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La ghigliottina, la pena di morte “umanitaria”

Era il 1791 quando l’Assemblea Costituente francese approvò la proposta presentata dal dottor Joseph-Ignace Guillotin circa due anni prima: “ogni condannato a morte avrà la testa tagliata”.
Precedentemente questo era un “privilegio” destinato solo ai condannati aristocratici, che venivano decapitati, a differenza del popolo, della gente comune. Infatti, fino all’approvazione della proposta, i criminali erano generalmente messi a morte sul rogo, con il supplizio della ruota o tramite impiccagione.
Tutti questi tipi di esecuzioni rispondevano al significato che la mentalità dell’antico regime attribuiva alla pena di morte: essa doveva essere occasione di espiazione per il criminale; dunque doveva consistere in un supplizio corporale (un vero e proprio tormentoso cerimoniale, una tortura) che si concludeva quasi sempre con l’esecuzione capitale (o, in pochi casi, con la morte per agonia, per dissanguamento, …). Era quindi strettamente necessario che la pena di morte non apparisse come una semplice privazione del diritto alla vita: il condannato doveva morire mediante una serie di sofferenze, che erano commisurate alla gravità del reato che aveva commesso.
Fu grazie all’Illuminismo e alla Rivoluzione Francese che nacque l’idea che le pene corporali (la tortura pre-esecuzione) dovessero essere sostituite con la detenzione in carcere, e che la morte dovesse avvenire nel modo meno crudele possibile. Da qui l’origine della proposta del dottor Guillotin. Egli si rifiutò però di aiutare l’Assemblea nella soluzione pratica, che prevedeva la costruzione di una “democratica” macchina dispensatrice di morte.
Fu dunque chiesto aiuto al dottor Antoine Louis, segretario perpetuo dell’Accademia di Chirurgia: egli scrisse una relazione su come dovesse essere costruita la macchina, che riporto qui di seguito:

«Il paziente poserà la testa su un ceppo di otto pollici di altezza, quattro di spessore, e uno di larghezza. Coricato sul ventre, avrà il petto sollevato dai suoi gomiti e il suo collo sarà senza disagio nell’incavatura del ceppo. Posto dietro la macchina, l’esecutore allenterà i due capi che sostengono la mannaia e farà cadere dall’alto lo strumento che, per il suo peso e per l’accelerazione della velocità, separerà la testa dal tronco in un batter d’occhio.»

Il lavoro manuale fu infine assegnato a Tobias Schmitt, un fabbricante di pianoforti tedesco che si aggiudicò la contesa con un carpentiere, Guidon, il quale aveva richiesto una retribuzione di 5660 livres, giustificandosi con il fatto che si trattava di un’ opera sgradevole da realizzare. Il preventivo vincente fu di sole 960 livres.
La realizzazione richiese una settimana circa. La ghigliottina fu inaugurata dall’esecuzione di un criminale comune, ma venne utilizzata successivamente soprattutto per nemici politici; la macchina mantenne sede fissa presso la zona del Carrousel (anche se l’idea iniziale era quella di erigere il patibolo dove il crimine era stato commesso).

