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Se la carta ti abbraccia, chiudi gli occhi

Una certa maturità dovrebbe impedirmi di sporcare le pagine di profondità scurissima, tale da ricacciare fuori ogni pensiero caduto sul fondo, allignato sulle parole originali dei poeti.
Ma temo che i pensieri ch’incollo sulla Letteratura, pensieri che stagnano aldiquà del profilo della logicità -perché le Penne mi possano descrivere dalle loro altezze e saggiamente permettere a me di asciugare le guance sulle loro barbe, nel tentativo di scacciarne il torpore e il rodìo del cuore gonfio di lacrime; baciando, con lo sguardo ricacciato in gola, tremando, in punta di piedi, guarendo da innumerevoli trombi, le loro labbra di marmo, riconosciute oceani incavati nelle sabbie meno secche della critica: per me, almeno gocce dalla soddisfazione equilibrata, che diffondono l’aroma grigio della pioggia- si confondano.

Cesare Pavese, 11 Maggio 1928:

In nessun luogo trovo più una pietra
dove posare il capo.
Tutte le cose mi hanno presa l’anima,
l’hanno accesa e sconvolta,
e poi lasciata stanca
a mordere se stessa.
Vertiginosamente
mi han bruciato negli occhi
visioni di infiniti paradisi
posti tanto lontano,
ma appena vi giungevo
erano cose vane,
piene di tanto tedio e tanto orribili
che dovevo fuggire.
E la mia anima stanca tornava a divorarsi
di desiderio feroce.
Oh tutto mi è sfuggito
di tra le mani infrante.
Mi son erto in orgoglio
a schiacciare la vita
e ho trovato soltanto da compiangerla.
Ho cercato di scenderle nel cuore,
di umiliarmi al suo fianco,
di ascoltarne le voci più segrete,
i palpiti silenziosi,
ma tutto come un lungo brivido,
mi torceva d’amore
e mi lasciava poi nella mia febbre.
Insaziabile anima
che mi trascini sempre più lontano
e ogni passo è una nausea più grande.
Ho cercato la pace di me stesso
accordando il mio cuore
col ritmo cieco delle cose mute.
Mi son dissolto nella forza vergine
del vento delle cime,
ma dopo il rapido oblio
mi son sentita l’anima ululare
e dibattersi ancora,
raffica ansiosa e anelante in eterno.
Fin le cose remote che non ho mai raggiunto
le ho precorse col grande desiderio,
e le vedo ormai più sotto un cielo di nebbia
soffocate di tedio.
E ancora dopo tante strade stanche
sono solo in balia della mia anima
che a tratti mi pare voglia strapparsi via
tanto si torce e sanguina.
Sono tanto stremato.
Dal primo giorno ardente
che ho levata la fronte
a cercare me stesso,
in nessun luogo più
ho trovato una pietra
dove posare il capo.

Attrici italiane

In questi giorni ho visto in televisione la pubblicità delle nuove puntate de “Il commissario Montalbano” che andranno in onda su Rai 1 a partire dal prossimo lunedì sera. Mi ha fatto molto innervosire la presenza tra gli attori della solita Belen Rodriguez: ok va bene, è proprio una bella ragazza (per usare un eufemismo), ma non capisco il motivo della sua presenza in una fiction Rai, come non capivo quello della sua scelta per presentare San Remo. Attrice non lo è, presentatrice nemmeno e allora cosa? Ballerina? Cantante? Giornalista? No, niente di tutto ciò:  perchè quindi le nostre attrici italiane e più in generale una qualsiasi persona che abbia studiato recitazione, che abbia fatto una gavetta prima di arrivare a certi livelli, deve essere scalvacata da una qualsiasi modella argentina? Non penso sia solo una questione di bellezza fisica, perchè ci sono moltissime belle attrici in circolazione: qual è il motivo che spinge a scegliere persone come lei per interpretare certi ruoli? E badate bene non mi riferisco solo a Belen Rodriguez. Tanto per portare un’altro esempio: la Canalis a San Remo. Patetica: cosa voleva dimostrare quando si è messa a fare da traduttrice a Robert De Niro? Che sa l’inglese perchè vive con Mr. Clooney? E allora?

