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Dio si fa!

È proprio con queste parole che il nostro amico filosofo Hegel definisce Dio, ma (ahimè) non ci sta dicendo che Dio sia un fattone. Secondo Hegel Dio è tutto e tutto è Dio, anche tu caro lettore sei una parte di Dio! In altre parole Hegel afferma che Dio prende coscienza di se stesso gradualmente grazie a noi. Ma come? In sostanza si forma e progredisce grazie alla nostra morte, ossia: noi siamo rappresentazioni finite di Dio, che, ovviamente, non è finito. Ciò significa che noi, in quanto esseri determinati, siamo negazione di qualcosa, quindi nel momento della nostra morte si ha la negazione di una negazione, ovvero un’affermazione; più precisamente, la negazione del finito è l’affermazione dell’infinito, cioè di Dio.

Dio, però, non progredisce solo attraverso la nostra morte ma (per fortuna!) anche grazie alla nostra vita; infatti secondo Hegel noi siamo stimolati ad agire nel momento in cui ci troviamo di fronte ad un ostacolo, di conseguenza cresciamo, e con noi anche Dio, poiché noi siamo suoi momenti.

In entrambe le situazioni tutto si basa sul susseguirsi di tesi, antitesi e sintesi. Per capire meglio cosa intenda Hegel con questi termini prendiamo il seguente esempio: noi nasciamo in una condizione di innocenza (tesi), ossia non conosciamo il vizio; crescendo scopriamo l’esistenza del vizio (antitesi); la virtù è la sintesi, cioè il saper vivere in modo innocente pur conoscendo il vizio.

Tutta la storia e la realtà procedono secondo questo sistema dialettico.

Gabriele Bertoli, Roberta Bertoli & Federica Landais.

Viva la sincerità?

Chi non ha mai mentito? E non voglio obiezioni da parte di falsi buonisti sul fatto che tutti, e dico veramente tutti, qualche bugia nella propria vita l’abbiano detta, che si tratti di piccole frottole o di sostanziose falsità. Ma cosa induce l’uomo a mentire?
Ci sono molteplici e differenti motivi che inducono la mente umana a nascondere la verità, coprendola con una bugia: a volte è per puri scopi personali, per apparire chi non si è; altre per paura di assumersi le proprie responsabilità; altre ancore, per proteggere dal dolore una persona a noi cara. Vorrei soffermarmi soprattutto su quest’ultimo ragione, cioè sui casi in cui si mente per non ferire i sentimenti di chi ci sta di fronte, per non far soffrire le persone cui vogliamo bene. Sembra un paradosso: mentire a una persona perché le si vuole bene. Eppure è così.
Lo so. Ora mi direte che le bugie non portano da nessuna parte, che se si tiene a una persona, bisogna dirle sempre la verità, qualunque essa sia. Son d’accordo; o quasi.

Credo sia capitato anche a voi di dover scegliere se dire o meno una “brutta” verità a qualcuno: cosa avete fatto in quella situazione? Cioè, il mio dubbio è: una spiacevole verità è davvero migliore di una consolante bugia, o di una “bugia a fin di bene”? Se sapete che la verità farà star male, recherà solo dolore, farà tormentare l’anima di chi vi sta di fronte, senza che egli possa far nulla per migliorare le cose, mentre una piccola bugia magari gli solleverà il morale, voi cosa fareste? Non sto dicendo di illuderlo, ma di rendergli più dolce qualcosa che sarebbe amaro; dirgli una mezza verità, perché forse l’altra metà farebbe soltanto male. Non c’è nulla di sbagliato in fondo, se il male arrecato dalla bugia è minore di quello causato dalla verità, giusto? Però…
Però, una bugia è pur sempre una bugia, e come tale verrà a galla. Una menzogna, una volta scoperta, anche se a fin di bene, poi causerà doppio dolore: la sfiducia nella persona che l’ha detta e il dover affrontare la dura verità.
Quindi cos’è meglio: lasciar che qualcuno viva serenamente, o persino felicemente, in una piccola falsità oppure destarlo e mostrargli la difficile, aspra e irrisolvibile realtà? Voi cosa ne pensate?