esecuzione di Maria Antonietta
Esecuzione di Maria Antonietta il 16 ottobre 1793

Limpieza de sangre: esempio di persecuzione contro gli ebrei

Nel Duecento in Spagna incominciò la Reconquista, ossia la riconquista cristiana dei territori iberici occupati dai musulmani.
Dopo quasi tre secoli di combattimenti la guerra santa indetta da Innocenzo III finì nel 1492 con la caduta dell’ultimo presidio musulmano in Spagna, la roccaforte di Granada.
La vittoria cristiana diede però inizio a una serie di persecuzioni contro gli ebrei.
Le intolleranze incominciarono alla fine del XIV secolo con semplici seccature amministrative, diventando poi veri massacri nel 1391, quando intere comunità ebraiche furono uccise a Barcellona, a Valencia e a Siviglia dalla popolazione perché considerate responsabili della carestia e delle conseguenti epidemie.
Nel XV secolo i sovrani smisero di proteggere gli ebrei.
Con la fine della Reconquista alla fine del XV secolo la persecuzione diventò espulsione: nell’aprile del 1492 Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona imposero a 200.000 ebrei di lasciare il regno entro il 1° di luglio.
Gli ebrei dovettero lasciare tutti i loro averi o barattarli con altri oggetti, poiché non potevano uscire dal regno con denaro contante; solo i più esperti barattarono i propri averi con titoli validi in tutta Europa.
Nel XVI secolo le persecuzioni si spostarono su tutti quelli che avevano anche solo un antenato ebreo: si riteneva avessero ereditato con il sangue l’odio per Gesù Cristo.
Dal 1540, per molte cariche pubbliche e religiose, divenne obbligatorio dimostrare la “purezza di sangue”, la limpieza de sangre appunto, attraverso una certificazione che assicurasse, risalendo fino ai nonni, l’assenza di antenati ebrei. La limpieza de sangre è il primo esempio di persecuzione degli ebrei non fondato su appartenenza religiosa, ma razziale, che avrà la massima eco nel XX secolo, dove produrrà gli effetti peggiori.
Il razzismo ebbe effetti negativi anche per la Spagna: con gli ebrei, perse un’elitè borghese che faceva girare l’economia spagnola e dava un notevole contributo alle casse dello Stato.
Il rispetto per le differenze è indispensabile in una società civile ed è l’unico modo per vivere insieme nel modo migliore.

Una carica prestigiosa: il doge di Venezia

palazzo ducale (Venezia), antica residenza dei dogi di Venezia
palazzo ducale (Venezia), antica residenza dei dogi di Venezia

Con il titolo di doge (voce veneta equivalente a “duca”, dal latino dux, capo, comandante) veniva indicato, a partire dal VIII secolo, il magistrato incaricato di governare Venezia.

Verso il X secolo il doge si trasformò in una specie di monarca elettivo, eletto appunto dagli esponenti dell’oligarchia patrizia secondo una procedura molto lunga e complessa che aveva lo scopo di evitare scorrettezze da parte di qualunque persona. Col passare degli anni i dogi videro diminuire i loro poteri; questo però non precluse loro la magnificenza esteriore, sia nei cerimoniali sia nelle dimore e nelle vesti sontuose.

La carica di doge era molto ambita soprattutto per il suo valore simbolico e per il l’importanza che donava alle famiglie aristocratiche; l’immensità, la bellezza, lo sfarzo e tutto quello che circondava le varie cerimonie dogali spingevano tutti quei nobili che erano decisi a lasciare un segno, ad essere qualcosa di più che di un “semplice nobile”, ad aspirare alla carica di doge. Ma nonostante tutta questa importanza quella del doge era una carica molto costosa perché il doge stesso era chiamato e obbligato ad auto-mantenersi in modo pesante e questo precludeva alla maggior parte dei cittadini di Venezia la possibilità di aspirare a questa carica, limitandola solo ai membri dell’aristocrazia ricca.

A seconda dei tempi e delle situazioni il doge agiva da condottiero o da supremo notaio. Per cui si può solo dire che sempre all’interno dell’ordinamento politico vi erano una serie di disposizioni che limitavano pesantemente le prerogative del doge e perfino la sua stessa vita quotidiana: la funzione del doge era principalmente quella di rappresentante ufficiale di Venezia nelle cerimonie pubbliche e nelle relazioni diplomatiche con gli altri stati e di mostrarne la regalità pur senza regnare. L’unico potere effettivo che non fu mai sottratto al doge fu quello di comandare la flotta e guidare l’armata in tempo di guerra. Per il resto egli si limitava a sedere a capo della Serenissima Signoria, che era il supremo organo di rappresentanza dei sovrani di Venezia, e presiedere con essa a tutti i consigli della Repubblica, nei quali però il suo voto non aveva più valore di quello di qualunque altro membro.

Il doge aveva anche acquisito sin dalle origini connotazioni religiose, molto astratte fino all’arrivo delle spoglie dell’evangelista Marco a Venezia, nel 828. All’arrivo delle spoglie corrispose anche la costruzione della basilica di San Marco, cappella palatina e chiesa di Stato. Da questo momento in poi il doge divenne a tutti gli effetti Capo della Chiesa di San Marco. Nonostante questo titolo ci furono molte discussioni sul ruolo del doge all’interno della Chiesa stessa poiché al Concilio di Trento venne stabilito che non era un vescovo e nemmeno un principe. Infine, però, furono modificati i decreti conciliari per consentire al doge di partecipare alle cerimonie con gli stessi onori di vescovi e principi.

