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Incontro con ONG Vento di Terra
Venerdì 16 Marzo abbiamo avuto il piacere di incontrare Massimo Annibale Rossi, membro della cooperazione internazionale “Vento di Terra”, che svolge la sua attività nei territori di frontiera con lo scopo di difendere i diritti umani e dell’ambiente.
La protagonista dell’incontro è stata la Palestina, terra martoriata nel corso della storia. La situazione in questo lembo di terra continua ad essere allarmante. Le origini del conflitto risalgono alla Prima Guerra Mondiale. Con la dichiarazione di Balfour del 1917, la Gran Bretagna dichiarò l’intenzione di destinare una porzione di questo territorio a tutti gli ebrei sparsi per il mondo e nella stessa Palestina. Questa dichiarazione però si scontrava con gli accordi presi con gli arabi (i britannici avevano promesso la Palestina a questi ultimi). Iniziarono così i primi atti di violenza ed opposizione fra popolazione araba ed ebraica. La situazione continuò a svilupparsi ed espandersi, tanto che oggi l’88% del territorio è in possesso di Israele.
Questo conflitto ha comportato l’isolamento e la frammentazione della popolazione palestinese, la privazione di diritti e una condizione di “senza patria”. Inoltre Israele impone pesanti restrizioni sull’economia e continua tutt’oggi a vietare la costruzione di altri campi e di scuole (arrivando addirittura ad erigere un muro), in particolare nella Striscia di Gaza.
I primi a subire gli effetti di questa drammatica situazione sono i bambini, i quali, ritrovandosi quotidianamente davanti agli occhi le conseguenze del conflitto, dello squilibro e dello spazio negato, rischiano di sviluppare a loro volta una forma di aggressività e di perdere la loro identità culturale.
In questo scenario perciò la scuola assume grande importanza, perché oltre ad insegnare nuove nozioni, permette di conoscere quali siano i valori più importanti e consente inoltre di rafforzare un’identità.
A tal fine “Vento di Terra” ha dato vita al progetto “Scuola di gomme” con l’obiettivo di costruire delle scuole, utilizzando semplici materiali che i volontari avevano a disposizione, come ad esempio i pneumatici. Continua la lettura di Incontro con ONG Vento di Terra
Binario 21
Nell’ambito del progetto sulla “legalità”, la classe VaD ITE, accompagnata dalla professoressa Maria Teresa Avaldi, si è recata presso il Binario 21. La visita non ha lasciato di certo indifferenti gli studenti, i quali hanno descritto sentimenti e stati d’animo suscitati da tale esperienza.
È un giorno qualunque della settimana, in cui generalmente la scuola è il tuo unico pensiero. Ma oggi è diverso, io e la mia classe andremo a visitare il Memoriale della Shoah. Mi alzo e mi preparo. Come tutte le mattine pensando a quello che avrei visto e conosciuto quest’oggi. Appena varcato il portone della mia palazzina, scruto il cielo e mi soffermo sul grigiore di quest’ultimo, l’acquerugiola mi accarezza il viso e in quell’ istante capisco che qualcosa di insolito era nell’ aria. Non gli do molto peso, anzi dimentico quasi l’ importanza della visita al Binario 21. Si, perchè a questa età difficilmente si riesce a dare il giusto peso a ciò che ci circonda, molto spesso rimaniamo impassibili come se nulla ci sfiorasse, scherzando e sminuendo esperienze di rilievo. È anche questa la “bellezza” dell’ essere giovani e spensierati, anche se è proprio con esperienze di questo tipo che si crea quel senso critico in noi stessi, che ci caratterizzerà per tutta la vita. Ed è proprio questo “sentire”, che contraddistingue una persona priva di cultura e di una propria visione della vita e della storia, da un individuo in grado di dare un proprio punto di vista con un pensiero e una riflessione ragionata, un pensiero che possa lasciare degli insegnamenti e dei valori che influiscano positivamente sulla vita di noi giovani.