Io non condivido assolutamente le scelte che i dirigenti Rai stanno approvando in questo periodo: pensano che la gente si sorbisca due ore di commissario Montalbano solo per vedere due minuti Belen, quando possono guardarla in internet senza veli? Pensano che gli ascolti di San Remo siano dovuti a quelle due sul palco? Secondo loro io mi sorbisco 4 ore di festival per vedere la Canalis e Belen che prensentano due secondi un cantante, quando di loro posso vedere ben altro?

 Bo evidentemente la pensano così e voi?

Non sono stati i faraoni a costruire le piramidi

La Giustizia

Ore 15.15. Gheddafi parla alla televisione di stato. Libia. Nord dell’Africa. Vicino ai due punti sfocati alla lente dei potenti; ologramma destabilizzato dal vento della Tunisia; speranza, senz’occhio al fine. Una sguardo innamorato ad una lezione del publo unido che mai sarà vinto. ”Due miserie dentro lo stesso uomo’ diceva Giorgio. Qualcuno sogna ancora tuffandosi dalle curve sicule.
Che sia sogno; speculazione.
Che i due punti sfocati in realtà siano chiarissimi alle menti che sotto chilometri di terra giocano a dadi e a maggese con la libertà. Andreottianamachiavelliana concezione liberale della stabilità.

E’ dal ’67 che Gheddafi.
E’ dal ’67 che è stato eletto.
E’ dal ’67 che Gheddafi si è preoccupato di essere garante della libertà dei suoi con. Dei suoi cittadini.
Ha lavorato perché fin dall’inizio le scelte appartenessero al popolo. Oggi pomeriggio ordina ad ogni famiglia di riportare i loro figli drogati, giostrati da Bin Laden, a casa. “Sono dei drogati! I figli sbagliano. Il mio governo è dalla parte del giusto. Il mio governo rispetta le leggi di Dio.”
Che sia una vergogna lo ripete tante volte. Insieme alle sillabe di ‘droga’ e ‘Osama Bin Laden’. La responsabilità di quello che sta accadendo è solo vostra. Vostra: libici drogati.

Intanto in Occidente fra un sorriso di Obama e un grido della nostra classe dirigente si parla di stagflazione. Il superamento dei 220 dollari a barile di petrolio e la stagnazione dell’economia mondiale.

Qualche settimana fa, il presidente degli Stati Uniti d’America aveva incollato i nostri occhietti alla televisione, quando ci aveva rivelato che in Egitto si stesse facendo la Storia.

F

Con un giorno d’anticipo alla manifestazione di domani, di Domenica; quella che vedrà nell’intestino delle città italiane tante e tante pagine firmate col profumo dell’orgoglio del proprio sesso, pubblico la fotografia di un mondo intero, di una nuova società, raccontata con gli occhi socchiusi dal sole ed il cuore leggero per un amico.

E’ un anno che verrà. Secoli sono passati da quando l’umanità ha combattuto per l’ultima volta, l’ultima guerra, con i pugni. La civiltà non ha avuto bisogno d’essere sotterrata né di rinascere da ceneri. E’ risorta; in un modo che solo scrittori avevano immaginato: prostitute che scavalcano le pistole strette dai calli. Un anno più in là di quelli fino ad allora vissuti. E’ il periodo del potere delle donne, liberate dal costume del rosa e del dolce. Hanno raccolto le salme delle menti stanche ad ingannare le altre ed hanno costruito un nuovo mondo. Uno in cui non ci sono guerre, dove la competizione non esiste. E’ un mondo di schiavitù. Una dittatura femminile. Il negativo di tutti quei secoli, vissuti nei continenti fin’allora conosciuti. Le donne hanno compreso l’essenza del maschio: ed è per ciò che questo vada lavato della follia della lussuria; s’è capito che la radice d’ogne male contro l’umanità sta lì: dalla necessità del petrolio, dalla contesa dei prati, dal lancio dei proiettili; tutti hanno davanti a loro lo spettro del sesso e della protezione delle proprietà private, sintesi delle ragioni che le mogli spuntavano nelle loro menti, già programmate ad irrigidire gli arti, al peso dello spartano che scolpisce concubine nei regali terreni di Mefistofele. L’uomo è ora solo un muscolo della società. Un bue. E un intero organismo statale si preoccupa di affievolire l’ìmpeto che vuole spaccare con il collo la corda del suo guinzaglio. E’ un mondo migliore; che si possa bruciare l’opera di quello che contò con il suo secolo le parti di sangue e di lacrime gocciolanti dallo scettro (caro Ugo,) perché scettro non c’è più. Bastava così poco a sistemare ogni cosa. Eppure nessun Principe ha mai ceduto alla tentazione, prima d’allora s’intende, di farsi da parte e guardare quanto più in là arrivi la palpebra truccata.