Atatürk: il padre dei Turchi

Atatürk
Dopo la prima guerra mondiale la Turchia era un paese sconfitto e occupato dalle potenze straniere, intenzionate a smembrare l’Impero ottomano. Le condizioni di pace furono durissime: l’obiettivo era quello di annientare la Turchia. Il sultano Maometto IV e i suoi ministri si sottomisero alla volontà dei vincitori; tuttavia non tutti si rassegnarono: nell’esercito, forti anche dell’appoggio della popolazione,  numerosi ufficiali erano contrari alla politica servile e succube. Fra questi vi era anche Mustafà Kemal, futuro Atatürk, che riuscì ad evitare una terribile sorte al suo paese.
Così il 15 maggio 1919, i Greci, sostenuti dagli Alleati, occuparono l’importantissima città di Smirne. Questa invasione fu considerata da tutti i cittadini turchi un terribile affronto a cui non si poteva restare inermi. L’evento coincise con la partenza di Kemal verso l’Anatolia, luogo dove doveva essere sovrascritto l’accordo di disarmo delle truppe ottomane.
Il sultano mai si sarebbe immaginato che un o dei suoi migliori generali gli si sarebbe rivoltato contro e avrebbe organizzato una resistenza interna. Dopo aver rassegnato le dimissioni dall’esercito, Kemal si ribellò all’annunciato smembramento del paese. Gli obiettivi erano l’indipendenza e la sovranità della nazione.
Nel marzo 1920 Kemal riunì un’assemblea nazionale di cui divenne il primo presidente. Ormai era evidente che  in Turchia c’erano due poteri, e che una guerra civile tra i nazionalisti di Kemal e il governo del sultano, oltre a una guerra d’indipendenza contro gli stranieri invasori (Greci, Inglesi, Francesi) erano inevitabili.
Nel 1922 i Kemalisti riuscirono ad avere la meglio, entrarono in Smirne e trattarono con gli alleati occidentali.
La Turchia venne riconosciuta libera, sovrana e indipendente. Il 29 ottobre 1923 in Turchia venne proclamata la Repubblica e Kemal ne divenne il primo presidente. Il suo prestigio aumentò esponenzialmente: fu rinominato Atatürk, il “padre dei Turchi”.

Il neopresidente iniziò subito un intenso programma di riforme per far entrare la Turchia nella civiltà.
Le sue idee-forza erano il nazionalismo, il populismo, il riformismo, il laicismo, il repubblicanesimo e lo statalismo, e considerando queste mise mano in tutti i settori: istituzione,diritto, religione, istruzione, costumi, vita quotidiana.

Per quanto riguarda la religione, secondo Atatürk uno Stato civilizzato è innanzitutto uno Stato laico, per questo liberò in grande misura l’islam dalla Turchia, abbandonado la legge religiosa per una legislazione  di tipo  occidentale, non considerando più l’islam la religione di Stato, e sopprimendo il sultanato e il califfato. Anche la società e la cultura vennero laicizzate. Venne eliminata la poligamia, le donne ottennero gli stessi i diritti di voto e di uguaglianza in materia ereditaria, l’insegnameto religioso lentamente scomparve. Infine si avvicinò decisamente alla cultura occidentale, sostituendo i caratteri arabi con quelli latini, il calendario dell’egira con quello gregoriano, e il giorno di riposo del venerdì con la domenica. Anche lo spazio venne unificato tramite una rete ferroviaria di ultima generazione di 2800 chilometri.

Atatürk attuò anche numerose  riforme ecomomiche, con il fine di porre fine all’arretratezza e avviare una politica di industrializzazione. Dopo anni difficili per le guerre (la prima guerra mondiale e quella di indipendenza) e l’indebitamento dello stato, la ripresa economica era compromessa.
Inizialmente la politica fu di tipo liberista, con solo un contributo iniziale dello stato all’industria. Tuttavia la crescita, per la forte concorrenza, rimase debole. Con la crisi del 1929 l’economia fu colpita duramente. I dirigenti kemalisti cambiarono orientamento, indirizzandosi verso il protezionismo e il dirigismo (politica di intervento dello stato nelle vicende economiche).
La Turchia così riuscì a diventare meno dipendente dall’estero e a risollevare l’economia, anche se non ci fu un vero e proprio Boom.
Le riforme necessariamente suscitarono resistenza sia nello stesso ambiente di Atatürk, sia fra il popolo. Soprattutto in Anatolia scoppiò una rivolta curda (popolo che ancora adesso non accetta la sovranità turca), in nome della difesa dell’islam. Kemal ne approfittò e ottenne il controllo della stampa e il totale potere giudiziario. La giustizia divenne del tutto arbitraria, i tribunali sommari. Fino al 1929 si contarono 7500 arresti, 600 esecuzioni. Dopo pochi anni non vi era più alcuna opposizione organizzata.
Ma di che natura era il governo kemalista? Dittatura o democrazia? Dittatura senza dubbio. Anche se siamo lontani dal totalitarismo, in quanto non cercò mai di irregimentare la società, (non istaurò né organizzazioni giovanili, né milizie) Atatürk ebbe fino alla sua morte poteri quasi illimitati.

