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La lezione politica di Platone oggi

Qualche giorno fa mi sono imbattuta nella VII lettera di Platone, di cui mi ha colpito soprattutto questa frase: “Un tempo nella mia giovinezza, ho provato ciò che tanti adolescenti provano: avevo progettato, dal giorno in cui avessi potuto disporre di me, di dedicarmi subito alla vita politica”. La lettura del testo mi ha spinto ad alcune riflessioni.

Platone si poneva un problema politico ancora attuale.

Come nell’Atene di allora, anche oggi il mondo è attraversato da numerosi cambiamenti e sconvolgimenti politici, che hanno portato alla rottura di quell’equilibrio necessario al buon funzionamento dello Stato. Ai nostri giorni, infatti, molti uomini che partecipano alla vita politica sono disonesti, corrotti e incapaci di amministrare la giustizia. I cittadini vedono deluse le proprie aspettative e tradita la fiducia riposta in quelli che dovrebbero essere i propri rappresentanti. Di giorno in giorno si assiste alla dissoluzione delle leggi, dei costumi e di quei valori morali su cui dovrebbe fondarsi ogni sistema di governo. Ciò comporta, a sua volta, un decadimento generale della società, dal quale sembrerebbe non esserci più via d’uscita. Di fronte a una situazione del genere, un miglioramento, invece, deve essere auspicato e, a questo proposito, penso che  Platone avesse ragione nel sostenere che coloro che avevano il compito di governare dovevano essere sapienti.

In termini moderni ciò significa che ogni capo di Stato dovrebbe avere un’adeguata conoscenza – cosa che spesso viene a mancare – per meglio distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto,  l’opportuno dall’inopportuno. La conoscenza da sola, però, non basta. Credo che sia necessario che chi ci governa non debba avere interessi materiali, perché altrimenti, come spesso accade, finirà prima o poi con il rivolgere la sua attenzione verso questi interessi privati, piuttosto che verso quelli comuni, arricchendosi personalmente o favorendo alcune persone a scapito di altre.

Solo così, quindi, si otterrebbe uno Stato giusto e buono e, di conseguenza, anche quello che noi definiamo il ” bene comune”, ossia le aspettative di felicità di tutti i cittadini.

Dunque, è innegabile che la bontà di uno Stato sia legata al fatto che chi comanda governi in nome del bene comune e non in nome dei suoi interessi privati.

Ora, però, rimane un interrogativo: una concezione della politica di questo tipo è davvero realizzabile o è pura e semplice utopia?

Di certo a questa domanda ancora tutt’oggi non possiamo dare una risposta certa. É innegabile, infatti, che la teoria politica di Platone delinei un modello di Stato, inesistente e difficilmente realizzabile nella realtà, ma ritengo che il filosofo possa ancora esserci d’aiuto e che la sua lezione possa essere tuttora attuale. Innanzitutto bisognerebbe considerare in positivo e non in negativo l’utopia platonica, intendendola come un mezzo che possa spingere al miglioramento. Mi spiego meglio: essa non si limita, infatti, a proporre un’idea di Stato perfetto, ma, così facendo, sottolinea anche le imperfezioni di Stati storici reali costituirebbe – letta in questo modo – uno stimolo a costruire, se non Stati perfetti, almeno in parte migliori. In secondo luogo, l’utopia fornisce, seppur sul piano centrale, un modello organizzativo di Stato e di politica. Basterebbe, quindi, ripulirla delle sue ristrettezze dottrinali e guardare a essa come un progetto da sviluppare, tenendo ovviamente conto del contesto di riferimento. In terzo e ultimo luogo, bisognerebbe riuscire a tradurre in azione tale progetto. Come? Io penso che ciò non sia completamente impossibile, ma sia possibile solo a certe condizioni. In primis si devono educare gli uomini ad essere buoni cittadini; tale compito spetta in parte alla famiglia, in parte alla scuola in modi diversi: la famiglia educando al bene, la scuola fornendo delle nozioni pratiche attraverso lo studio delle diverse discipline.