“Non dobbiamo tacere”

Durante la seconda guerra mondiale e nel periodo subito successivo la popolazione prevalentemente italiana ma anche slovena e croata, nelle zone dell’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, è stata vittima di esecuzioni sommarie compiute dall’Esercito popolare di liberazione iugoslavo.

Oggi, 10 febbraio, celebriamo il Giorno del Ricordo, in memoria delle vittime dell’ennesima strage commessa dall’uomo.
Ricordare non solo è giusto per rispetto di coloro che hanno vissuto questi eventi storici, ma è fondamentale perché il ricordo e l’informazione sono gli unici strumenti che abbiamo oggi per evitare di commettere gli errori ed orrori del passato.

A questo proposito cito le parole del presidente della Repubblica (Roma, 10 febbraio 2007):

Va ricordato l’imperdonabile orrore contro l’umanità costituito dalle foibe (…) e va ricordata (…) la “congiura del silenzio”, “la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio”. Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali.

Sentimento ripreso; additività di infiniti: l’amore al tempo di Dalì

Ah, dolcezza del mio cuore.
Quanta gola sprecherei per sciogliere il vetro che ci separa. Quante fatiche ti dedicherei per il contatto che la paura ci nega.
Il démone dello spazio ci stringe contro la piana azzurra, saporita di vernice fresca. Davanti a ‘sto schifo d’immagini disturbanti. Vomito applaudito da una massa  di odianti della bellezza autentica, attendenti altro senònché immagini più veloci del genio umano, della retina della mente. Regalo di un prestigiatore dalla bacchetta setolata.
Il tuo sospiro nascosto, massa di petalo, pesa tonnellate sui polmoni, vero organo dell’amore negli uomini. Scoppietta l’olio caldo mentre frigge le ferite; persino il soffio, placebica inutilità a pelle fresca, [..]: sei un amore.

Indiscutibile

L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera

Capitolo 28

“La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cadere in mezza alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso.”

Se gli dei sognassero sarebbero straccioni allo specchio.

E’ tutto un sogno. Vi sveglierete fra qualche istante e dovrete ricominciare da capo. Si sà. L’impressione che désta i sogni ha un’impronta enorme rispetto alla durata del processo cerebrale che li genera. Di questo sogno diciottenne potrebbe rimanere una briciola; la stessa insignificante sensazione che lasciano i sogni dopo qualche ora dal risveglio. Tutto intorno è sogno. Immaginatevi non più fermi esseri umani, ma pòllini dispersi nel bordello del magnaccia aereo: nessun appiglio, nessun riparo. La nostra speranza starebbe nel non svegliarsi mai.

Questo c’è però dopo la morte: un altro sogno. Questo quaderno, questa matita, la mia immagine ritratta sullo specchio lucido, voi, amici, le femmine che amo; voi, siete desideri del mio io assetato. Intorno a me girate come cancri, ballando con gli occhi rivolto al perno, manovrati da un annoiato marionettista, figlio mio, barbaro, già disconosciuto e disamato, mio licenziato ex-dipendente.

Domani mattina vivrò un’altra volta la realtà delle quattro stagioni, del profumo degli umori umani, della Terra tonda, degli aerei e dei sottomarini, dell’imbuto e dei computer. Della s***** e delle macchine da scrivere. Del sangue. E della linfa. Della morte, dipinta ad olio, popolare, democratica, selettrice, che porta via a vagonate gomme nere consumate e bruciate.
Tutti morirete. A parte me.

Sono un essere immortale che sogna Sogni dalla durata finita che collassano in sè. Voi non vedrete la mia morte. Quando smetterò di esistere, tutto smetterà di esistere e come sabbia cadrete dentro un densissimo buco spazio-temporale. La matrice creativa che ci ha creato muterà algoritmi, con gli stessi strumenti del primo sogno, et voilà: un altro me e un altro voi. Come barchette paraffinate danzanti, cadute per sbaglio nell’Oceano; àlbatros dalle ali bucate. Ridicoli ballerini di Classica col culo basso, il collo grosso e i piedi piatti.