessuno si aspettava una reazione simile dai “nostri figli” libici.
Come risposta a questa offesa i nostri soldati reagirono in modo molto disordinato e terribilmente crudele:  furono commessi veri e proprio eccidi. Ci fu un grandissimo numero di arresti ed esecuzioni; più di 3000 libici vennero poi rilegati in carceri speciali italiane, dove vi morirono in 633.

Il governo italiano, quando vide che il fronte arabo resisteva,  decise di cambiare tattica: proclamò la sua completa sovranità sulla Tripolitania e la Cirenaica e spostò il fronte di attacco dalla Libia alla Turchia. Così nella primavera del 1912 le navi italiane occuparono l’isola di Rodi e le Sporadi per poi compiere un’incursione nello stretto dei Dardanelli. Maometto V, imperatore turco, decise di avviare subito delle trattative di pace col nostro paese e decretò l’autonomia delle due provincie lasciandole di fatto sotto il controllo italiano.

Un ruolo fondamentale in questo scontro venne svolto dai bombardamenti aerei, in cui l’Italia dimostrò di essere all’avanguardia, testando i nuovi dirigibili e aerei a scopo bellico. Infatti tra il maggio e l’agosto del 1917 ci furono un centinaio di bombardamenti contro i civili per costringere la popolazione a non appoggiare i rivoltosi. In questi raid vennero impiegate anche bombe cariche di iprite, un gas tossico. Per piegare completamente la terra libica al nostro volere infine, nel 1929, Pietro Badoglio, governatore della Libia, decise di spezzare i legami tra popolazione sottomessa e sovversivi. Fece deportare più o meno 100000 arabi nei campi di concentramento. Infatti la popolazione della Cirenaica diminuì moltissimo, passando da 198300 abitanti nel 1911 a 142000 nel 1931.

Alla fine del sogno coloniale italiano troviamo dunque un vero e proprio genocidio, a testimonianza del fatto che quando la questione riguarda denaro e potere, la vita ha assunto ormai un valore così basso che non può più frenare i mezzi di distruzione usati per raggiungere questi due scopi. Riusciremo a ritrovare il vero significato di questa parola, che è anche il primo diritto umano di ogni persona che nasce?
Federico Cornalba e Andrea Vaghi

Le nuove tecniche di combattimento nel Trecento

Battaglia di Crecy con archi e balestre.
Battaglia di Crecy con archi e balestre.

