Archivi categoria: Storia

L’uovo di Colombo

Cristoforo Colombo
Ritratto di Cristoforo Colombo eseguito da Sebastiano del Piombo, 1519

Cristoforo Colombo, in seguito alle scoperte dei Portoghesi, pensò che potesse esistere un altro universo oltre a quello già riportato sulle carte geografiche. Questo sarebbe stato scoperto solo navigando verso Occidente.
Tuttavia la sua ipotesi venne criticata da molte persone, le quali sostenevano che quel mondo non potesse esistere. In seguito alla scoperta di Colombo gli stessi si dichiararono convinti che quella terra fosse già conosciuta e che quindi fosse stato un ritrovamento facile. Questi replicò alla loro critica mettendoli alla prova: chiese loro se fossero in grado di far stare in piedi un uovo. Nessuno ci riuscì. Allora Colombo ruppe l’estremità inferiore del guscio, dimostrando che in questo modo l’oggetto rimaneva in equilibrio. Così  Colombo fece capire ai suoi contestatori che anche le cose più semplici avevano bisogno di essere scoperte.

Il primo viaggio di Colombo fu davvero incredibile, tanto che egli stesso dovette affrontare molte paure comuni al tempo, la più grande partire attraverso l’ignoto. Per questa impresa era necessario possedere una profonda conoscenza del mare accompagnata da un forte senso di volontà e da una buona dose di coraggio.
Ci vollero circa quattro mesi prima della partenza. Vennero messe a disposizione tre caravelle, che furono ricordate nella storia col nome di Niña, Pinta e Santa Maria.

Continua la lettura di L’uovo di Colombo

Carestie nel XIV secolo

All’inizio del Trecento la popolazione europea era quasi triplicata rispetto due secoli prima. Purtroppo, la crescita demografica non fu accompagnata da uno sviluppo delle tecniche agricole. Così nei primi anni del XIV secolo si verificò un’ampia differenza tra la domanda e l’offerta di cibo. Questo fatto, unito ad alcuni anni di raccolti scarsi, provocò un periodo di carestia.
Le carestie ebbero due conseguenze molto rilevanti. Ci fu un grande aumento del tasso di mortalità ed un indebolimento delle difese immunitarie dei sopravvissuti. Si posero così le basi per la diffusione della peste nera di metà secolo.

Continua la lettura di Carestie nel XIV secolo

1917: La svolta della Prima guerra mondiale

Il 1917 fu un anno cruciale per gli sviluppi della prima guerra mondiale, principalmente per tre motivi: l’entrata in guerra degli Stati Uniti, l’uscita dalla stessa della Russia e la disfatta di Caporetto.

La lunga durata della guerra, iniziata nel luglio 1914, aveva causato un aumento delle difficoltà economiche per gli Imperi centrali (Austria e Germania), soprattutto per il blocco navale attuato dalla Gran Bretagna sin dall’inizio del conflitto. Perciò, a partire dal febbraio 1917, i Tedeschi intensificarono la guerra sottomarina, per bloccare tutti i rifornimenti ai paesi nemici e isolare economicamente la Gran Bretagna. Tuttavia gli Stati Uniti, già maldisposti verso la Germania per l’affondamento del transatlantico statunitense Lusitania nel maggio 1915, erano pesantemente danneggiati nei loro scambi commerciali con Francia, Italia e Inghilterra. Per questo motivo, il 6 aprile 1917, decisero di entrare nel conflitto al fianco della Triplice Intesa (formata da Francia, Gran Bretagna e Russia).

Intanto il 2 marzo 1917 lo zar russo Nicola II, in seguito alla cosiddetta Rivoluzione di febbraio, fu costretto ad abdicare. La monarchia zarista venne sostituita da una repubblica, il cui governo provvisorio decise di proseguire la guerra. Ma i Tedeschi riuscirono a penetrare nel territorio russo.
Con la Rivoluzione d’ottobre il potere fu assunto dai comunisti guidati da Lenin, che decisero di uscire dalla guerra. Le trattative di pace con gli Imperi centrali portarono all’accordo di Brest-Litovsk, il 3 marzo 1918.