Atatürk è tuttora oggetto in Turchia di un vero e proprio culto. L’insulto alla sua persona è un reato, e il preambolo della Costituzione della Repubblica turca è dedicato a lui: «Il capo immortale e l’eroe senza rivali» (Preambolo della Costituzione della Repubblica Turca)

Francesco Mastrogiovanni

Giovanna d’Arco

Ritratto di Giovanna d'Arco


Fra il 1337 e il 1453, la Francia e l’Inghilterra si affrontarono nella famosa guerra dei Cent’anni, causata da problemi di eredità del trono dopo la morte del re francese Carlo IV. Infatti il re inglese, il parente maschio più prossimo, perché figlio di Isabella (la sorella di Carlo IV) rivendicò il trono, ma i francesi gli preferirono Filippo IV di Valois, la cui parentela era meno stretta, ma in linea maschile, come previsto dalla legge salica. La guerra in un primo momento vide la netta supremazia degli inglesi, testimoniata da diverse vittorie come ad esempio quella di Calais. Ormai la Francia sembrava spacciata, anche perché ci furono diversi scontri interni anche fra concittadini causati dal malcontento per l’andamento fallimentare della guerra. Fortunatamente nel 1415, grazie al grandissimo apporto di Giovanna d’Arco, l’inerzia della guerra cambiò.

Giovanna d’Arco nacque verso il 1412 nel villaggio di Domrémy, un paesino sulla Mosa ai confini fra la regione della Champagne e quella della Lorena. Viveva in una famiglia numerosa dedita all’agricoltura e, come la maggior parte delle persone di questa classe sociale, non sapeva né leggere né scrivere.

Nell’estate del 1425, all’età di tredici anni, cominciò ad udire delle voci da lei attribuite all’arcangelo Gabriele e alle sante Margherita e Caterina. Sin dall’inizio le fu comunicata la sua missione: era stata scelta da Dio per salvare la Francia e aiutare il Carlo VII, erede legittimo al trono. Da quel momento Giovanna cominciò a passare gran parte delle sue giornate a pregare e a confessarsi.

Una sera, quando tornò dopo un pomeriggio passato nei campi, scoprì che il suo villaggio fu invaso dagli inglesi. Perciò egli si nascose in una credenza e assistette alla morte della sorella diciottenne, violentata e uccisa da alcuni soldati. Giovanna venne quindi mandata a vivere dagli zii in un villaggio vicino.

Dopo aver lasciato per sempre l’unica casa che avesse mai conosciuto, spinta dalla chiamata divina, Giovanna si recò a Chinon per incontrare il re Carlo VII che furono informati riguardo le visioni della ragazza. In un primo momento, il re nutrendo dei sospetti sulle sue intenzioni, incaricò il suo migliore arciere di prendere il suo posto sul trono. Arrivata al castello, Giovanna si accorse dello scambio e lo rivelò apertamente, suscitando lo stupore del re che le concesse un colloquio privato. La donna, disse a Carlo che sarebbe stato incoronato a Reims e avrebbe scacciato gli Inglesi dalla Francia ed infine gli chiese espressamente di organizzare l’assedio alla città d’Orléans

Convinto dalle premonizioni di Giovanna, Carlo la mise a capo di un esercito con il quale raggiungere la vittoria sugli inglesi e assicurare la città di Reims per l’incoronazione.