Una volta arrivati davanti al Memoriale, mi stupisce subito la sua collocazione. Infatti, la Stazione Centrale di Milano è una delle poche in Europa ad essere sviluppata su due piani, con un pian terreno e un primo piano. Quest‘ultimo è quello che tutti noi conosciamo o abbiamo almeno visto una volta nella nostra vita, dove i treni partono dai binari, verso una moltitudine di destinazioni. Il pian terreno, è oramai adibito ad area museale, ma quello che lo contraddistingue è sicuramente la sua storia. Questo piano “nascosto”, veniva usato come una vera e propria stazione destinata allo scarico e carico dei treni postali e del bestiame. Quale miglior posto, avrebbe rispecchiato e allo stesso tempo mascherato quello che si celava dietro le leggi fascistissime del 1925. Grazie alla tecnologia utilizzata dagli ingegneri italiani del tempo, questo piano, tramite un geniale montacarichi, permetteva la risalita dei vagoni bestiame, straripanti di povera gente. Ma, cosa ancor più interessante, è che questi treni, grazie alla collocazione del montacarichi, partivano per i maggiori campi di concentramento e di sterminio senza essere visti, in quanto i vagoni erano collocati al di fuori della stazione centrale. Infatti questi treni vennero soprannominati “treni fantasma”. Numerose persone negarono ogni tipo di violenza o di esistenza di questo vero e proprio smercio di persone.
Persone che avevano ormai perso ogni tipo di dignità, trattate come animali, private della propria personalità, standardizzate, private persino del proprio ramo famigliare. Venivano infatti catturate famiglie intere in maniera tale da eliminare dalla radice il “problema”.
Il sentimento che più distrusse il cuore di questa povera gente che era perfettamente integrata e rivestiva ruoli di tutto rilievo nella società di allora, fu quello dell’indifferenza. Indifferenza del popolo Italiano di fronte ad uno scempio di questa grandezza, indifferenza dettata dall‘opportunismo generale della stragrande maggioranza dei nostri antenati che non sono riusciti a denunciare questi atti osceni. Funzionari italiani e capi treno che nella maggior parte dei casi hanno sempre messo le mani davanti a occhi ed orecchie, compreso lo Stato e la Chiesa.
Famiglie che vengono ricordate attraverso un lungo muro, con i pochi superstiti che vengono evidenziati, la parola indifferenza che viene incisa a sua volta in un‘altra parete che si innalza all’entrata del Memoriale.
Grazie ad una ristrutturazione molto ben studiata all’interno del Memoriale riusciamo, chiudendo gli occhi, a percepire quello che potevano provare queste persone. I treni che passano al di sopra ci fanno immergere in una atmosfera surreale che ci mette quasi i brividi. Mi immedesimo in quelle persone che non sapevano neanche a cosa andassero
Incontro; la maggior parte infatti pensava che andassero a lavorare, ma non tornarono mai più dai propri cari.
Questa struttura al giorno d’oggi, rappresenta il ricordo di questo periodo buio della nostra storia che non deve essere mai più dimenticato. Queste famiglie sterminate devono lasciare un insegnamento nei nostri cuori, un amore reciproco tra tutte le persone che condividono lo stesso cielo, un senso di appartenenza al mondo che nessuno può portarci via.
Appartenenza che viene attuata con il progetto per l’accoglienza ai migranti, infatti questa struttura grazie parecchi volontari è stata adibita, soprattutto nei periodi estivi, come dormitorio per i migliaia di profughi presenti sul nostro territorio. Il Memoriale quindi svolge più funzioni, in primo luogo quello del ricordo di questi tristi momenti e in secondo luogo quello dell’accoglienza e quindi dell’ amore verso delle persone di differente nazionalità, religione e pensiero.