Cittadini giusti, poi, a loro volta, formeranno uno Stato giusto, perché saranno in grado di scegliere tra loro i migliori a governare. Infine, quest’ultimi, in quanto tali, adempirebbero convinti al proprio compito, operando per il benessere collettivo.

Detta in questi termini, la soluzione apparirebbe ovvia e scontata; in realtà, si tratta di un percorso lungo e difficile da attuare, che prevede in un primo momento un cambiamento di mentalità – e qui entrerebbe in gioco quella che in senso lato si definisce “la cultura di un popolo” – e solo in un secondo momento il passaggio dal sapere alla pratica. Solo così, allora, si otterrebbero dei buoni risultati e, forse, si metterebbe fine alla degenerazione politico-sociale che domina il nostro tempo.

Quanto vale la parola

La parola è una potente signora, che pur dotata di un corpo piccolissimo e invisibile compie le opere più divine: può far cessare il timore, togliere il dolore, produrre la gioia e accrescere la compassione.

Già da questa frase si può dedurre quale valore Gorgia desse alla parola: la parola è differente dalla realtà, non ci permette di esprimere l’essere. È quindi ingannatrice, capace di mutare il pensiero altrui. Secondo Gorgia la verità non esiste e perciò non conta, ciò che conta invece è la capacità di argomentare. Infatti non è il contenuto dei discorsi ciò che persuade e convince la gente bensì il modo in cui ci si esprime. Per fare un esempio, parlava del fratello, che nonostante fosse medico e sapesse molto più di lui nel campo della medicina, non riusciva mai a convincere i pazienti a prendere le medicine prescritte bene come faceva Gorgia. Questa secondo lui era la dimostrazione che la parola pronunciata esercita la sua influenza sulle emozioni degli ascoltatori, non sulle loro capacità intellettive. La potenza della parola è equiparata da Gorgia alla potenza dei farmaci e degli incantesimi magici. Gorgia cerca anche di spiegare come ottenere gli effetti persuasivi sui propri interlocutori, cosa che non era mai stata trattata da nessuno prima di lui. Probabilmente, studiando le reazioni emotive e gli effetti che certe parole causavano sulle persone, Gorgia ha tentato di trovare il modo di utilizzare al meglio la parola come strumento per convincere. Fa parte di questo studio sulla parola anche l’Encomio di Elena nel quale Gorgia tenta di difendere la moglie di Menelao dalle accuse che la ritenevano la causa della guerra di Troia. Ma di fondo resta il fatto che Gorgia tenta di dimostrare che con la parola si può, mediante un opportuno utilizzo, ribaltare il convincimento popolare, risultato di secoli di tradizioni, a proprio piacimento. Infine per far percepire la potenza della parola, Gorgia conclude ad effetto dicendo che la sua opera vale sì a difesa di Elena, ma che a lui è principalmente servita per diletto. Se nulla è, le parole non sono verificanti; anche Elena, che dalla tradizione antica greca è criticata assai aspramente quindi può essere innocente e degna di compassione.

Ciò che afferma Gorgia ha valore anche nella società moderna, basta pensare a quale sia uno dei diritti fondamentali che viene negato all’uomo sotto una dittatura: quello di parola. Perché il suo potere non è cambiato, anche oggi la parola è in grado di persuadere e convincere ma soprattutto di esprimere i nostri pensieri, per questo è la prima ad essere tolta, così da non farci comunicare e confrontare le nostre idee per formare un’opposizione al dispotismo. Succede però anche nella democrazia, dove bugie convincono gli elettori a votare per politici i quali hanno fatto promesse mai mantenute.