Fino a tutto il XIII secolo le operazioni militari erano state condotte e gestite dai “signori della guerra” appartenenti all’aristocrazia, che dai tempi di Carlo Magno avevano costituito la parte più forte del potere politico e militare: i nobili erano infatti i soli a disporre di terre e quindi di rendite sufficienti per allestire, armare e mantenere possenti reparti di cavalleria. Erano i cavalieri, truppe di nobili uomini in cerca di fortuna alle dipendenze dei signori feudali, il punto di forza degli eserciti medievali. I fanti rappresentavano soltanto un nucleo secondario, e di essi facevano parte prevalentemente contadini e artigiani strappati alle loro consuete occupazioni, male armati e male addestrati. Tuttavia nel corso del XIV secolo, a partire dalla guerra dei Cent’anni, il ruolo della cavalleria venne fortemente ridimensionato a causa della comparsa di nuove e più efficaci tattiche di combattimento della fanteria. Tra queste innovazioni le più significative sono senza dubbio le armi da getto, ovvero la balestra e l’arco che acquistarono progressivamente importanza e cambiarono radicalmente le tecniche di combattimento. La balestra aveva infatti una potenza micidiale: le frecce che scagliava potevano trapassare qualsiasi armatura. Per il suo impiego però si richiedeva un addestramento ben preciso. Superiore alla balestra per efficienza era l’arco, poiché richiedeva un tempo di ricarica della freccia molto inferiore rispetto a quello della balestra; infatti se un balestriere esperto non riusciva a scagliare più di due frecce al minuto, i lunghi archi utilizzati dagli Inglesi durante la guerra dei Cent’anni ne potevano lanciare perfino otto. L’arco era l’arma plebea per eccellenza, tutti i contadini ne conoscevano l’uso e durante le battaglie nulla potevano le spade dei cavalieri contro la pioggia di frecce che cadeva su di loro. Ma gli arcieri e i balestrieri avevano generalmente un ruolo di difesa. Fu l’introduzione delle lunghe picche dei soldati svizzeri, a modificare la tecnica di combattimento, assegnando un ruolo primario alla fanteria. Durante le battaglie, la fanteria svizzera, costituita da circa seimila soldati, si disponeva in quadrati ed ogni fante era armato di picca: una lancia lunga circa tre metri, che veniva usata con entrambe le mani. In questo modo la cavalleria nemica che giungeva verso la formazione di fanti, si trovava davanti ad un immensa concentrazione di lance che venivano manovrate all’unisono con grande tempismo e, come si può immaginare, nella maggior parte dei casi i cavalieri venivano infilzati da questo grande numero di picche. Successivamente il prestigio della fanteria svizzera fu oscurato, verso la fine del XV secolo, dall’uso della polvere da sparo. Inventata dai Cinesi presumibilmente intorno all’VII-IX secolo, venne da loro utilizzata per la fabbricazione di fuochi d’artificio. Furono gli Europei a farne uno strumento di morte, costruendo intorno alla metà del XIV secolo le prime armi da fuoco. I primi cannoni erano di bronzo, rame e stagno. Questi metalli divennero una preziosa merce di scambio e si formò un ingente mercato di armi soprattutto nell’Italia settentrionale e nei Paesi Bassi. Inizialmente i proiettili erano a forma di freccia, poi vennero sostituiti da palle di pietra e infine di bronzo. Il nome di questo nuovo tipo di arma deriva dalla forma della struttura dalla quale venivano lanciati i proiettili, che in un primo periodo era una sorta di vaso, poi si passò ad una forma tubolare, cioè alla “canna”, posta su un cavalletto. Inizialmente i cannoni avevano molti difetti e oltre che ad avere un tiro impreciso facevano anche più rumore che danni. Dopo vari studi e perfezionamenti anche da parte di uomini di fama, come Leonardo Da Vinci, che studiò con precisione la traiettoria dei proiettili, le prestazioni dei cannoni migliorarono notevolmente ed essi diventarono così la miglior arma in circolazione. Con l’arrivo delle armi da fuoco le fortificazioni delle città vennero modificate; vennero progettati bastioni, torri e mura elevate che potessero resistere il più possibile ai bombardamenti dei cannoni. Furono inoltre studiate forme più adatte a respingere i colpi: il cilindro e il cuneo sembrarono le forme più indicate per evitare la distruzione perché davano maggiore stabilità. Come tutte le grandi invenzioni anche le armi da fuoco suscitarono varie perplessità. Io sono d’accordo con Ludovico Ariosto che nell’Orlando Furioso, trovò l’occasione per esprimere il suo giudizio indignato, nel quale condannò le armi da fuoco come strumenti di guerra poco virtuosi. In effetti con le armi da fuoco si perse il senso di gloria, di onore e di valore che si poteva ottenere con una battaglia di spade tra due cavalieri o con un duello tra due eroi epici che si affrontavano per proteggere o manifestare i propri ideali.

La peste nel XIV secolo

Tra il 1347 e il 1348 cominciò a svilupparsi in Europa una devastante epidemia, la peste, malattia trasmessa all’uomo attraverso la puntura delle pulci dei ratti.  La morte rapida ed inspiegabile di uomini, donne e bambini cagionò paura all’interno di molte popolazioni, poiché non si conoscevano le cause.

Questa grave malattia si presentò in tre modi differenti: la peste “bubbonica”, definita così perché si manifestava con ascessi e tumefazioni delle ghiandole inguinali e ascellari, quella “polmonare” che colpiva i polmoni e quella “setticemica”, che si manifestava con ampie emorragie che davano luogo a chiazze nere. (La peste polmonare non si manifestò in Europa, ma solo tra i minatori della regione della Manciuria).