In seguito alla crisi della Russia, l’Austria e la Germania poterono concentrarsi sul fronte italiano, sfondandone le linee a Caporetto (24 ottobre 1917). 400 000 uomini vennero uccisi o fatti prigionieri e il generale Cadorna, comandante dell’esercito italiano, fu sostituito da Armando Diaz.
Le ragioni militari della disfatta vanno ricercate in un’offensiva ben condotta da parte degli Austriaci e soprattutto nell’errata impostazione difensiva italiana.
La sconfitta fu causata anche da motivi più “umani”: i soldati erano infatti ormai logorati, nel fisico e nello spirito, dall’interminabile guerra di trincea, dalle angherie dei comandanti e dalla paura di morire.
La ritirata dell’esercito italiano fu caotica. Le truppe si arrestarono infine lungo la cosiddetta “linea del Piave”.

Una delle prime trincee scavate nell'argine destro del Piave nell'ottobre - novembre 1917
Una delle prime trincee scavate nell’argine destro del Piave nell’ottobre – novembre 1917

Impero e papato al tempo di Dante

Dante Alighieri
Sandro Botticelli, Ritratto di Dante, tempera su tela, 1495, Ginevra, collezione privata


Sui contrasti fra l’autorità laica (l’imperatore) e l’autorità religiosa (il papa) prese posizione anche Dante Alighieri (1265-1321).

La sua vita fu strettamente legata agli avvenimenti della politica fiorentina. Quando la lotta fra Guelfi Bianchi e Guelfi Neri si fece più aspra, Dante si schierò col partito dei Bianchi che difendeva l’indipendenza del Comune e si opponeva alle tendenze egemoniche di Papa Bonifacio VIII.

Le guerre intestine a Firenze, riflesso di quanto accadeva in Europa, portarono il poeta a elaborare una profonda riflessione sui rapporti tra papato e impero. A suo avviso la chiesa doveva essere esclusa da ogni intervento a finalità politica. Il suo unico compito doveva essere quello di guidare il genere umano alla vita eterna, dedicandosi alla cura delle anime.

Dante era, perciò, un vero e proprio sostenitore del potere imperiale e così, intorno al 1310, compose il De Monarchia, un trattato scritto in latino dove ribadiva il concetto di impero universale e quello della separazione dei poteri, già accennati nel Convivio e nella Commedia.

L’incipit con cui si apre l’opera riassume già il pensiero del suo autore:

“Due fini l’ineffabile Provvidenza ha posto dinanzi all’uomo come mete da raggiungere: la Felicità di questa vita, che consiste nella piena attuazione delle sue capacità, ed è raffigurata nel Paradiso Terrestre, e la Beatitudine della vita eterna, la quale consiste nel godimento della visione di Dio ed è raffigurata nel Paradiso celeste”.

Per Dante il fine ultimo dell’uomo è la felicità e Dio ha stabilito due somme autorità: il pontefice, che è la guida verso la felicità spirituale, ultraterrena, e l’imperatore, che è tutore della pace e della libertà. In tal modo l’imperatore e il pontefice appaiono come due autorità distinte e pienamente sovrane, ciascuna nel suo campo specifico di interesse, rispettivamente politico e spirituale.

L’imperatore, però, deve sempre al pontefice “quella riverenza che il figlio primo genito deve al padre”. In poche parole, papato e impero devono collaborare per garantire il pieno perfezionamento intellettivo e morale dell’uomo.

Dante con la sua idea di laicità dello Stato è un pensatore moderno e il suo contributo, rapportato al contesto storico in cui viveva, è stato di fondamentale importanza. La sua riflessione, sul tramonto del Medioevo, infatti, è un appello al rinnovamento e pone le basi alla rinascita del Quattrocento.

Concordo pienamente la critica rivolta da Dante al papato, in quanto è innegabile l’eccessivo e incessante desiderio di dominio da parte dei pontefici in quegli anni (e tuttora è evidente in alcuni casi l’interferenza dell’autorità religiosa in ambito strettamente politico), ma ritengo che, anche il ruolo giocato dagli imperatori il più delle volte fosse discutibile, poiché le loro pretese avevano spesso il potere di provocare disordini, confusione e indebolimento delle autorità civili, in particolar modo in Italia, dove le città erano dilaniate da lotte che vedevano parte dei cittadini schierati con l’imperatore e parte, invece, con il papa.

George Washington: il più grande presidente degli Stati Uniti

Geoge Washington

Se una persona si presentasse davanti a uno statunitense e gli chiedesse chi sia stato il più grande presidente degli Stati Uniti, risponderebbe immediatamente George Washington. Eppure coloro che lo conobbero rimasero delusi nel parlare con lui: infatti non era né brillante né intellettuale (Thomas Jefferson afferma che i suoi talenti erano mediocri e che non aveva grandi idee), in compenso era un accorto uomo d’affari (traeva molto profitto dalla sua piantagione a Mount Vernon).