In via definitiva penso che questa esperienza mi abbia lasciato svariate emozioni, dalla tristezza, alla rabbia per la stupidità e superficialità del nostro popolo, alla curiosità di andare in visita ai maggiori campi di concentramento e sterminio d’Europa per rievocare nuove emozioni nel mio cuore. Ma, la cosa che più ho apprezzato è il fatto di poter raccontare con più senso critico questo argomento fondamentale per la nostra esistenza, di poterlo condividere con i miei coetanei per cercare di suscitare le stesse emozioni, che io stesso ho provato sulla mia pelle.
Alberto Bonacossa
L’indifferenza, uno dei più grandi mali del mondo contemporaneo. Il ricordo che riaffiora, facendo riaprire quelle ferite mai chiuse e causate da persone senza scrupoli, accecati da interessi puramente politico-economici e da manie di grandezza e potere. Come sempre è la gente innocente a subire quelle conseguenze che hanno portato il mondo a scrivere la pagina più nera della sua epoca contemporanea. Un grande muro nero con incisa la scritta “indifferenza” è stato installato all’ingresso del museo situato al livello zero della stazione centrale di Milano. Questo muro è stata la cosa che più mi ha impressionato e che tutt’ora mi fa molta paura. Un “sentimento”, se così che si può definire, molto condiviso al giorno d’oggi e che in molti casi può sfociare in quello che si chiama egoismo. Ed è proprio quell’egoismo che ha portato alle leggi razziali approvate da paesi come l’Italia e la Germania. Quegli stessi Paesi che oggi si professano democratici e rispettosi dei diritti umani. Proprio quella stessa Germania che nonostante sia stata coinvolta in prima linea in quei brutali crimini, si ostina oggi a non voler ricordare. Quei treni che partivano da quel maledetto binario, nascosto agli occhi di tutti, ma vicino al quale si stavano consumando i più grandi crimini contro i diritti e la dignità di persone, uomini, donne e bambini innocenti, e vittime soprattutto dell’indifferenza. Proprio quel treno, ormai diventato museo, racconta nel suo silenzio quei drammatici momenti e quelle devastanti deportazioni che hanno provocato terrore e sdegno subito dopo la loro scoperta. Una visita, questa del binario 21, che deve far riflettere e deve far capire quanto l’uomo può far male ai suoi stessi simili. Simili, perché non esistono razze, non esistono religioni, non esistono filosofie di pensiero che possano giustificare questi atti inumani. Ma come la storia insegna, è dagli errori che si ricomincia e si riparte, sempre ricordando quello che è accaduto nel passato, anche più remoto, per evitare di inciampare nei medesimi sbagli.
Simone Scavilla
Indifferenza. La parola che ci ha accolto proprio sotto la stazione Centrale di Milano, all’inizio della nostra visita, incisa in un grande muro di pietra.
La parola che più mi ha fatto riflettere. L’indifferenza delle persone verso l’avvenimento più triste e folle della nostra storia. Nostra non solo perché ci riguarda come esseri umani, ma perché proprio in Italia, a Milano, sotto la stazione Centrale, si trova il Binario 21.
Utilizzato per anni come mezzo di deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio nazisti dove, prima dello sterminio fisico, veniva sterminata la loro dignità. Gettati in questi treni e rinchiusi per settimane senza cibo né acqua, senza un minimo di igiene, senza distinzione tra uomo o donna, bambino o anziano.
Non erano persone, almeno, non lo erano più.
Una volta entrati in questi “mezzi dello sterminio” uscirne vivi era impossibile… Pensare che molti di essi erano gli stessi che in passato servirono la patria. Esatto. Gli stessi italiani, solo per professare un credo differente o perché di origine ebraica, venivano rapiti e fatti sparire, cancellandoli dalla società.
Questo memoriale della shoa è stato ideato per non dimenticare. Per far si che la parola indifferenza, quella che Antonio Gramsci definì come <<il peso morto della storia>>, rimanga nelle nostre menti e ci ricordi cosa ha causato.
Sì, perché il compito della storia è proprio quello di far si che certe cose insegnino, che non bisogna dimenticare, poiché cosi facendo rischieremmo di commettere gli stessi errori che ci hanno segnato nel passato e che se commessi di nuovo ci segnerebbero per il resto della vita.