Gli uomini del Trecento chiamarono la malattia peste nera o morte nera. Perché? Alcuni storici pensano che il termine si riferisse alle macchie provocate dalla peste setticemica. Altri ritengono che questa espressione oscura volesse semplicemente dire “terribile” o “senza scampo”.

Come reagirono gli uomini del Medioevo? Pensarono che questo terribile flagello manifestasse una collera divina. I medici ipotizzarono che la malattia fosse legata alla “corruzione dell’aria” e consigliavano alla popolazione di evitare l’aria al di sopra delle acque stagnanti e degli acquitrini, di eliminare i cumuli di sporcizia, di lavarsi molto spesso le mani utilizzando acqua e aceto e soprattutto di tenersi lontano dai malati.

La malattia ci fu probabilmente portata dai corrieri mongoli che percorrevano l’Asia centrale,  fino a raggiungere l’Europa,  facilitando il contagio attraverso i topi annidati nei sacchi di grano, e fu aggravata dall’assenza di un sistema fognario nelle città che offrivano un ambiente ideale i ratti ed i loro parassiti.

Si capì presto che la miglior convenzione consisteva nel chiudere le porte delle città ai viandanti ed ai mercanti forestieri. Fu così che la città di Milano riuscì a scampare al contagio.

Tuttavia i medici del Trecento, non poterono arrestare questa devastante epidemia: non avevano sufficienti conoscenze scientifiche e non disponevano di farmaci adeguati.

 

Il decollo industriale dell’Italia nel ‘900

L’età giolittiana (1901-1914), ossia il periodo in cui Giovanni Giolitti fu Primo Ministro italiano, coincise con il decollo della rivoluzione industriale nel nostro paese. I progressi più evidenti si registrarono nell’industria siderurgica, elettrica, meccanica (con la nascita di aziende come la Fiat, l’Alfa Romeo e la Lancia) e nel settore tessile (principalmente nell’industria del cotone); queste industrie avevano sede soprattutto nel cosiddetto triangolo industriale, formato da Torino, Milano e Genova.

stabilimento Alfa Romeo
L’interno dello stabilimento Alfa Romeo del Portello all’inizio del XX secolo

Lo sviluppo industriale dell’Italia fu favorito da alcune condizioni particolari: in primo luogo l’industria italiana venne fortemente aiutata dall’intervento statale (in particolare grazie alle commesse statali nel settore siderurgico); in secondo luogo la politica protezionistica dello Stato, attuata con l’imposizione di alte tasse sui prodotti esteri, favorì il notevole sviluppo delle industrie del Nord (anche se danneggiò i prodotti tipici del Sud); il decollo industriale venne infine agevolato dai finanziamenti delle grandi banche alle nuove industrie, ancora incapaci di autofinanziarsi (in questo periodo nacque la banca mista, una commistione tra banca commerciale e banca d’affari specializzata in prestiti a breve, medio e lungo termine).

Lo sviluppo industriale mutò il modo di vivere degli italiani, almeno nelle città: l’arrivo nelle case dell’illuminazione elettrica, dell’acqua corrente e del gas e il miglioramento delle condizioni igieniche (dovuto alle innovazioni in campo medico e sanitario) portarono un notevole miglioramento nel livello medio di vita della popolazione. Le conseguenze della repentina crescita non furono però solo positive: lo spostamento di grandi masse dalle campagne alle città, sedi delle principali industrie, comportò notevoli disagi per gli abitanti e soprattutto per le classi operaie, costrette a vivere in quartieri sovraffollati e malsani; nelle case, inoltre, il riscaldamento rimaneva un lusso e i servizi igienici erano spesso in comune; in questo periodo, infine, la piaga sociale dell’alcolismo conobbe un notevole incremento: esso era infatti il rifugio più diffuso tra i contadini e gli operai dalle disumane condizioni di lavoro a cui erano sottoposti.

Decessi per alcolismo
Decessi per alcolismo

I poveri nel Trecento: malvagi da isolare o sofferenti da aiutare?