La parola è quindi un fantastico dono che l’uomo ha, ma anche un’arma per eludere e far del male, tutto dipende dall’uso che si fa di questo dono. La retorica è oggi un arte utilizzata soprattutto nei tribunali e in politica, ma anche nelle pubblicità dove si compiono ormai studi per trovare modi sempre più semplici per convincere le persone. L’arringa finale di un avvocato potrebbe scagionare un uomo accusato di omicidio che magari era veramente colpevole, o al contrario potrebbe far incarcerare un innocente, il giusto discorso in una campagna elettorale potrebbe aggiudicare il posto di presidente del consiglio a un candidato che magari poi si rivelerà non pronto per quella carica. Il potere di questo “dono” sembra essere immutato visto che gli scopi sono gli stessi: convincere o ingannare, è l’uomo che poi sceglie come usarlo.

L’oscurità e la luce

Il mito, la parola deriva dal greco mythos, è una narrazione il cui scopo è quello di spiegare i misteri del mondo, le sue origini, i suoi valori, il suo senso, di definire le relazioni tra gli dei e gli uomini. In altre parole, è un tentativo di dare risposte ai quesiti fondamentali che l’uomo si pone sui fenomeni naturali sull’esistenza.
Ogni fenomeno della vita, compresa la morte, ha una spiegazione logica che può essere ritrovata nei simboli e nelle costellazioni raccontate nei miti. I miti riproducono in allegorie, metafore e simboli, il tentativo di integrare l’individuo dando senso alla sua sofferenza e ponendolo al riparo dal suo terrore. Spesso le vicende narrate nel mito hanno luogo in un epoca che precede la storia scritta.
Inoltre, i suoi protagonisti solitamente sono dei ed eroi come protagonisti delle origini del mondo in un contesto sacrale.
Un esempio di mito potrebbe essere la spiegazione del perché c’è il giorno e la notte.
Se non sapessimo che la terra ruota attorno al sole potremmo immaginare questa spiegazione: un gigantesco drago tiene in mano la terra ed è eternamente indeciso se divorare o no la terra-palla.
Quindi quando la tiene è in mano è giorno mentre quando la mette in bocca è notte.

Socrate e Gesù: due personaggi simili?

Gesù
Il Consolatore, Carl Heinrich BlochSocrateTesta di Socrate, Museo del Louvre

Nel 1943 Romano Guardini, sacerdote ed intellettuale italiano, naturalizzato tedesco, pubblicò La morte di Socrate, analisi di alcuni dialoghi platonici (Eutifrone, Apologia, Critone e Fedone). In quest’opera Guardini accosta la figura di Socrate a quella di Gesù, prendo spunto da questo paragone per aprire una riflessione. Secondo me quello di Guardini è un accostamento molto interessante in quanto Socrate e Gesù hanno molti aspetti comuni:

  1.  Sia Gesù sia Socrate introdussero qualcosa d’innovativo nelle rispettive società. Con Socrate, la filosofia si spostò dal ramo della natura a quello dell’uomo e dei suoi problemi (politici, religiosi) e per questo può essere definito il creatore di una nuova mentalità filosofica, possiamo definire rivoluzionario (ovviamente in ambito religioso) Gesù stesso. Gesù capovolse totalmente la concezione religiosa di allora, la dottrina da lui insegnata può riassumersi, molto brevemente, nell’amore verso Dio e verso il prossimo. Egli preferiva utilizzare concetti concreti, che rimangono in mente, e per questo si serviva d’iperboli, paradossi e parabole.
  2. Nessuno dei due personaggi lasciò nulla di scritto, i loro gesti ci sono stati narrati da altri scrittori. Grazie ai dialoghi Platonici conosciamo quella che è stata la vita di Socrate, dalle sue abitudini alle accuse che lo porteranno in tribunale e alla morte; mentre i Vangeli, sia canonici che apocrifi ci narrano la vita di Gesù.
  3. Entrambi sono stati condannati a morte per motivi principalmente politici. Il politico Anito porta Socrate in tribunale con accuse infondate; Gesù viene processato perché si definiva il re dei Giudei.
  4. Sia Socrate sia Gesù vanno incontro alla morte senza paura. Come racconta Platone nell’Apologia, Socrate affronta la morte con fiducia che la vita nell’aldilà sia migliore di quella terrena; Gesù è pienamente consapevole di quello cui va incontro e sa anche che tornerà di nuovo in vita come c’è narrato dai Vangeli.
  5. Sia Socrate che Gesù invitano l’uomo al rispetto delle leggi terrene. Socrate non fugge la propria morte per non tradire le leggi (come raccontato nel Critone). Gesù invita l’uomo a seguire la legge e la giustizia terrena avendo fede nella giustizia divina infallibile.