A questo proposito è stato ideato il Muro dei Nomi, un muro che, oltre a farci ricordare il terribile evento, serve a restituire quella dignità che tempo fa, i nostri antenati, avevano perso.
All’interno del memoriale si trova anche un luogo di riflessione e raccoglimento. Questo non vuole essere soltanto un monumento alla memoria di chi non c’è più, ma vuole ricordare di non rimanere indifferenti. Sì, perché ricordare significa rompere l’indifferenza.
Diego Ferretti
EUTANASIA
L’eutanasia è l’atto con cui si pone intenzionalmente fine alla vita di un individuo che versa in gravissime condizioni di salute, a causa di una malattia o di una menomazione, con lo scopo di interromperne la sofferenza.
Il termine deriva dal greco “euthanasia” (composta da “eu” bene e “thanatos” morte) che letteralmente significa “la buona morte”.
L’eutanasia si distingue tra:
• Attiva (o diretta) nel caso in cui il medico interviene per procurare la morte di un paziente.
• Passiva (o indiretta) nel caso in cui il medico si astiene dall’effettuare operazioni che manterrebbero in vita la persona.
Il primo paese al mondo a permettere l’eutanasia e il suicidio assistito è l’Olanda mediante una legge approvata nell’aprile del 2001. Dopo l’Olanda molti altri paesi europei acconsentirono all’eutanasia anche se con qualche limitazione; ad esempio la Spagna in cui l’eutanasia attiva non è permessa e la Francia in cui l’eutanasia passiva è parzialmente ammessa e quella attiva è invece vietata. Tra questo elenco non rientra l’Italia in cui non vi è una legge che legalizzi l’eutanasia.
La discussione attorno al tema dell’eutanasia è molto complessa e confusa poiché caratterizzata dallo scontro di svariate opinioni e punti di vista.
La Chiesa ha ribadito con fermezza la sua posizione di netta opposizione all’eutanasia, giudicata come “moralmente inaccettabile” dal numero 2276 del Catechismo della Chiesa Cattolica.
Riguardo questa sensibile tematica che tocca molti campi tra cui quello giuridico, morale e religioso è importante effettuare opportune e complete riflessioni che siano in grado di raccogliere il maggior numero possibile di fattispecie, anche se questo risulta difficile dato che i casi sono sempre molto differenti tra loro.
È perciò fondamentale comprendere le ragioni per cui un individuo sia favorevole o meno a una legge che consenta l’eutanasia e trovare una soluzione che possa essere condivisa dalla maggioranza dei cittadini. Tuttavia giungere ad una soluzione di questo tipo non sarà facile in quanto le posizioni che si contrappongono sono, in certi casi, radicalmente opposte ed è proprio per questo che nei paesi in cui non vi è ancora una legge per legalizzare l’eutanasia una posizione finirà per prevalere sull’altra.
Claudio Frattini
“La unica lucha que se pierde es la que se abandona” – Rigoberta Menchu Tum
“L’unica lotta che si perde è quella che si abbandona”.
Le parole di Rigoberta Menchu , esprimono bene la tempra e il carattere di questa donna.. Rigoberta Menchu Tum fin da giovane ha lottato per ciò che ritiene giusto. E’ appunto,secondo me, una cattiva ragazza: si merita anche lei l’etichetta linguistica affibbiata alle donne che non sottostanno alle regole del loro paese, Rigoberta Menchu è una di loro.