Chi erano i poveri nel Medioevo?

Il povero era colui che non mangiava carne e non beveva vino; era un infermo, cieco, zoppo o monco, coperto di piaghe che degli stracci lasciavano apparire con una inverecondia ripugnante; il povero viveva nella sporcizia. Egli era laido, faceva paura, lo si riteneva malvagio, era disprezzato, umiliato e lui stesso umiliava gli altri con il suo contatto. Il povero era un errante, un vagabondo; col sacco sulle spalle, il bastone in mano, andava di borgata in borgata. Non aveva né una casa né una professione. La società ignorava il povero, infatti i documenti non lo designavano con il suo nome, supposto che se ne conoscesse uno. L’isolamento lo perseguitava anche dopo la morte, poiché il suo cadavere non trovava posto fra gli altri Cristiani; ad esempio nel cimitero degli Innocenti, a Parigi, la “fossa dei poveri” era in disparte. Da tutto ciò viene spesso trasmessa un’idea sbagliata della povertà del Medioevo. Studi recenti stanno smentendo l’immagine di un Medioevo gravato dalla miseria e da una fame diffusa e invincibile. Come sempre, la realtà è più sfumata e sembra proprio che la fame più atroce sia iniziata con l’età moderna. Anche se non va idealizzato, il lunghissimo periodo medievale è, per molti versi, simile alla nostra epoca per quanto riguarda l’intensità della felicità e dell’infelicità, della miseria e della ricchezza. Ciò che è profondamente cambiata è la mentalità nostra che ci fa apparire intollerabile o miserabile ciò che un tempo era accettato. Purtroppo non abbiamo la controprova, e non potremo mai sapere cosa avrebbe pensato un uomo medievale degli stili di vita moderni. Sappiamo invece che nel Trecento si formarono due diversi tipi di tendenze riguardo agli atteggiamenti da adottare nei confronti dei poveri. Innanzitutto c’erano le istituzioni di beneficenza che avevano il compito di fornire e di organizzare i soccorsi ai bisognosi. In primo luogo vanno nominati gli ospedali, che nel Medioevo ospitavano soprattutto i poveri. Ad assisterli poi vi erano le varie congregazioni. I fondi per la beneficenza non mancavano, giacché i mercanti nella loro contabilità tenevano presente anche la necessità di redimersi dai peccati. L’opera di beneficenza veniva svolta in larghissima misura sul piano delle istituzioni; il più delle volte le somme venivano affidate ai collettori delle elemosine, che rappresentavano conventi, ospedali e lebbrosari, e non ai poveri direttamente. Mentre nell’altra tendenza riguardante l’atteggiamento da adottare con i poveri, in opposizione con la prima, si sviluppò una legislazione di carattere repressivo nei loro confronti. In molti paesi, le prime serie misure contro i poveri furono prese intorno al 1350. Nel 1351 il re don Pedro I di Castiglia pubblicò un’ordinanza contro i mendicanti validi, che diventarono passibili di fustigazione sin dalla prima contravvenzione alla legge. In Inghilterra diversi testi legislativi promulgati da Edoardo III tra il 1349 e il 1351 si prefissero lo scopo di reprimere la mendicità, il vagabondaggio e l’elemosina data agli oziosi, e nello stesso tempo regolamentarono i salari. Ma questa legislazione, che d’altronde rimase spesso inapplicata, non cancellò affatto le antiche idee sui diritti sacri del povero quale rappresentante del Cristo sulla terra. Cominciò semplicemente a delinearsi una distinzione, che avrebbe avuto molta fortuna nei secoli seguenti, tra poveri “buoni” e poveri “cattivi”; e i poteri pubblici, almeno, ritenettero indispensabile usare la massima severità con i secondi. Ma si esitava, si andava a tentoni. Evidentemente, alla fine del Medioevo non si era ancora deciso quale dei due opposti atteggiamenti adottare.