Questi sono i principali aspetti comuni che sono riuscito a individuare in Socrate e Gesù.

Il grande potere della parola

Elenco qui sotto alcune citazioni del filosofo Gorgia, che mi hanno particolarmente colpito:

  1. “La parola ha la virtù di stroncare la paura, di rimuovere la sofferenza, di infondere gioia, d’intensificare la commozione”
  2. “L’anima viene tutta presa nell’irresistibile magia del discorso”
  3. ” …della parola si sono ricavate due arti, quella di traviare la mente e l’altra di ingannare l’opinione pubblica”
  4. “La parola, che appunto convince, costringe la mente che ha convinta, tanto a lasciarsi sedurre da ciò che viene detto, quanto ad approvare ciò che viene fatto”
  5. “… le parole: alcune affliggono, altre dilettano, altre incutono terrore, altre infiammano chi ascolta, altre infine stregano e avvelenano l’anima, con i poteri della persuasione maligna”

Tutte queste affermazioni sono incentrate sul grande potere che ha il discorso, la parola.

La mente crea le parole

Affascinante: il primo approccio della filosofia è molto istruttivo in quanto ci fa riflettere sul vero senso della parola.

Per il filosofo dunque la parola è lo strumento con cui si trasmettono le emozioni e con cui si può fare del bene e del male; è il mezzo con cui si può ingannare la gente, con cui si può modificare la verità a proprio vantaggio e con cui si può influenzare la mente altrui.
Ciò mi ha obbligato a fermarmi un attimo a pensare, a dare una risposta affermativa alle seguenti domande:

  • quante volte dopo aver ascoltato un discorso o anche semplicemente una notizia abbiamo cambiato stato d’animo?
  • quante volte siamo stati affascinati dalle belle parole di qualcuno e siamo stati convinti che quello che stava dicendo fosse vero, anche se magari non lo era?
  • quante volte capita che noi crediamo in qualcosa e grazie a un discorso veniamo influenzati e cambiamo opinione?

Posso perciò dire che la filosofia ci permette di mettere a fuoco cose che sappiamo, ma sulle quali non ci siamo mai fermati a riflettere veramente. Addirittura possiamo trarne anche degli insegnamenti, delle massime di vita: in questo caso mi sono convinta che la parola fa parte di ciò che abbiamo veramente di nostro. Con la parola concretizziamo idee, creiamo discorsi, definiamo caratteri di persone, insomma pensiamo e comunichiamo. Per Gorgia la parola non esprime la realtà, ma conta solo per l’effetto che fa. Io non sono d’accordo perché la parola è efficacie se  richiama qualcosa di reale. La forza della parola non sta solo nei suoni, sta soprattutto nei significati. Dobbiamo però farne buon uso, perché molte volte con essa possiamo fare errori, come ad esempio dire cose che forse non pensiamo realmente, ferendo così anime di persone che non ci hanno fatto nulla. Dobbiamo riuscire a controllare le nostre emozioni e non trasformarle subito in parole! Credo quindi che la parola sia molto importante e utile, però quando siamo consapevoli del significato che le attribuiamo.