Allora cosa ha reso quest’uomo così famoso in tutto il mondo?

Di certo le sua doti di uomo d’affari non furono le ragioni che lo resero famoso. In un primo momento uno potrebbe pensare che il motivo della sua fama siano le sue qualità in battaglia, ma analizzando a fondo i suoi combattimenti notiamo che non fu un grande condottiero come Alessandro Magno o Cesare, né i suoi successi militari si avvicinarono alla magnificenza di quelli napoleonici. Il genio di Washington va piuttosto ricercato nel suo temperamento, nella sua personalità: infatti fu il suo carattere di gentiluomo di campagna a farlo eccellere sugli altri; tale virtù, però, dovette coltivarla nel corso degli anni e questo fu ammirato da tutti i suoi contemporanei.

Fu in ambito politico, però, che Washington compì il suo gesto più eclatante. Il gesto che lo rese famoso fu dare le dimissioni da comandante in capo delle forze americane: dopo la firma del Trattato di pace di Versailles con la Gran Bretagna nel 1783, Washington sbalordì il mondo quando, il 23 dicembre dello stesso anno, consegnò la spada al Congresso e si ritirò nella sua fattoria a Mount Vernon. Fu un atto fortemente simbolico che segnò per sempre il suo destino. Avrebbe potuto diventare re o dittatore come ricompensa per il suo valore militare, ma decise di esprimere il desiderio di tutti i componenti della nuova nazione: tornare alle rispettive occupazioni in un “paese ormai libero, pacifico e felice”; la sua sincerità fu apprezzata da tutti.

Washington comprese che il gesto che aveva compiuto gli avrebbe fatto acquisire una fama istantanea. Una volta guadagnato questo lustro per i suoi valori morali, fu attento a non scialacquare gli onori ricevuti: trascorse il resto della sua vita cercando di proteggere la propria immagine pubblica in un modo che ai giorni nostri risulterebbe imbarazzante, ossessivo ed egoistico. Ma i suoi contemporanei capirono le sua ragioni: in quei tempi era normale che i gentiluomini usassero ogni mezzo per mantenere intatto l’”onore”, ossia la stima dei propri pari. Solo alla luce di questo valore si possono comprendere molte azioni di Washington dopo le sua dimissioni.

Nel 1787 fu convinto a recarsi a Filadelfia per partecipare alla stesura della Costituzione. Dopo l’approvazione del testo costituzionale, egli pensò di poter tornare alla vita tranquilla della sua piantagione a Mount Vernon, ma i suoi concittadini si aspettavano che diventasse il presidente del nuovo governo nazionale. Fu così eletto presidente nel 1789 e dimostrò di rimaner fedele ai suoi ideali: affermava infatti di pensare costantemente alle generazioni future, ai “milioni che non sono ancora nati”. Gettò le basi dell’autonomia presidenziale e rese il capo dello Stato la figura dominante del governo. Fin dal 1792 era intenzionato a ritirarsi per sempre a vita privata, ma i suoi consiglieri lo convinsero a rimanere per un secondo mandato. Nel 1796, però, Washington era così determinato a ritirarsi che nessuno riuscì a dissuaderlo.

Dopo la sua carica, la mentalità americana, per quanto riguarda le elezioni presidenziali, cambiò: infatti se i membri dei vari partiti (come quello repubblicano di Jefferson) presentassero come candidato “un manico di scopa” e lo chiamassero “figlio della patria” o qualsiasi altra denominazione per soddisfare le esigenze degli elettori, riceverebbero comunque “i loro voti in toto”. Ormai la gente votava per il partito, indipendentemente dal candidato. Nella nuova era dei partiti non importavano più l’influenza personale e il carattere. È per questo che il personaggio di George Washington conserva il suo valore di eroe intramontabile.

Il flagello della peste nera

Il basso Medioevo si chiuse con una catastrofe: la peste nera. A causa della violenza di questa malattia e alla rapidità di contagio, l’inefficacia delle cure, causò  la morte di numerose persone in tutta Europa. In Europa la peste nera si manifestò tra il 1348 e il 1352 e in soli quattro anni uccise tra i 20 e i 25 milioni di persone. Alcune importanti città come Venezia, Parigi e Londra persero numerosi cittadini. La peste colpì tutti: bambini, anziani, adulti..