La politica di Platone

Platone per tutta la vita rifletté sulla politica e su quali dovessero essere le perfette virtù del politico e il tipo migliore di governo per una città.
Come può essere considerato oggi il sistema politico di Platone?
Platone nei suoi ultimi due discorsi, il Politico e soprattutto le Leggi, tratta del suo modello di “città seconda”, ossia la città realizzabile che più si avvicina alla città perfetta immaginata dal filosofo, a differenza della Repubblica dove lo stesso Platone ammette di parlare di una realtà utopistica non realizzabile.
Nel Politico indica quali devono essere le caratteristiche del politico, ossia del governante della città: la scienza politica diventa “arte della misura” dove il governante deve essere un “abile tessitore”, che sa intrecciare i diversi elementi di cui è composta la città nella “giusta misura”.
Inoltre nel Politico Platone espone i sei diversi tipi di costituzione; i primi tre rispettosi delle leggi, buoni, e i secondi tre derivati dalla violazione delle leggi, cattivi; nonostante in questo discorso il filosofo pensi ancora che il buon politico non abbia bisogno di leggi perché consigliato dall’arte della misura.
Le costituzioni buone sono la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia, mentre quelle cattive sono la tirannide, l’oligarchia e sempre la democrazia, notando che per questa ultima Platone da lo stesso nome sia che si tratti della buona sia che si tratti della cattiva forma di governo.
Solo nelle Leggi Platone afferma la centralità delle leggi nel governo di una comunità e pensa a una costituzione mista, come Sparta e Creta, dove la monarchia (il re), simbolo di unità, l’aristocrazia (il Consiglio o il Senato), simbolo di saggezza, e la democrazia (il popolo), simbolo di libertà, si uniscono.
E’ interessante notare come Platone, anche se non immediatamente, ma dopo un cambiamento graduale, arrivi tuttavia ad un modello di politica molto simile al sistema di governo dei principali stati mondiali.
Una nota negativa del pensiero del filosofo, secondo il mio punto di vista, è il fatto che ripone troppa importanza nella monarchia e di come questa sia una condizione necessaria in un buon governo.
Secondo la mia opinione la forma di governo corretta comprende un ristretto gruppo di persone competenti delegate ad amministrare la comunità, ma il vero potere decisionale deve essere del popolo, che democraticamente elegge tutti i suoi rappresentanti.
In realtà però un governo non è o buono o cattivo solo perché la forma è una monarchia anziché una democrazia; l’elemento fondamentale che rende un governo giusto è la componente umana, perché sta nell’abilità del governante, uno o tanti che siano, amministrare la comunità in modo che tutti diano il loro contributo e che tutti possano essere felici, usando come diceva Platone l’arte della misura.

In cosa sbagliava Zenone? La risposta a Platone

Scultura raffigurante la testa di Platone
Testa ritraente Platone, rinvenuta nel 1925 nell’area sacra del Largo Argentina a Roma e conservata ai Musei Capitolini. Copia antica di opera creata da Silanion. L’originale, commissionato da Mitridate subito dopo la morte di Platone, fu dedicato alle Muse e collocato nell’Accademia platonica di Atene.