E allora, lo ripeto, non sono d’accordo con Gorgia. Per lui la parola serve ad avere la meglio sugli altri, ma può essere usata per questo soltanto grazie al significato che le dà forza. Ecco, questo è importante: la parola comunica, trasmette significati. Solo grazie ai significati può far leva su sentimenti ed emozioni, ma i significati sono prima di tutto al servizio della ragione e la ragione libera, non rende schiavi.

La ricerca della felicità

La virtù è conoscenza“; “Nessuno compie il male volontariamente“. Questi erano i principi fondamentali dell’etica di Socrate. L’assurdità di quest’affermazione può essere smentita solo se si precisa che, per il Filosofo, tutti gli uomini agiscono con l’obiettivo di raggiungere la felicità, ovvero la realizzazione della natura umana, e che per essere felici bisogna compiere il bene. Nessuno desidera l’infelicità, e, di conseguenza, nessun uomo commette il male di sua spontanea volontà.
Quindi, stando a questa opinione, tutti coloro che compiono del male lo fanno per ignoranza, la quale porta a comportamenti involontari. Chi compie il male, lo fa perché non ha trovato i mezzi appropriati, o non si è trovato nelle giuste condizioni, per raggiungere la felicità.

San Paolo affermava invece: “Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio“. Riconosceva il bene, ma si accorgeva di non riuscire a farlo.

Un poeta del I secolo a.C., Ovidio, nella sua Metamorfosi, scrisse: “Video meliora proboque, deteriora sequor“, “Vedo le cose migliori e le approvo, ma seguo le peggiori”.
Anche secondo Ovidio, dunque, l’uomo possiede la capacità di distinguere il bene e il male, e grazie alla ragione conosce e approva i mezzi migliori per raggiungere il proprio fine. Ma segue poi il male.

I pensieri di Ovidio e San Paolo, dunque, rispecchiano l’opinione comune. Socrate, invece, trascura un elemento fondamentale: caratterizza l’uomo solo come “ragionevole”, ma nell’uomo non vi è solo la ragione. L’uomo è un grande insieme di sentimenti, emozioni, impulsi, desideri, e sono essi che spingono spesso gli uomini ad agire, a compiere talvolta il male, quando la ragione non riesce a prevalere.

Sarà Platone, infatti, filosofo del V-IV secolo a.C., a precisare il pensiero socratico e ad esporre la complessa struttura dell’animo umano. Secondo lui, l’anima è suddivisibile in tre parti: una parte desiderante, costituita dalle voglie e dalle passioni; una parte razionale, che ha il compito di controllare e governare i desideri, essendo in grado di riconoscere il bene e il male; una parte animosa, o irascibile, che stimola le passioni.
Ognuna di queste parti può prevalere nell’animo degli uomini, e le diverse combinazioni di esse differenziano ogni individuo.

L’errore di Socrate, dunque, è di aver preso in considerazione solo una parte dell’anima di ogni uomo, tralasciando altri aspetti fondamentali che possono influenzare il suo modo d’agire. Le azioni compiute non derivano necessariamente da ciò che il nostro intelletto ci suggerisce di fare, ma sono frutto del nostro istinto, della nostra volontà, delle nostre necessità, spesso in disaccordo con la ragione.

La nascita dell’Arte o l’Arte della nascita ?

In principio c’erano il nulla e il tutto distinti e separati, l’uno era l’opposto dell’altro ma essendo distinti restavano sconnessi e lontani.

Poi venne quella forza che noi riconosciamo nell’arte, ciò che la genera; si manifestò, come spesso fa, in un’imperfezione: il confine delle due cose subì un’incrinatura che ruppe l’equilibrio del confine per dar vita ad una fantastica spirale mista di entrambe le cose.