Non essendo riusciti ad individuare né i portatori, né tanto meno la causa, i medici diedero una loro teoria a riguardo. Questa teoria era chiamata “aerea”, essi infatti credevano che l’aria fosse corrotta a causa di una cattiva congiunzione dei pianeti. Difatti i medici consigliavano di fuggire verso regioni più salubri, chiudersi in casa.. L’unica misura efficace contro il contagio da questa malattia era quella di distruggere con il fuoco tutto ciò che era venuto a contatto con il morto. Il credo era invece convinto che tutto ciò si trattasse di un Castigo voluto da Dio, e perciò contribuì al contagio, organizzando processioni, in cui le folle di fedeli si infettavano.

La peste rappresentò quindi un vero e proprio spartiacque, tra la vita “vecchia” e la vita “nuova”, poiché subito dopo provocò una forte crisi demografica e rese ancora più morboso l’atteggiamento degli umani nei confronti della morte. Il mondo che rinacque dopo la peste era dunque diverso: travolto dalla superstizione, oscurato dalla conoscenza della brevità della vita, pessimista e crudele, attaccato al potere e al denaro.

Uno dei maggiori autori italiani, Giovanni Boccaccio, inquadrò il Decameron, una delle sue opere più famose, nella cornice della peste.

“Gli stracci di un poveruomo appena morto erano talmente poco appetibili che furono gettati per strada e due maiali ci ficcarono subito dentro il grugno, com’è loro abitudine. Poi li afferrarono con i denti e se li strofinarono sul muso. Meno di un’ora dopo cominciarono a barcollare come se avessero preso un veleno, poi tutti e due crollarono morti sugli stracci in cui, per loro sfortuna, si erano imbattuti.”

Questa frase, tratta dal Decameron, dimostra quanto l’idea di contagio fosse stata immediatamente percepita fuori dagli ambienti medici.

La caduta di Costantinopoli e la rinascita

Nel luglio del 1452, il sultano ottomano, Maometto II dichiarò guerra a quel poco che rimaneva dell’ impero bizantino. Dalla sua base ad Adrianopoli cinquantamila soldati si mobilitarono verso Costantinopoli per studiare le difese dei bizantini.
Le difese dei cristiani infatti non erano cosa da poco. La grande capitale era munita da tre ordini di mura con altrettanti fossati per bloccare l’avanzata delle armate di terra. Invece per difendersi da forze marine, i bizantini avevano un originalissimo meccanismo sulle due sponde che, dopo essere stato azionato, alzavano da sott’acqua un’ enorme catena che si posizionava appena sopra il pelo dell’ acqua in modo da bloccare il traffico navale. Inoltre avevano anche una speciale arma: il fuoco greco. Era composto da una miscela di pece, salnitro, zolfo, nafta e calce altamente infiammabile che veniva lanciata sulle navi nemiche per incenerirle. Tuttavia, il sultano non si scoraggiò davanti ad una simile preparazione, e grazie ad un’ungherese specialista nella fusione dei cannoni, ottenne, nel gennaio del 1453, un’enorme bombarda in grado di abbattere le inespugnabili mura bizantine.

L'ingresso di Maometto II a Costantinopoli
L’ingresso di Maometto II a Costantinopoli

Ad aprile gli ottomani iniziarono l’assalto finale contro Costantinopoli. Le forze turche arrivavano a centocinquanta navi da guerra e millecinquecento uomini tra fanti e cavalieri, compresi diecimila Giannizzeri (i Giannizzeri erano le forze d’élite dell’esercito ottomano, in genere, oltre a combattere in guerra, seguivano il sultano ovunque, fungendo anche come guardie del corpo). Invece le forze cristiane arrivavano solo quaranta navi e a dieci/cinquemila unità di terra affiancate da qualche centinaio di Veneziani e Genovesi.
Mentre le mura si sgretolavano sotto i colpi dell’artiglieria turca, Maometto II trovò il modo di aggirare la catena che bloccava la sua flotta. Ordinò ai suoi uomini di far costruire sulla terraferma tra il Bosforo ed il Corno d’oro un passaggio sul quale far passare le navi per mezzo di fusti di legno ingrassati per poi dopo fare ritornare in acqua, ed in questo modo riuscì a far passare settantadue biremi.
Dopo il crollo delle mura iniziò lo scontro. I turchi si fronteggiarono contro i bizantini davanti alla porta di San Romano, dove il comandante Giustiniani fu ferito, causando sbandamento tra le truppe. Inoltre lo stesso imperatore Costantino XII, intento nello spiegare le insegne imperiali, fu sopraffatto e ucciso. Dopo che le forze bizantine furono letteralmente massacrate, iniziò l’ inferno per i cristiani: per tre giorni e per tre notti i turchi saccheggiarono quella che un tempo era la capitale dell’impero più potente, ricco e maestoso d’oriente. Non mancarono di certo stupri, omicidi, spoliazioni di chiese e di palazzi. I morti tra i civili furono almeno quattromila e i prigionieri furono venticinquemila, molti dei quali vennero poi venduti come schiavi.
La notizia della caduta di Costantinopoli si diffuse velocemente in tutto il mondo creando terrore e sgomento tra gli stati europei.