Giovanna si presentò sul campo di battaglia con indosso un’armatura bianca e con un proprio vessillo. L’apparizione impressionò profondamente entrambi gli eserciti, non abituati a vedere una donna impegnata nei combattimenti. La Pulzella d’Orléans condusse alla vittoria i francesi, motivati dalla loro carismatica condottiera. Ma la caparbia Giovanna, determinata a sferrare un altro attacco, radunò nuovamente le truppe per liberare per sempre la città di Orléans dalla dominazione inglese. Nonostante il grande sforzo per l’attacco finale, i francesi fallirono nel loro tentativo e si dovettero ritirare, anche perché Giovanna venne colpita da una freccia nel petto.

Nonostante questo, gli eserciti francesi continuarono a trionfare sugli inglesi, sempre più indeboliti, ma Giovanna iniziò a provare un grosso senso di colpa scaturito dalla carneficina di vite umane sacrificate per questa guerra. Perciò la Pulzella contattò il re d’Inghilterra tramite una lettera proponendo loro di ritirarsi.
Come per miracolo il re accettò la proposta. Si trattò di una vittoria sorprendente che consentì l’incoronazione di Carlo a Reims, proprio come Giovanna aveva predetto.

Una volta incoronato, Carlo VII sembrò pienamente soddisfatto, ma on altrettanto Giovanna, che decise di continuare a combattere nonostante le sue truppe, ridotte ormai da varie migliaia a poche centinaia di uomini, erano stanche e affamate. Diverse persone informarono Giovanna che non soltanto Carlo aveva abbandonato l’intenzione di fare una guerra, ma stava pianificando un modo per tradirla. La giovane però non ascoltò nessuno perché si sentiva obbligata a continuare a combattere con determinazione fino a quando le “voci” non le avessero ordinato altrimenti.

Contro ogni parere , la Pulzella fa spedita dal re verso Compiègne dove ebbe luogo una battaglia durante la quale venne fatta prigioniera dai cavalieri del duca di Borgogna.

Abbandonata da tutti, Giovanna venne accusata di eresia e di stregoneria ed ebbe quindi inizio il processo per dimostrare che era una strega. Più e più volte le vennero poste domande sulle sue visioni e sulla sua fede nella Chiesa Cattolica.

Poco prima che il processo si concludesse, venne chiesto alla Pulzella di rinunciare alle sue vecchie aspirazioni e di giurare di non indossare più armi o abiti maschili, pena la morte sul rogo. Giovanna accettò e così fu solo condannata alla prigione a vita. All’ultimo momento, però, la giovane donna si rifiutò di sottomettersi al giudizio di una corte inglese e questa sua decisione fece di lei un’eretica destina a morte certa.

Nel maggio del 1431, Giovanna d’Arco venne bruciata sul rogo nella piazza del Mercato Vecchio di Rouen.
Giovanna d’Arco fu una donna molto importante per la storia Francese, poiché diede un grosso contributo alla liberazione della Francia dagli invasori inglesi. Molti studiosi mettono in dubbio le sue molteplici visioni religiose, ma comunque tutti sono d’accordo sul grande coraggio che ha messo in campo e che ha dato quella motivazione in più utile ai soldati francesi per combattere al meglio per la propria patria.

La caduta di Costantinopoli

Benjamin Constant: Maometto II entra in Costantinopoli con il suo esercito.
Benjamin Constant: Maometto II entra in Costantinopoli con il suo esercito.

Durante la mattina del giorno 29 maggio 1453, il sultano turco Maometto II ordinò alle sue truppe di scagliarsi contro la città di Costantinopoli. L’inizio di questo aspro scontro era già cominciato alla fine dell’anno 1452, quando il capo della spedizione turca aveva mandato da Adrianopoli a Costantinopoli la dichiarazione di guerra. All’inzio di settembre Maometto giunse nella città con una schiera di circa cinquantamila uomini armati, affinché riuscissero a verificare la forza delle difese, mentre sul mare la flotta attraversava le acque del Bosforo.

Il ricco sultano aveva chiamato un uomo specializzato nella costruzione e nella fusione di bombarde, l’ungherese Urban. Dopo aver ricevuto una grossa somma di denaro iniziò a fabbricare l’arma da guerra, capace di abbattere contemporaneamente i tre ordini di mura di Costantinopoli, considerate invalicabili.
Nel frattempo mentre l’imperatore Costantino XII chiedeva più volte al papato, ai governi italiani e ai sovrani dell’Europa occidentale di aiutarlo, iniziarono i lavori di rafforzamento della difese murarie e di perfezionamento del fossato che circondavavano la città.