Siamo abituati ad una vita tranquilla noi studenti; scuola,compiti,amici. In molti paesi i nosrti coetanei non sono così fortunati. In Guatemala, negli anni 60,la vita riservava molte sorprese. Nelle fincas del Guatemala la vita era molto dura ed il padre di Rigoberta, un uomo forte,si batteva come guida (l’eletto) della comunità contro i proprietari terrieri, i quali approfittando dell’analfabetismo degli indigeni, volevano togliere loro la terra. Le condizioni di lavoro degli indigeni provocavano molte malattie dovute agli sbalzi di temperatura tra l’altopiano e la costa . Rigoberta, all’età di cinque anni, vide morire davanti a se i suoi fratelli e successivamente sua madre. Ciò suscitò in lei la volontà di riscattare se stessa e l’ intero popolo. Nel 1977 entrò a far parte clandestinamente di un’organizzazione, il CUC (Comitato di Unità Contadina), in cui gli indigeni si battevano contro i proprietari terrieri e chiedevano un aumento del salario nelle fincas, avviò molte battaglie per le dignità del suo popolo, finché nel 1992 ricevette il premio Nobel per la pace,diventando anche ambasciatrice dell’ONU.
Lei ha sempre creduto nel cambiamento delle condizioni di vita e di lavoro e nel rispetto per i diritti delle popolazioni indigene. Negli anni della lotta la sua determinazione divenne famosa in tutta Europa e furono molti i parlamentari italiani e europei, docenti universitari e numerosi giornalisti che la sostennero.
Ancora Rigoberta Menchu lotta per i diritti del suo popolo:
MI TIERRA
[…] Tierra mía, madre de mis abuelos,
Il mio paese, la madre dei miei nonni,
quisiera acariciar tu belleza,
vorrei accarezzare la tua bellezza
contemplar tu serenidad
contemplare la tua serenità
acompañar tu silencio.
e accompagnare il tuo silenzio.
Quisiera calmar tu dolor,
Vorrei lenire il tuo dolore,
llorar tu lágrima al ver
piangere le tue lacrime a vedere
tus hijos dispersos por el mundo,
i tuoi figli sparsi in tutto il mondo
regateando posada en tierras
mercanteggiare terre lontane
lejanas sin alegría, sin paz,
senza gioia, senza pace,
sin madre, sin nada.
senza madre, senza nulla.
Una mujer con imaginación es una mujer que no sólo sabe proyectar la vida de una familia, la de una sociedad, sino también el futuro de un milenio.
Una donna con l’immaginazione è una donna che non solo sa come pianificare la vita di una famiglia, di una società, ma anche il futuro di un millennio.
Lisa Orsini
Emmeline Pankhurst: l’eccezione che cambia la regola
Cattiva ragazza”, due semplici parole che, accostate, danno origine a un’etichetta linguistica secondo la quale una donna che non si sottomette alle regole che la società in cui vive le impone non è una brava ragazza. Emmeline Pankhurst è senza dubbio una di queste. Le donne, da sempre considerate il sesso debole, sono continuamente vittime di questi stereotipi che, anche se potrebbero sembrare superati, sono ancora molto diffusi.
Forse rassegnate a vivere in queste condizioni, forse per paura, o forse per mancanza di istruzione, quasi nessuna si ribellò a favore di ciò in cui credeva, finché arrivò una donna coraggiosa, disposta a non essere ubbidiente, disposta a non essere “normale”. Esatto, perché bisogna essere non ordinari, eccezionali, per essere temuti e ottenere l’attenzione necessaria per cambiare davvero le cose.
MANCHESTER, 1854- Era il 15 luglio quando nacque Emmeline Pankhurst, una bambina che possedeva tutte queste caratteristiche. Fu proprio nel 1861, sette anni dopo la sua nascita, che si creò una circostanza tale da far scattare in lei gli ideali di uguaglianza e di giustizia: il padre, convinto che la bambina stesse dormendo, le si avvicinò e le sussurrò all’orecchio “se solo fossi una maschio”. Queste parole risuonarono per sempre nella mente della Pankhurst che, da questo momento in poi, trascorse la sua vita battendosi per la conquista del diritto di voto per le donne in Inghilterra.
Tutta la buona volontà, tutto il coraggio, tutta la straordinarietà di una persona non è sufficiente per cambiare la legge, una sola voce è troppo flebile per essere sentita; questo Emmeline lo sapeva bene, per ciò riuscì, grazie al suo carisma e alla giustizia della sua causa, ad ottenere l’appoggio di migliaia di donne da tutto il paese. La leader si accorse presto però che la gente iniziava a tapparsi le orecchie, le loro proposte venivano ignorate, le loro voci messe a tacere; per questo motivo i metodi di protesta si fecero più violenti, addirittura esasperati.