Ancora oggi noi possiamo ammirare la bellezza di quest’opera artistica che chiamiamo galassia, in effetti noi ne facciamo parte e contribuiamo a renderla ancora più magnifica. L’artista non aveva però finito e continuò a creare e creare partendo dalle stelle ai pianeti, dall’acqua al fuoco, fino ad arrivare alle piante e agli animali; infine creò l’uomo, in tutto ciò che fece trasmise la sua Arte, ma nessuno oltre a lui sapeva usarla e manipolarla per trarne qualcosa di coinvolgente. Tutto ciò andava avanti e si evolveva grazie alla spinta della mano che accompagnava la crescita, ma iniziò ad arrivare per l’ormai anziano artista il momento di diventare anche lui parte del suo capolavoro, per immedesimarvisi meglio, così decise di dividersi e infondersi nelle sue creature meno belle, per dar loro la possibilità di creare il più bello, partecipando all’opera artistica non come bellezza esteriore ma come fonte di rinnovo continuo. Mentre la sua grande mano andava scemando, un’altra spinta andava rafforzandosi: quella dell’uomo che ora aveva preso il posto del suo creatore, o meglio: in ogni uomo c’è parte d’esso che gli permette d’essere diverso dalle altre creature egli infatti può creare a sua volta secondo il suo gusto e il suo beneficio.

A pensarci bene, cosa ci distingue dal resto? Forse il nostro grande cervello? I capodogli hanno cervelli che possono arrivare anche a 7 kg. No, ciò che ci distingue è la capacità di creare, costruire, trasformare, rendere arte ciò che non lo è, potremmo definire arte tutto ciò che esiste? Sì ma bisogna distinguere gli autori: tutto ciò che conosciamo e che esiste da prima di noi non è opera nostra, ma ciò che abbiamo ricostruito e rimodellato allora sì. Non importa tanto il risultato per l’artista, ma il fine per cui è stato fatto, l’ispirazione che ha dato forma all’opera.

Quanto è difficile andare d’accordo?

Discutere di un argomento o un pensiero fa parte della vita di tutti i giorni: insomma, chi può ammettere di non esser mai in disaccordo con qualcuno? Spesso ci troviamo a litigare, e le ragioni che ci spingono a intavolare una discussione sono molteplici. Ma non è nemmeno possibile dissentire su tutto: ci sono innumerevoli occasioni in cui si condivide la stessa opinione, rimanendo d’accordo e in sintonia.

Secondo Socrate, filosofo del V secolo a.C., si avranno idee discordanti su qualcosa se non c’è un’unità di misura, se il criterio che si usa per definirla rimane soggettivo. Per esempio a proposito del buono e del cattivo, del bello e del brutto, del giusto e dell’ingiusto, per i quali ognuno può parteggiare secondo le proprie idee e opinioni, non c’è una regola fissa che stabilisca cosa sia l’uno o l’altro.

Ci sono però situazioni in cui si devono prendere decisioni su cosa è giusto o ingiusto, per esempio quella in cui Socrate si trova nella sua Apologia, cioè davanti a un tribunale.

Socrate riteneva che le cause risolvibili fossero appunto quelle che hanno un’unità grazie alla quale si possono misurare, come quale sia il più numeroso tra gruppi di oggetti, o che cosa sia più pesante o più leggero. Riflette quasi matematicamente sulle domande che si pone, anche quando identifica, per esempio, il santo come un sottoinsieme del giusto, perché non tutto ciò che è giusto è santo, ma qualunque cosa santa è anche giusta. Altrimenti anche fare il calciatore sarebbe un’azione santa, perché è uno sport che fa bene, e quindi è giusto per sé stessi. Socrate però cerca di trovare una risposta non solo ai problemi oggettivi, ma anche a quelli, come il bene e il male, che mantengono un punto di vista soggettivo. Ma perché farlo, se non esiste un unità di misura e sono irrisolvibili? Il fatto che non ci sia un’unità di misura, secondo lui, non significa che essa non esista, ma semplicemente che non è ancora stata trovata, per questo è giusto porsi domande a riguardo.