Uno degli interrogativi rimasti aperti nella nostra classe è: “in cosa sbagliava Zenone?”. A questa domanda, rimasta irrisolta per un paio di lezioni e poi finita nel dimenticatoio, mi sembrava davvero difficile dare una risposta. Che ci fosse qualcosa che non andava nell’argomentazione dei suoi paradossi era chiaro, trovare “cosa” un po’ meno. Solo ora, compreso il pensiero Platonico, credo di aver capito in cosa sbagliasse il filosofo di Elea.
Allievo di Parmenide, Zenone cercava attraverso la dimostrazione per assurdo di appoggiare le posizioni del suo maestro, e gli argomenti che portava a sostegno della sua tesi vengono comunemente chiamati “paradossi”. Due sono i tipi di paradossi che questi formulò: i paradossi contro il movimento e quelli contro la molteplicità dell’essere. Per quanto riguarda la prima tesi,“l’essere è immobile”, Zenone sostiene che nessun uomo è in grado di raggiungere il proprio traguardo, in quanto prima sarà costretto a compiere la metà del suo percorso, poi la metà della metà e così fino all’infinito perché esisterà sempre una metà più piccola della precedente. Pertanto il movimento non può esistere. Uno dei più famosi tra questi paradossi è quello di “Achille e la tartaruga”, secondo cui, se Achille lascia alla tartaruga un margine di vantaggio, non riuscirà poi a raggiungerla perché questa sarà sempre, anche se in maniera infinitesima, più avanti di lui. Dal punto di vista matematico il discorso non fa una piega, ma cosa ne penserebbe Platone? Non credo che sarebbe molto d’accordo. Platone infatti cerca, attraverso la filosofia, di trovare, all’interno di un mondo in continuo movimento, delle verità solide e universali da potersi ritenere sempre vere e valide. Questo lo porta a formulare la cosiddetta “teoria delle idee”. Le idee, sostiene Platone, non sono altro che i caratteri universali, immateriali e sempre identici a se stessi, che si possono cogliere solo attraverso l’intelletto. E’ su queste idee che si basa la realtà sensibile, ma questa può soltanto imitarle, non potrà mai essere identica ad esse. Le idee stanno nel mondo dell’intelligibile, in quello che Platone chiama “iperuranio” e non trovano una rappresentazione perfetta nella realtà. Pertanto se diciamo che un qualcosa è bello non stiamo affermando che esso è in sé l’idea di bellezza, ma soltanto che esso vi partecipa e ne condivide una data caratteristica. Le idee sono solo dei “modelli”.
Ecco perché ciò smentisce in parte ciò che affermava Zenone: l’idea di punto senza dimensioni, di retta formata da infiniti punti non è applicabile in natura, dove lo spazio è finito e anche la più piccola parte di materia ha una dimensione. Si arriverà ad un certo punto ad una metà talmente piccola da risultare indivisibile e quindi la meta sarà raggiunta e anche Achille riuscirà prima o poi a raggiungere la tartaruga e addirittura a superarla. Non è vero quindi che non esiste il movimento.
Per quanto riguarda invece i paradossi contro la molteplicità dell’essere mi ha colpito in particolar modo quello in cui afferma che “se i molti fossero, dovrebbero essere tali e quali è l’uno, ingenerati, eterni e immutabili, ma siccome ciò non è vero, allora i molti non sono”. Per cercare di confutare questa argomentazione, è necessario appellarsi a un’altra delle “invenzioni” platoniche, la dialettica per unificazione e divisione. Nel Fedro infatti Platone afferma che la dialettica è l’arte di ricondurre il molteplice all’uno e l’arte di dividere l’uno nel molteplice. Trovare quindi ciò che unifica più idee ad un’idea più generale, ma anche fare il processo opposto, cioè dividere ogni idea in idee più specifiche, per scoprire quali idee comunicano fra di loro e quali no. A questo punto mi viene da pensare: “E se i molti facessero parte dell’idea di essere, ma non ne avessero tutte le caratteristiche?”. L’essere potrebbe essere l’idea generale che raccoglie tutto ciò che “esiste”, ma potrebbe poi dividersi in più idee specifiche come quella di ingenerato o infinito di cui non fa parte la nostra realtà. Del resto lo stesso Parmenide affermava che noi “siamo” “doxa”, opinioni, per poi concludere dicendo che non esistiamo in realtà perché l’essere è unico. Non è forse un po’ contraddittoria come affermazione? Se l’essere potesse avere più “sfumature”? Con questo Platone non vuole smentire Parmenide sul fatto che l’essere sia uno, sebbene il suo intento fosse quello, ma sicuramente la confutazione è un buon metodo per avvicinarsi alla verità, anche se a volte non basta.

Limiti alla libertà di parola? Inaccettabili!… O forse no…

Oggi studiavo storia per la famigerata simulazione di terza prova. Argomento: primo dopoguerra e fascismo.

Leggendo di quest’ultimo ho iniziato a pensare a che periodo dovesse essere e a come sia stata possibile l’instaurazione di un simile regime.

Facile, mi direte voi: gli oppositori vengono eliminati, si controllano i mezzi di comunicazione e la cultura, si promuovono eventi e organizzazioni che facciano scomparire il singolo a favore di un sentimento collettivo di unione e nazionalità. In sostanza viene a mancare la libertà di parola e quindi non si hanno più diversi punti di vista, l’informazione viene controllata e sottoposta a pesante censura.