Ma gli ottomani non furono così brutali e assetati di sangue così come vennero descritti dai loro nemici.
Infatti in pochissimo tempo l’impero turco divenne l’impero più avanzato in ogni campo: nella tecnologia (sia per scopi militari che scientifici), nelle arti, nella scienza, nella cultura, nell’ economia.
Dopo la conquista degli ultimi territori bizantini, gli ottomani, desiderosi di porre come nuova capitale del loro impero Costantinopoli (diventata Istanbul), iniziarono subito a ricostruire la città. Negli anni successivi, il sultano cercò di mantenere il più possibile intatti gli edifici bizantini, pur continuando a influenzare la città con lo stile ottomano. La città nel giro di pochi decenni rinacque: la popolazione crebbe da quattromila a centomila abitanti, tra musulmani, cristiani ed ebrei. La gente si trasferiva in questa città venendo sia da est che da ovest, attratta da una capitale al centro dei commerci nota come il crocevia del mondo, all’interno di un impero che era tollerante delle diversità religiose e culturali non solo per tradizione, ma addirittura per legge.

L’Inquisizione spagnola

L’inquisizione arrivò in Spagna nel XV secolo come strumento totalmente nelle mani del re. Questa istituzione doveva svolgere il compito di emarginare fin da subito le deviazioni religiose attraverso il rogo o la prigione per evitare che queste si espandessero maggiormente.

In Spagna, in particolare, la religione fu un affare di Stato; infatti il Sant’Uffizio (così era inizialmente chiamato il tribunale) prendeva il nome dal compito che doveva svolgere, l‘officium santo: difendere la fede cattolica. In particolare indagava sugli ebrei convertiti per scoprire chi continuasse a praticare clandestinamente l’antica fede.

Dopo l’espulsione della minoranza ebraica, nel 1492, il Sant’Uffizio si mosse contro i moriscos, i musulmani convertiti di buon grado o con la forza che vennero perseguitati fino alla definitiva espulsione avvenuta all’inizio del XVI secolo. Il tribunale sradicò il protestantesimo spagnolo nel Cinquecento e nel Seicento per poi perseguitare i cristiani blasfemi.

L’inquisizione spagnola dipendeva da un inquisitore generale, nominato dal Papa su proposta del Re, a differenza dell’Inquisizione romana che dipendeva direttamente dal papa. I sovrani spagnoli usarono quest’arma senza scrupoli come un’autentica polizia politica al servizio della monarchia. Il primo e più famoso inquisitore, per il terrore che ispirava, fu Tomàs de Torquemada, un frate domenicano di Valladolid. Egli fu uno spietato funzionario politico: rovinò circa 114.000 famiglie e fornì il modello intransigente a cui si ispirarono i successivi inquisitori. I metodi utilizzati dall’Inquisizione verso eretici, streghe, nemici della fede cristiana prevedevano il ricorso alla tortura. La confisca dei beni degli imputati, che li privava di qualsiasi risorsa finanziaria, produceva una sicura «morte sociale» dei malcapitati. Ma i giudici utilizzavano soprattutto la prigione (solitamente a vita) che spesso era l’anticamera del supplizio. L’Inquisizione amava molto le esecuzioni pubbliche, con grande sfarzo. In Spagna erano chiamate autodafé: una sorta di atto di fede che il condannato doveva pronunciare pubblicamente. I condannati portavano sul capo un copricapo alto, diviso in due punte, chiamato “mitra” ed erano vestiti con una tunica gialla. Essi avanzavano in processione e venivano a lungo esortati a rinnegare i loro errori. Se acconsentivano, ottenevano di morire strangolati; se si ostinavano, venivano bruciati sul rogo.