Tutte loro erano consapevoli della riprovazione e delle conseguenze che queste azioni avrebbero provocato, che sarebbero state etichettate come “ribelli”, “cattive”, che avrebbero rischiato di perdere i propri mariti, o addirittura di essere arrestate.
Il coraggio, l’eccezionalità, consiste proprio in questo: nel seguire i propri ideali non preoccupandosi del giudizio della gente, nel conoscere i probabili risvolti delle proprie scelte ma essere disposti a sopportarli in nome di qualcosa di più grande.
Emmeline disse infatti “preferisco essere una ribelle, piuttosto che una schiava”, e ci credeva davvero, davvero era convinta che lo scopo del movimento suffragista non fosse quello di distruggere le leggi, ma di fare le leggi.
Letizia Repizzi
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Una donna, infinite figure
Un primo ministro, una madre, una moglie, una sorella e un essere umano. Benazir Bhutto fu tutto ciò e in tutto fu esemplare. A Benazir Bhutto bisogna riconoscere l’abilità politica, alla quale il suo essere donna ha solo giovato perché l’ha resa diversa, innovativa, empatica, ha espresso “un diverso tipo di leadership” che l’ha portata a interessarsi anche dei problemi della bassa popolazione quali le questioni femminili e la riduzione del tasso di crescita demografia. Ciò è stato possibile portando in politica “una nuova dimensione supplementare, quella di una madre.”
Ricordata per essere stata la prima donna a capo di uno stato islamico, Benazir ha trascorso diversi anni lontana dalla sua patria, il Pakistan. Il contatto con una società occidentale le ha permesso di ampliare i suoi orizzonti e di conoscere un mondo diverso da quello in cui era abituata a vivere; il suo cambiamento di prospettiva, aggiunto al suo carattere da sempre curioso e critico, hanno fatto sì che si realizzasse non solo come membro della società, ma anche in quanto donna. I suoi successi politici sono stati diversi, la duplice elezione alla carica di Primo Ministro in uno stato islamico esprime l’enorme appoggio che questa grande donna ha ricevuto da parte dei suoi concittadini, dal suo popolo, dalla sua patria. Malgrado una moglie così avrebbe potuto, in una società come quella pakistana, rappresentare un disonore, Asif Ali Zirdari, suo marito, l’ha sempre sostenuta in vita e ha perseguito la sua linea politica fino al 2013.
La morte di Benazir, oltre ad essere misteriosa, in quanto non si conoscono i veri responsabili, è significativa: Benazir è morta perché era temuta, costituiva un pericolo. Una donna con degli ideali, con dei pensieri e con la forza necessaria per vederli realizzati, con dei sostenitori, una donna indipendente spaventava, specialmente in una società in cui la donna non è altro che un oggetto. Benazir rappresenta potenzialmente la scintilla che porterà le donne pakistane all’emancipazione, all’indipendenza dai mariti e alla riconsiderazione di loro stesse come donne. Era questo che spaventava il governo del Pakistan, era questo il motivo per cui Bhutto andava eliminata, e così è stato. Il 27 Dicembre 2007, in seguito ad un attentato terroristico, l’ex primo ministro perde la vita e con questa ogni donna pakistana perde la speranza che prima la animava.
Possiamo considerare Benazir una martire, morta per una causa che nel 2007 doveva già essere realizzata, così come dovrebbe esserlo ora, quando invece non è ancora così. Benazir si è messa in gioco, non ha avuto paura di darsi visibilità malgrado fosse a conoscenza dei pericoli che correva, non si è tirata indietro, anche dopo gli esili, gli attentati e le minacce ha continuato a lavorare in politica e a non essere al sicuro, perché come lei stessa afferma “le navi al porto sono al sicuro, ma non è per questo che sono state costruite”.