Poveri soccorsi in ospedale nel Medioevo

I giorni della collera divina

rappresentazione peste bubbonica

Tra il 1347 e il 1348 la gente cominciò a contrarre la peste che, quasi inevitabilmente, portava alla morte. Conosciamo tre tipologie di questa malattia :la prima, chiamata peste bubbonica si manifesta nelle ghiandole inguinali e ascellari, provocando ascessi e tumefazioni, la seconda interessa i polmoni e l’apparato respiratorio e viene chiamata peste polmonare, infine l’ultima, la peste setticemica, si manifesta con emorragie cutanee e dà origine a chiazze nere.
Da quanto ci riportano i cronisti dell’ epoca (ad esempio Boccaccio), in Europa si manifestarono due tipi di peste: quella bubbonica e quella setticemica. Gli uomini medioevali ritenevano che la causa di questa epidemia fosse la collera divina ma contemporaneamente la medicina cercava la causa della malattia. La teoria più diffusa collegava la malattia alla “corruzione dell’aria”. Quindi si consigliava di evitare l’aria al di sopra delle acque stagnanti e di eliminare la sporcizia. Per non contrarre la peste si consigliava di isolare i malati affinché non contaminassero anche i parenti e di spalancare le finestre sperando che l’aria fresca combattesse la malattia. La regola d’oro, però, era quella di darsi alla fuga alle prime manifestazioni di contagio.
La peste, oggi lo sappiamo, è causata da un bacillo, isolato da uno scienziato russo nel 1894 e che si sviluppa nei ratti comuni. Nel Trecento, la diffusione della malattia fu facilitata dall’assenza di fognature nella città e dai commerci via mare in quanto soprattutto nelle stive delle navi erano annidati molti topi neri, principale causa dell’epidemia.
I medici dell’epoca compresero che la malattia si diffondeva anche per via aerea ma nonostante queste conoscenze non avrebbero potuto arrestare l’epidemia: ci sarebbero voluti gli antibiotici.
L’ultimo episodio di epidemia di peste allarmante risale alla fine dell’Ottocento: il morbo ricomparve in Cina per poi diffondersi nell’Estremo Oriente, in India e in America. Per fortuna, si conosceva la causa della malattia: le persone contagiate vennero subito isolate e si riuscì ad arrestare la diffusione del morbo.

Poveri, ora come nel Trecento

Poveri ai margini della strada
Poveri ai margini della strada

I poveri c’erano allora, come adesso. L’epoca di cui parliamo è il Trecento, anni caratterizzati da una profonda crisi, economica, demografica e sociale. Ma come venivano trattati allora i poveri?

Una profonda contraddizione segnava la società: se da una parte i poveri erano cacciati e considerati malvagi, dall’altra essi costituivano un modo per redimersi dai propri peccati. Le ingiustizie che subìvano erano molte: spesso non potevano neppure avere alloggio negli asili di una stessa città per due notti di fila, pena la forca. Il povero era isolato: non aveva nome, né documenti, e anche dopo la morte era separato dagli altri, in fosse comuni. Ma riceveva nello stesso tempo asilo e aiuti da ospedali, confraternite e corporazioni. I mercanti istituirono il “conto di messer Domeneddio”, che raccoglieva le elemosine concesse ai poveri. Oltre alle singole corporazioni, che prevedevano sostegno e assistenza in favore dei membri in difficoltà, i poveri erano anche ricordati nei lasciti testamentari: non c’era miglior mezzo infatti per espiare i propri peccati.

Penso ora a ciò che succede nel presente. Anni luce lontano dal Trecento, sembra. Eppure, i mendicanti che supplicano per pochi euro, che giacciono ai lati delle strade, scansati dai passanti, raccontano un’altra storia. Il modo in cui essi sono oggi trattati è così diverso da quello del Trecento? Di sicuro c’è una maggior sensibilizzazione nei loro confronti: non sono più considerati malvagi o cacciati con brutalità dalle città. Ma se nel Trecento essi erano anche sofferenti da aiutare, anche solo per la salvezza della propria anima, ora non è più così: i più poveri ed i mendicanti guardano dal basso della loro posizione i passanti, che, il più delle volte, li ignorano, imbarazzati dalla sporcizia e dalla ripugnanza in cui vivono, ma troppo lontani dalla loro realtà per allungare una mano in loro aiuto. Certo, le organizzazioni umanitarie tentano di rendere le loro condizioni più sopportabili, ma la maggior parte delle volte questo non è sufficiente. Nel Trecento, benché l’obiettivo fosse puramente egoistico, un aiuto veniva fornito anche dalle persone comuni.