Libertà di parola: penso sia questo il concetto-chiave. Al riguardo Voltaire diceva:

Non sono d’accordo con le tue opinioni, ma difenderò sempre il tuo diritto ad esprimerle.”

Credo che siamo tutti d’accordo con lui, no? Le libertà di parola e di pensiero sono dei diritti fondamentali di ogni individuo.

Eppure…

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Libertà: un diritto solo “teorico”?

Libertà: esiste?!
Libertà: esiste?!

La libertà è la condizione per cui un individuo può decidere di pensare, esprimersi ed agire senza costrizioni, usando la volontà di ideare e mettere in atto un’azione, ricorrendo ad una libera scelta dei fini e degli strumenti che ritiene utili a metterla in atto. Questo afferma Wikipedia, uno dei siti di ricerca più visitati al mondo.

Ma è davvero così?  Secondo me non è affatto vero perché nessuno ha l’occasione di vivere questa ideale condizione di libertà. C’è sempre qualcuno che ci “spinge” verso “strade” non scelte da noi. Che si tratti di scelte riguardo fatti poco importanti, che presto si dimenticheranno, o riguardo fatti molto più rilevanti, che ci condizioneranno per il resto della nostra vita.

Dal mio punto di vista la libertà di una persona, a maggior ragione se si tratta di un adolescente, è molto limitata. Infatti, un ragazzo sarà sempre influenzato, nei casi più estremi obbligato, dai genitori o dalla famiglia a fare delle scelte specifiche per paura di deluderli, di farli soffrire o di non essere più considerati come prima.
L’adolescenza, già di per sé, è un periodo in cui i ragazzi sono molto insicuri (chi più, chi meno) e questa “pressione” da parte di chi, in teoria, ha il compito di aiutarli a crescere certamente non aiuta. Per fortuna questa situazione non riguarda tutti gli adolescenti, ma una gran parte potrebbe rispecchiarsi in queste poche righe.

Quindi io mi chiedo: esiste realmente la libertà?
Perché nella mia “breve” vita ancora non l’ho potuta vedere così come è definita.

La maledizione del reality colpisce anche la scuola

Sabato pomeriggio. Seduta sul letto guardo un programma, più precisamente un talent show di canto e ballo, “Amici”, che purtroppo è andato perdendo di qualità di anno in anno ma nonostante ciò continua ad appassionarmi. Poi ad un certo punto si sospende il programma e danno la pubblicità. Mi sembra strano, dovrebbe mancare ancora mezzora. Invece scopro che da quest’anno l’ultima mezzora sarà dedicata a “La scimmia”, un reality dove dei ragazzi frequentano una scuola e si sfidano per raggiungere la maturità con il massimo dei voti. Avevo sentito parlare di questo programma e del fatto che fosse stato sospeso per i pochi ascolti, ma non me ne ero mai interessata. Provo ad ascoltare, magari ho capito male, magari lo scopo del reality è un altro. No, è proprio così, ci sono interrogazioni, verifiche e voti. Ci sono ragazzi diciottenni che lasciano la scuola per frequentarla all’interno del reality e ci sono ragazzi che addirittura non hanno raggiunto la maturità negli anni passati e tentano di farlo davanti alle telecamere. Ci sono discussioni, si sentono frasi come “io sono venuto qua per studiare” oppure “non trovo giusto che certa gente cerchi scappatoie” e c’è addirittura chi sostiene che è troppo faticoso, chi raggiunge a stento la media del due e si lamenta, chi ha usato i soldi datigli per l’iscrizione a scuola per scopi personali. Ho l’impressione che essi non si rendano proprio conto di cosa voglia dire studiare davvero, studiare per se stessi, studiare per la speranza di essere premiati in futuro e non di essere pagati per farlo. Strano però, anche loro sono stati studenti. Ora mi chiedo: qual è il messaggio che dà questo programma? A cosa serve studiare se poi c’è gente che non lo ha fatto e non solo ha un’altra occasione, ma viene addirittura pagata per sfruttarla? Cosa devono pensare i giovani davanti a trasmissioni come questa? Non è forse una strumentalizzazione dell’insegnamento? Voi cosa ne pensate?