Questa continua ricerca di risposte da parte di Socrate non lo spingeva in nessun modo a ritenersi esperto in qualche campo. D’altronde come spesso diceva, lui “sapeva di non sapere”, e la ricerca del sapere è ostacolata nel momento in cui una persona è convinta di sapere abbastanza. Infatti Socrate era solito far notare alle persone sicure di sé che in realtà erano ignoranti quanto lui, ma il fatto di non esserne consapevoli le rendeva meno sapienti. Per questo aveva un atteggiamento (che venne poi definito “metodo socratico”) che metteva in luce persino l’ignoranza dei più illustri maestri anche nei campi in cui essi si ritenevano professionisti. Quando finalmente davano una definizione possibile, Socrate riusciva sempre a confutarla provocandosi la loro inimicizia. In fondo, nessun uomo acculturato ammetterebbe di essere un ignorante, soprattutto se l’accusa proviene da una persona povera come Socrate.

E questo succede tutt’ora, il fatto che non si abbia voglia di “svegliarsi”, ma che si preferisca restare nella situazione in cui ci si trova, prendendo come accettabile una risposta, solo perché non si ha la pazienza di ragionarci su. Quindi la si considera inconfutabile nell’eventualità che emerga un dissenso, e la si usa poi come soluzione.

La scelta di non essere ignoranti

Di norma nel percorso scolastico di ognuno di noi, dal punto di vista didattico, si dimenticano inevitabilmente diversi degli argomenti studiati e previsti dai programmi; tuttavia, per fortuna mi verrebbe da dire, ci sono certi passi, certi concetti, certi personaggi che per un motivo o per l’altro attirano la nostra attenzione, si insinuano e si imprimono nella nostra memoria: principalmente capita, almeno secondo la mia esperienza personale, con ciò che riporta l’attenzione sulla propria vita e che spesso la fa osservare da un’angolazione diversa rispetto a quella da cui eravamo soliti osservarla.

Certamente un personaggio affascinante e, azzarderei, molto moderno come Socrate non può passare inosservato: mentre scrivo quasi temo di definirlo, rinchiuderlo in un’etichetta, come molti suoi contemporanei facevano…”Socrate, l’uomo più sapiente di Atene!” oppure “Socrate, il corruttore di giovani!”.
Ciò che ho assorbito maggiormente del pensiero socratico riguarda la sua concezione della filosofia come attività profondamente congiunta con la vita, quindi il non limitarsi alla ricerca teorica e razionale della verità, ma anche all’azione che ne deriva nella vita quotidiana.

Riguardo alla componente della ricerca teorica, essa può avvenire se si presuppone di essere in uno stato di ignoranza: d’altra parte non si può riempire qualcosa di già pieno, esso va svuotato e posto in uno stato di squilibrio per poter cogliere aspetti che nella (falsa) certezza e nella stabilità non si percepiscono. Da qui deriva la tecnica socratica della confutazione, con la quale il filosofo tormentava i cittadini di Atene: il demolire sistematicamente certi principi generali secondo i quali comunemente le persone agiscono, spesso senza neanche essersi interrogati a fondo su tali idee. Nell’Apologia di Socrate Platone riporta la critica del filosofo rivolta ai suoi contemporanei, che sono convinti di sapere (quando, in realtà, così non è neanche nell’ambito limitato delle loro professioni e abilità) ma agiscono inconsapevolmente, e quindi nel male.

Relativamente all’azione, Socrate sapeva che mettendo in causa le opinioni teoriche, anche la condotta di vita deve essere rivalutata e sottoposta ad esame, non per niente molti suoi contemporanei hanno cercato di eliminarlo (e alla fine ci sono anche riusciti). Essi peccavano di superbia, tracotanza, un concetto che i greci chiamavano hybris, cioè quella dannosa presunzione che Socrate tanto criticava: egli sapeva che nel suo non-sapere, solo chi si riconosce ignorante è in condizione di imparare, come precedentemente detto.
Ma a livello pratico, cosa significa agire? Agire significa “compiere delle scelte”.