Ed allora io mi domando: possibile aver fatto un passo indietro rispetto ad un’epoca in cui gli ebrei e i lebbrosi erano accusati e perseguitati perché considerati gli untori che diffondevano la peste?

La concezione della morte dopo il ‘300

«A peste, fame et bello, libera nos, Domine» [oh Signore, liberaci dalla peste, dalla fame e dalla guerra]: era questa la principale invocazione che durante il XIV secolo il popolo di tutta Europa aveva elevavato a Dio.

Agli inizi del Trecento le città europee e i comuni italiani avevano raggiunto un grado abbastanza alto di prosperità: nacquero società commerciali di importanza internazionale, si svilupparono nuove attività manifatturiere, vi fu quindi un periodo di maggiore sviluppo economico, con aumento della produzione agricola e un notevole incremento demografico. Ma questo benessere finì presto.
Infatti, il XIV secolo fu caratterizzato da una profonda crisi economica, sociale e politica. Ci furono forti cambiamenti climatici (intere annate di pioggia, stagioni sempre o troppo fredde o troppo umide o troppo secche) che provocarono numerose carestie. Queste portarono all’indebolimento della popolazione, che divenne più esposta alle epidemie, in particolare di peste, che dal 1348-1349 fino ai primi decenni del Quattrocento colpirono quasi tutto il continente, con un conseguente crollo demografico.
Ed è proprio delle conseguenze della peste che voglio parlare, in particolare della diversa concezione della morte che essa presentò.

Durante quasi tutto il Medioevo la morte era vista come un traguardo a cui aspirare ed era attesa con la tranquilla, rassegnata consapevolezza della fine. Essa, per altro, cristianamente intesa, non era una cosa di cui dolersi: numerose testimonianze dimostrano che la morte era una fine attesa ardentemente o addirittura invocata (si basti pensare al “Cantico delle creature”, in cui San Francesco esprime la sua lode a Dio per la nostra fine terrena). Tuttavia, a partire dal Trecento, accanto a questa idea “consolante” della morte ne apparve lentamente un’altra.

L’elevata mortalità dovuta all’epidemia di peste rese l’approccio con l’idea della morte molto diverso. La vita troppo breve ed il timore della malattia spinsero gli uomini ad essere amareggiati nel dover abbandonare l’esistenza, a considerare quindi l’età che passava come una punizione: iniziarono a sentire così la necessità di vivere al meglio ogni momento, di godere delle gioie della vita. Col maggior diffondersi della peste in Europa, questo nuovo amore per l’esistenza terrena si faceva sempre più forte, portando di conseguenza orrore per la morte ed rimpianto per la vita.

Una visione, quindi, di paura per la vita dell’aldilà, di rimpianto per l’esistenza corrente, ma comunque di piena coscienza dell’inevitabilità della fine terrena. Tuttavia, pur assumendo un nuovo terribile aspetto, pur essendo considerata come una tragedia misteriosa (per la rapidità e la brutalità con cui arrivava), la morte divenne anche una presenza costante, un fatto di tutti i giorni: era diventata familiare. Infatti gli artisti (dando il via a una vera e propria arte macabra) presero a rappresentare nelle loro opere vivi e morti gli uni accanto agli altri, esprimendo in tal modo la fragilità dell’esistenza e la consapevolezza della morte.

E al giorno d’oggi la nostra concezione della morte qual è? È mutata rispetto a questa? O anche noi proviamo veramente paura della morte?
Ma indipendentemente dal nostro pensiero, credo che sia fondamentale sottolineare una cosa, che gli europei del Trecento avevano ben capito e che forse noi oggi a volte dimentichiamo: la vita è una e breve e, quindi, va vissuta al meglio, tra gioie e dolori.