Il 7 aprile del 1453 l’esercito turco diede inizio all’assedio mentre cinque giorni dopo arrivarono anche le imbarcazioni, predisposte a bloccare chiunque avesse tentato di trasportare rifornimenti sia alimentari sia militari all’esercito dell’imperatore Costantino XII.

I Turchi erano molto organizzati e disponevano di abbondanti risorse: possedevano un esercito efficiente, composto da circa centocinquantamila soldati, compresi diecimila “giannizzeri”, (truppe a piedi, forza strategica dell’esercito Ottomano) e una flotta imponente di circa centocinquanta navi da guerra. I Bizantini invece erano soltanto un decimo dei nemici, ed avevano l’aiuto di un piccolo gruppo di Genovesi e Veneziani; inoltre possedevano rispetto ai turchi circa un terzo delle loro imbarcazioni. Questi ultimi erano superiori ai Bizantini per la disponibilità delle armi da fuoco: il massiccio cannone realizzato da Urban infatti era capace di sparare persino proiettili del peso di quattro quintali.

Di fronte alla netta forza degli avversari, Costantinopoli reagì e dispose lungo l’imboccatura del Corno d’Oro una lunga catena dal veneziano Bartolomeo da Soligo. Il sultano Maometto impiegò di conseguenza migliaia di uomini per costruire in terraferma uno stretto passaggio fra il Bosforo e il Corno d’Oro, sul quale fece attraversare circa una settantina di biremi trascinate su tronchi di legno.

La sera del 28 maggio 1453 Maometto fece annunciare dagli araldi che avrebbe provocato la battaglia. Raggiunte le posizioni assegnate venne scatenato l’attacco: grazie ad un piccolo varco nelle mura, i soldati turchi penetrarono nella città e colsero di sorpresa i difensori. A mezzanotte il sultano, acclamato dai propri uomini, fece il suo ingresso nella città ormai distrutta. Il saccheggio, che durò all’incirca tre giorni vide omicidi ( anche quello di Costantino XII), stupri, spoliazioni di chiese e di palazzi. Morirono quattromila persone fra uomini donne e bambini e i restanti venti-venticinquemila furono catturati e in seguito venduti come schiavi.

La notizia dell’assedio di Costantinopoli si diffuse rapidamente in tutto il mondo, tanto da provocare sgomento e preoccupazione.

Socrate: il tafano di Atene

Busto di Socrate conservato nei Musei Vaticani
Busto di Socrate conservato nei Musei Vaticani

Una delle metafore più celebri che hanno per oggetto Socrate è quella, scritta nell’Apologia di Socrate e pronunciata dal filosofo stesso, del tafano: infatti Socrate era “il tafano che punzecchia la vecchia cavalla”, dove l’insetto era ovviamente il filosofo, mentre la vecchia cavalla era l’antica città di Atene.
Perchè paragonare un grande filosofo come Socrate ad un fastidioso insetto come il tafano?
Come ben sappiamo dalle principali fonti socratiche, Platone e Senofonte, Socrate pensava che la verità potesse essere scoperta solo attraverso il dialogo e la maieutica, aiutando le persone che interrogava a tirar fuori la verità.
Non a caso Socrate soleva paragonarsi a sua madre Fenarete, che per anni fu una brava e vigorosa levatrice: come Fenarete aiutava le gestanti a partorire i bambini, così Socrate aiutava le anime “gravide” a partorire la verità.
Inoltre Socrate affermava che così come le donne rimangono incinte dopo essersi accoppiate con un uomo, anche le anime per essere “gravide” devono prima accoppiarsi con un’altra anima, ossia mediante il discorso e il confronto orale.
Quindi Socrate camminava per le strade di Atene (rigorosamente a piedi scalzi), andando a interrogare gli uomini più importanti e le persone più erudite della città, chiedendo loro di spiegargli un concetto generale, che gli interrogati pensavano di conoscere a fondo, come coraggio, bellezza o virtù.
Arrivati alla fine del discorso Socrate riusciva sempre a dimostrare al suo interlocutore che questo non conosceva veramente il concetto a fondo, imbarazzando anche pubblicamente la persona.
Il filosofo divenne perciò un uomo scomodo, da evitare, a tratti fastidioso, ma non per antipatia, bensì per paura: le persone erudite avevano il terrore che Socrate sbriciolasse le loro certezze dimostrando la loro ignoranza su un argomento riguardo al quale si sentivano esperti.
Per questo motivo si soprannomina “il tafano”; ma non come un insetto visse e morì, bensì come un vero uomo: pensante, razionale e rispettoso delle leggi.
Rispetto per le quali portò un grande uomo ad una morte onorevole ma ingiusta.