Il suo atteggiamento innovativo e anticonformista l’ha resa una donna degna di essere definita una “cattiva ragazza”, un’etichetta linguistica che, malgrado l’apparenza possa ingannare, assume un significato positivo, quasi celebrativo. Benazir è stata in grado di essere se stessa e raggiungere i suoi obiettivi in una società in cui tutto ciò era silenziosamente proibito.
Nada Mansour
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Non nel mio nome!
Nei giorni scorsi siamo stati testimoni del linciaggio mediatico del preside Marco Parma sul quale sono state dette tante falsità.
Abbiamo sentito inneggiare al Duce o invocare il licenziamento del Preside e anche degli insegnanti che lo avrebbero difeso.
Abbiamo visto scene di una violenza inaudita su tutte le reti televisive, e solo pochi giornalisti hanno fatto ciò che dovrebbe essere la prassi, cioè verificare l’attendibilità delle notizie.
Adesso sappiamo che gli ispettori mandati dal Ministero non hanno rilevato nulla di irregolare nell’operato del Preside, persino il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini lo ha definito “un caso montato sul nulla”. Purtroppo il danno arrecato alla persona, alla scuola di via Garofani, e all’intera comunità scolastica di Rozzano è enorme.
A questo punto sarebbe bello che chi si è riempito la bocca di santità con presepi e canti natalizi si scusasse pubblicamente; ma siccome non credo ai miracoli, posso solo auspicare che ciascuno di noi contribuisca, nel suo piccolo, a ripristinare la verità dei fatti.
Nell’augurarvi buone feste invio una vignetta su ciò che le ultime vicende mi hanno ispirato.
Cordialmente
Nello Colavolpe
La Marsigliese
Contre nous de la tyrannie
L’étendard sanglant est levé,
…
C’est nous qu’on ose méditer
De rendre à l’antique esclavage !
Innocenti puniti e individualisti
A partire dal settembre 2008 una nuova crisi finanziaria, seconda solo al crollo di Wall Street del famoso “giovedì nero” del 1929, ha colpito il mondo intero.
Sulla stessa onda del ’29, le banche sono ritenute il capro espiatorio di tutto questo a causa del loro comportamento troppo permissivo e alla facilità con cui hanno concesso aiuti, sotto forma di prestiti, a chiunque ne facesse richiesta.
La differenza dalla prima grande crisi deriva dal fatto che le banche non si sono limitate a salvare o sostenere finanziariamente solo i provati e le imprese, ma esse sono arrivate a finanziare anche lo Stato stesso, creando una coesione tale che il fallimento di una delle due parti, avrebbe fatto cadere nel baratro anche l’altra.
Questo ruolo ha garantito un dominio assoluto delle banche nella finanza mondiale: basti pensare che gli Stati Uniti spendono miliardi (14000 miliardi nel 2008, 26000 miliardi nel 2011 e 29000 miliardi nel 2012) per salvare le banche dal fallimento e rimettere in piedi il sistema finanziario.
Nonostante le banche siano enti privati soggetti al fallimento, il collegamento di dipendenza che le unisce con gli organi statali, obbliga questi ultimi a fare il possibile, ricorrendo anche a ingenti spese monetarie, per evitare il collasso economico e finanziario.
Lo Stato presenta il conto di queste spese ai cittadini (dato che è da questi che avviene il prelevamento della ricchezza attraverso le imposizioni fiscali quali tasse, tributi e contributi): l’aumento della pressione fiscale, il taglio dei servizi e dei dipendenti pubblici, ha causato una crisi a livello morale attraverso la quale i cittadini perdono la fiducia non solo nei confronti delle istituzioni pubbliche, ma anche in sé stessi. Ad alimentare questa sfiducia vi è l’accordo stipulato tra banche e Stato, il quale prevede l’assicurazione di queste ad essere salvate a prescindere dalle assurdità e dai fatti che hanno portato alla loro crisi, incoraggiate quindi a riprendere la vecchia strada.
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