Nonostante queste pene bisogna però ricordare che i giudici dell’Inquisizione erano dei tecnici del diritto molto competenti e scrupolosi, infatti, per esempio, nella città di Toledo i giudici rifiutarono di bruciare delle presunte streghe incolpate dell’adorazione del demonio quando la folla ne chiamava a gran voce la morte. Inoltre L’Inquisizione era un’istituzione unica nel suo genere poiché rifiutava di prendere in considerazione i vari privilegi personali e locali introducendo così un concetto di uguaglianza di fronte alla legge.

Come Giovanna d’Arco

Giovanna d'Arco
Jeanne d’Arc – Pittura, del 1485 circa, Centre Historique des Archives Nationales, Parigi

Rouen, 30 Maggio 1431: Giovanna d’Arco, eroina francese, protagonista indiscussa della guerra dei cent’anni viene arsa viva con l’accusa di eresia. Aveva diciannove anni. 7 Luglio 1456, la pulzella d’Orleans viene riconosciuta innocente. Le accuse cadono. 16 Maggio 1920: la giovane viene proclamata santa.

Ma come mai una ragazza della sua età diventò così importante e pericolosa da essere uccisa?

Quando la giovane rivoluzionaria, figlia di contadini, si presentò alla corte di Carlo, il delfino di Francia, sostenendo che Dio le avesse detto che era suo compito salvare la nazione, non furono in molti a crederle e fu solo dopo svariati interrogatori che il futuro re si decise, seppur con qualche rimostranza, ad affidarle un esercito. Quella fu probabilmente la miglior scelta che potesse fare, dal momento che in poco tempo la pulzella conseguì notevoli vittorie ottenute grazie al grande incoraggiamento che dava alle sue truppe, tra le quali la più famosa ad Orleans.
In seguito Carlo fu proclamato re a Reims e da questo momento iniziarono i problemi per Giovanna. La ragazza aveva ottenuto l’appoggio del popolo, ma nell’ambiente di corte era diventata ingombrante. Lo stesso Carlo VII non le affidò un altro esercito e quando venne catturata durante un attacco a Compiègne era praticamente sola. Fatta prigioniera dai Borgognoni venne presto venduta agli inglesi che la accusarono di eresia e stregoneria. Il re di Francia non mosse un dito per liberarla, sebbene sapesse che se la giovane fosse stata dichiarata eretica anche la sua posizione sul trono avrebbe vacillato. Il processo si aprì il 9 Gennaio 1431 e fu presieduto da due giudici ecclesiastici, il vescovo Pierre Cauchon e l’inquisitore Jean le Maistre, ma in realtà fu interamente guidato da un folto gruppo di teologi dell’Università di Parigi, che parteciparono al processo come assessori. Gli interrogatori a cui venne sottoposta puntavano a farle dire qualcosa che potesse essere indizio di eresia o stregoneria. Gli inquisitori volevano far crollare Giovanna e probabilmente pensavano che sarebbe stato un compito facile data la sua età e le sue umili origini, ma la pulzella rispondeva a tutte le domande con fermezza e con una punta di ironia. Quando furono letti all’imputata i settanta articoli di accusa, poté constatare che molti erano palesemente falsi, come l’accusa di bestemmia. Ma agli inquisitori non interessava altro che eliminarla. Chissà come avrebbero reagito sapendo che stavano chiamando strega una Santa?

La ragazza fece un appello al giudizio del Papa, che però venne respinto dal tribunale. La sentenza arrivò inesorabile e prevista: morte. Giovanna ricevette per l’ultima volta la Comunione e chiese che davanti al suo rogo fosse posta una croce di processione. Da notare è il fatto che per contrappasso una sua statua sia stata posta nella cattedrale di Winchester, dinnanzi alla tomba del Cardinale Beaufort, il quale ebbe un ruolo decisivo nel tragico processo.

La salvatrice di Francia era diventata troppo potente, troppo importante per rimanere in vita.

Per molti secoli è stata esempio di una grande condottiera, di tenacia e di forza spirituale; è stata ed è tutt’ora un modello per molte giovani che, come lei hanno deciso di non rimanere in disparte.