Santa Caterina da Siena: una donna determinata, un contributo importante per la Storia della Chiesa

Santa Caterina da Siena
Baldassare Franceschini, Santa Caterina da Siena, XVII sec.

Santa Caterina da Siena (1347-1380) fu dichiarata dottore della Chiesa da papa Paolo VI, patrona principale d’Italia (assieme a San Francesco d’Assisi) da Pio XII e compatrona d’Europa da Giovanni Paolo II.

A soli sedici anni entrò a far parte del Terz’ordine domenicano delle Mantellate, dopo molto tempo passato in preghiera e in penitenza.

Caterina ebbe un ruolo decisivo nel ritorno a Roma della sede papale, trasferita ad Avignone dal 1309 al 1377, durante la cosiddetta Cattività avignonese.

Circa un anno prima, Caterina aveva cominciato la corrispondenza con il papa allora in carica, Gregorio XI, col quale scambiava opinioni riguardanti la riforma della Chiesa, insistendo fortemente per il suo ritorno nella sede scelta da Pietro.

Nel 1375, la repubblica di Firenze, che si trovava in conflitto con la Santa Sede, era per questo motivo in grave crisi economica e la donna fu incaricata di fare da mediatrice di pace col papato. Caterina quindi raggiunse la Francia e Avignone, dove fu ricevuta dal pontefice, col quale insistette nuovamente riguardo la questione della Sede papale. Finalmente, il 13 settembre del 1376, partirono tutti alla volta di Roma ma, arrivati a Genova, colpiti dallo sconforto per la notizia delle disfatte delle truppe pontificie mandate a riportare ordine alle rivolte scoppiate nella capitale, molti cardinali insistettero per tornare indietro. Ancora una volta l’intervento di Caterina, che riuscì a rassicurare Gregorio, fu decisivo e, dopo quasi settant’anni, la sede papale tornò al suo luogo originario.

Nonostante i disordini che ne seguirono, il ritorno del papa a Roma fu un avvenimento molto importante e, probabilmente, senza l’insistenza della Santa, non sarebbe mai avvenuto.

La sua determinazione l’accompagnò sempre nell’arco della sua vita. Grazie ad essa, infatti, riuscì ad entrare a far parte dell’ordine laico delle Mantellate molto giovane e senza una dote che potesse aiutare a mantenere il Convento. La sua forza le permise di lottare contro una grave malattia, si prodigò in numerosi atti benefici e, anche in punto di morte, si recò spesso a San Pietro a pregare incessantemente per l’unificazione della Chiesa, divisa dallo scisma.

Reputo Caterina da Siena una grande Donna, forte e determinata, animata da una fortissima fede che la portò al raggiungimento dei propri obiettivi. Una donna, insomma, degna di essere patrona del nostro Paese.

Crisi del Trecento: le cause

Il Trecento  fu un secolo caratterizzato da una profonda crisi sociale, economica e demografica. Le cause di questo profondo cambiamento furono principalmente tre: Il cambiamento del clima, la frequenza di guerre molto spesso represse col sangue e, il fattore più influente di tutti, la presenza e conseguente diffusione della peste.

Il primo fattore citato è il cambiamento climatico: cosa è successo?
All’inizio del Trecento c’è stato un peggioramento delle condizioni climatiche. Molti storici hanno definito questo periodo come la fine del “periodo caldo medievale”, il quale aveva permesso lo scioglimento dei ghiacci, la coltivazione della vite e abbondanti raccolti facilitati dalle piogge scarse e regolari. Nel corso di questo secolo, però, non c’è stato un notevole abbassamento del clima (in contrapposizione al caldo medievale), come ci si aspetterebbe, ma un consistente aumento delle piogge.