L’uomo è la misura di tutte le cose

Protagora afferma che l’uomo è la misura di tutte le cose.
Egli sostiene che non si può dire chi sia più sapiente tra un sano e un malato che si cibano degli stessi alimenti, con il primo che ritiene che esso sia gustoso mentre il secondo lo cataloga come amaro.
Con Protagora nasce il relativismo, perché mette l’uomo al centro di tutto.
Facciamo un altro esempio: Francesco e Andrea camminano e uno dei due afferma di avere freddo, mentre l’altro ritiene che invece ci sia un’ottima temperatura.
La loro passeggiata continua, incontrano una ragazza e uno dei due ne rimane affascinato, mentre l’altro ne è oltremodo disgustato.
Per ultimo, entrano in un bar e prendono cappuccio e brioches.
Francesco, arrivato alla cassa, rimane allibito davanti a uno scontrino così caro: 2.50€.
Andrea, invece, ritiene che il prezzo sia giusto.
Gli dice infatti: «Bisogna considerare le tasse che paga questo bar, i dipendenti a cui dare lo stipendio a fine mese…E’ un ottimo prezzo comunque».
Quindi, la giornata era fredda o afosa?
La ragazza era affascinante o di una bruttezza micidiale?
E, per ultimo, il prezzo era conveniente o non lo era?
Chi dei due ragazzi aveva ragione?
Chi diceva il vero?
Non esiste giusto o sbagliato, non esiste il vero o il falso, perché ogni impressione è corretta: ognuno vede ciò che gli è dato vedere, secondo la propria esperienza e il proprio status.
Protagora afferma che all’uomo non è dato sapere cos’è una qualsiasi cosa nel suo essere, ma solo come questa cosa appare a lui.
È l’uomo, quindi, l’unità di misura, il metro di giudizio di ogni cosa.

Socrate aveva bisogno della cicuta come Gesù della crocefissione…

“Socrate aveva bisogno della cicuta come Gesù della crocefissione, gli serviva per realizzare la sua missione, per lasciare per sempre una macchia sulla democrazie ateniese.”

Così scrisse nel 1988 Isidor Feinstein Stone, un famoso giornalista americano che pubblicò nel medesimo anno una detective story su Il processo di Socrate.
Gesù doveva morire sulla croce per espiare i peccati e redimere il mondo. Venne crocefisso perché considerato bestemmiatore in quanto aveva dichiarato di essere il figlio di Dio.
Socrate fu condannato a morte perché accusato di corrompere i giovani: parlava ai ragazzi nelle piazze, nelle vie, attirando la loro attenzione. Questo lo fece scambiare per un sofista che attaccava spavaldamente la classe politica ateniese smascherandone l’ignoranza. Il filosofo quindi era considerato un personaggio scomodo ed inevitabilmente fu condannato nel 399 a.C. e morì nel medesimo anno costretto a bere un veleno.

Gesù prima di morire disse : “Padre perdonali … non sanno quello che fanno”. Socrate, alla fine del processo che lo condannò a morte: “È giunto ormai il tempo di andare, o giudici, io per morire, voi per continuare a vivere. Chi di noi vada verso una sorte migliore, è oscuro a tutti, tranne che al Dio”.
Secondo me queste frasi sono molto importanti: sigillano la fine della missione dei due uomini.

Dunque la considerazione di Stone è pertinente anche se molti la giudicano azzardata. Infatti il filosofo decise di morire per non violare le leggi e per  lasciare una macchia indelebile nella democrazia ateniese: anche se gli amici, a cominciare da Critone, ritennero che la soluzione migliore fosse quella della fuga dal carcere in cui Socrate era prigioniero, egli rifiutò l’aiuto. Infatti furono raccolti danari, per ottenere la complicità dei carcerieri e per sostenere le spese del trasferimento all’estero di Socrate assicurandone l’ospitalità. Bastava solo convincerlo ma egli rispose che, anche in questa circostanza, bisognava attenersi al principio ma soprattutto bisognava vivere bene, cioè secondo giustizia; perché non conta vivere ma vivere bene: questo principio, che tante volte condivise con gli amici e con quelli che con lui si intrattenevano a discutere, non poteva ma soprattutto non voleva tradirlo.