La peste nera: di chi è la colpa?

Trionfo della Morte
Trionfo della morte, già a palazzo sclafani, galleria regionale di Palazzo Abbatellis, palermo (1446) , affresco staccato

Tra il 1347 e il 1348 la gente cominciò a morire di peste in modo rapidissimo. Gli uomini del tempo ritenevano il contagio manifestazione della collera divina e, come in tutte le stragi e le epidemie, il pensiero della morte si faceva sempre più presente nella vita dei cittadini. In questa atmosfera nasceva così l’esigenza di riuscire ad esorcizzare la paura della morte, che colpiva spesso in maniera improvvisa e brutale amici e familiari. Molti erano coloro che approfittavano del disagio comune per improvvisarsi indovini e stregoni e vendere filtri magici, unguenti e portafortuna, a loro detta in grado di allontanare il flagello della peste. Ma ciò non bastava. Come sempre a fronte delle grandi calamità della Storia, si sentiva il bisogno di attribuirne la causa a un popolo o a una comunità di persone, che fungevano appunto da “capro espiatorio”. La colpa questa volta ricadde sugli ebrei e sui lebbrosi. Indicati come “agenti di Satana”: erano accusati di inquinare le acque e avvelenare l’aria.
Ma perché prendersela proprio con gli ebrei?
Per capire, bisogna cercare l’origine dei conflitti tra cristiani ed ebrei. I giudei erano considerati innanzitutto gli “uccisori” di Cristo, in quanto questi fu giudicato e condannato da un tribunale ebraico. Le cose andarono poi peggiorando con il pontefice Urbano II durante le spedizioni delle crociate, quando il cristianesimo cominciò a essere ostile non solo all’islamismo, ma anche alle altre religioni con le quali era venuto in contatto.
Vi erano ovviamente anche motivazioni socio-economiche: gli ebrei svolgevano quelle attività finanziarie, come il prestito di denaro a interesse, che la chiesa riteneva moralmente sbagliate, ma che permettevano loro di esercitare una grossa concorrenza nei confronti dei mercanti e degli artigiani europei. Spesso gli stessi nobili si trovavano in difficoltà con il pagamento dei debiti e risultava comodo in quei casi un odio “strumentale” nei confronti degli ebrei. Dal 1347 quindi questo popolo si trovò flagellato sia dalla peste, sia dalle persecuzioni cristiane. Gli ebrei erano in poche parole “diversi” e risultava facile mettere il popolo contro di loro.
Ciò che però mi sembra importante cercare di capire è il perché sia necessario attribuire ingiustamente a una categoria ben precisa di persone la responsabilità della malattia. Spesso, come accadde anche nel XVII secolo con la peste di Milano, la necessità di un capro espiatorio, in quel caso i famosi “untori”, era finalizzata a nascondere la responsabilità di qualcun altro come lo stato, che aveva cercato di fingere che tutto andasse bene. Ma non credo che nel Trecento fosse ben chiaro chi avesse per primo sparso il contagio, quindi probabilmente il motivo era un altro. Dopo che la chiesa considerò eretiche le pratiche di stregoni e indovini, la gente si trovò “sola” a combattere per la propria vita e il pensiero della morte si faceva più vicino ogni volta che essa colpiva parenti e familiari. L’uomo si è da sempre sentito impotente nei confronti della natura e d’altronde è così, ma ciò era difficile da accettare. E’ difficile ammettere che l’unica cosa possibile è affidarsi alla provvidenza, quando si vedono persone care morire davanti ai propri occhi. Tutto ciò che sembrava lontano appare incredibilmente vicino e possibile. Ecco perché la necessità di un capro espiatorio: per cercare di ridurre un pericolo inarrestabile a una causa concreta che può essere sconfitta. La cosa è di certo poco razionale ma del resto, scrive anche un maestro yoga orientale: “La più sottile di tutte le afflizioni è l’attaccamento alla vita: anche l’uomo saggio ne è toccato”.