Secondo fattore è la numerosa presenza di guerre devastanti: esse si sono ripercosse su molti centri abitati, soprattutto sulle povere abitazioni dei contadini, che venivano depredate e distrutte.
Guerra di particolare rilevanza, di questo secolo, è quella che fu definita come “guerra dei cent’anni”, guerra che complessivamente durò 116 anni (1337-1453). In realtà non furono 116 anni ininterrotti di guerra, infatti, all’interno di questa ci furono numerose interruzioni e periodi di tregua che la divisero in tre fasi principali: la guerra edoardiana (1337-1360), quella carolina (1369, 1389) e quella dei Lancaster (1415-1429), alle quali si aggiunse alla fine la fase conclusiva della guerra (1429-1453).
Questa lunga guerra scaturì fra Regno di Francia e Regno d’Inghilterra per motivi di successione al trono.

Terzo e ultimo, ma non meno importante, fattore è la peste: come si era diffusa?

Sepoltura delle vittime della peste a Tournai – dettaglio di una miniatura da «Chroniques et annales de Gilles le Muisit», abate di Saint-Martin de Tournai, Bibliothèque royale de Belgique,

La peste è una malattia che gli uomini del tempo non riuscivano a spiegarsi, poiché non avevano abbastanza conoscenze a riguardo. È una malattia per cui uomini, donne, bambini (nessuno poteva sfuggire dalla malattia ad eccezione di chi “scappava” dal territorio) morivano numerosi ogni giorno. La peste che caratterizzò questo secolo fu definita “peste nera” (1347-1353) e si era diffusa dopo essere stata importata da commercianti asiatici che navigavano verso l’Europa. Il contagio era stato molto facilitato dalle scarse condizioni igieniche presenti nel territorio e dalla totale assenza di un sistema di fognature.
La popolazione, durante questi anni, subì dure conseguenze: un terzo della popolazione europea fu colpita da questa malattia, anche se non con la stessa intensità in tutte le zone. Infatti era possibile che alcune zone fossero fortemente colpite mentre in alcuni territori ad esso confinanti fossero rari i casi di contagio.

Il virus che sconvolse il mondo

Nel biennio del 1918-1919, quando ancora era tempo di guerra, si diffuse in tutta Europa un’influenza che fece circa 22 milioni di morti. Fu chiamata “spagnola”, perché si credeva provenisse dalla penisola iberica. In realtà ebbe origine soprattutto in Cina e Nord America e da, queste zone, fu portata in Europa. I lavoratori e soldati vivevano in condizioni misere e ciò favorì il diffondersi di epidemie. In Spagna, ci furono circa 8 milioni di contagiati.

I principali sintomi erano: tosse, dolori in gran parte del corpo, sonnolenza, febbre alta. Solitamente apparivano anche complicazioni polmonari, che tuttavia cessavano con la scomparsa della febbre dopo 3 giorni. Ma proprio l’abbandono del letto comportava una ricaduta fatale. La malattia si diffuse in Europa, Stati Uniti, India, Nuova Zelanda, Africa del Sud e Australia. Per questa malattia si ebbero anche manifestazioni di razzismo: a Varsavia le misure igieniche furono limitate al ghetto perché gli ebrei, secondo un decreto ufficiale, erano considerati “nemici dell’ordine e della pulizia”.

Un miliardo furono i contagiati, e gli stati in cui si registrò un maggior numero di morti furono Messico, Brasile, Russia, Italia, Inghilterra, Spagna e Francia, e in India ce ne furono ben 12 milioni.

Le cause della mortalità furono diverse: alta virulenza del virus, mancanza di antibiotici e le già cattive condizioni igienico-sanitarie della popolazione, e in particolare dei soldati.

Ospedale
Un auditorium usato temporaneamente come ospedale per l’influenza del 1918-1919.

Come in altre epoche storiche, comparvero superstizioni di ogni tipo: per esempio, negli Stati Uniti furono fucilati diversi medici accusati di essere spie Tedesche, poiché ritenuti responsabili del contagio, così come in Italia si credeva che l’influenza venisse diffusa dai netturbini attraverso il disinfettante sparso per le strade. La paura del contagio ebbe drastiche conseguenze: molti campi furono abbandonati, collegamenti ferroviari tra Berlino e la Svezia e tra Spagna e Portogallo furono interrotti. Ne risentirono soprattutto molte industrie.

Le contromisure consigliate dai medici furono vane. Furono chiusi i teatri, gli ippodromi, le sale da concerto, i grandi magazzini. L’unico rimedio veramente efficace fu sottovalutato dai medici: l’utilizzo di una mascherina protettiva per coprire bocca e naso.

Riccardo Cannistrà e Federico Minoldo