Ecco, il punto è esattamente questo: avendo capito che la ricerca interiore si sovrappone alla vita fino a coincidervi, e che dalla ricerca razionale interiore si sviluppano delle idee, conseguentemente queste idee devono avere un peso sul nostro agire, e quindi su ogni singola scelta della nostra vita.

Noi non ce ne accorgiamo neanche, ma quotidianamente compiamo una serie di scelte, nella maggior parte delle volte inconsapevolmente, che non solo condizionano la nostra vita, ma anche quella degli altri, anche se apparentemente non sembrerebbe: cosa mangiamo, cosa compriamo, cosa guardiamo in televisione, che giornale acquistiamo sono tutte scelte che molti di noi fanno senza la giusta consapevolezza di che cosa c’è dietro a ciò che accogliamo nella nostra vita e alle quali ci conformiamo prima con l’atteggiamento e poi con altri tipi di scelte, come quelle politiche. Senza saperlo, quindi per pura ignoranza, noi compiamo delle scelte politiche ogni giorno e purtroppo anche il non fare niente e l’indifferenza sono delle scelte politiche, il cui peso non sembra caderci addosso, quando in realtà così non è, perché, in fondo, viviamo tutti nella stessa società e, metaforicamente parlando, “siamo tutti sulla stessa barca”.
Il nodo della questione, che riporta immediatamente al pensiero socratico, è la mancanza di consapevolezza: da una scelta inconsapevole, che per molti neanche tale può sembrare, ma solo un atteggiamento “conforme” e “normale” nella nostra società, non può che sfociare qualcosa di dannoso. Purtroppo noi uomini siamo egoisti e spesso se non sentiamo direttamente sulla nostra pelle il male che provochiamo non ci poniamo neanche il problema: ma se rincorriamo tanto la felicità, dobbiamo capire che è la scelta consapevole che ci rende non solo uomini, ma anche cittadini e membri di una comunità attivi, e non passivi (sinonimo di “ignoranti”). Ognuno di noi dovrebbe avere il coraggio di ammettere la propria ignoranza, alzare lo sguardo, ricercare e osservare la realtà che ci circonda, il sistema in cui siamo inseriti, e prenderne atto, per poi misurare le nostre scelte alla realtà.

Io credo che in troppi siamo naturalmente inclini alla non-osservazione, al non-ascolto, all’ignoranza, perché pensiamo di non averne bisogno, di avere già fin troppi problemi, di “farci gli affari nostri” e ci accontentiamo, ci lasciamo trasportare, viviamo nel buio della massa e non ci rendiamo conto che le scelte che non compiamo noi le compirà qualcun altro al nostro posto, e a quel punto magari borbotteremo per un po’, ma poi ci adegueremo di nuovo alla nostra vita di sempre, ricadendo del vortice della passività.
Ma è solo con l’osservazione e la riflessione che possiamo elaborare una consapevolezza, e quindi compiere delle scelte consapevoli, che giuste o sbagliate esse siano. Dobbiamo avere il coraggio di ammettere la nostra superbia, abbatterla e capire che con la consapevolezza e con la ricerca ci è possibile compiere delle scelte dignitose e produttive, inclini verso il bene comune, e non quello, fasullo, del singolo.

Ma anche la consapevolezza è una scelta: la consapevolezza espone l’uomo a delle libertà che spesso non sapeva di avere e che forse non vorrebbe neanche avere, per quanto difficili sono le scelte che ne conseguono. Ma ecco, la parola chiave forse è proprio “libertà”: sono la conoscenza, il sapere, la consapevolezza che ci rendono veramente liberi, non le sicurezze fasulle che ci trasmette il sistema in cui viviamo, che, politicamente parlando, sia democratico o meno.
Scegliere di voler diventare consapevoli è un atto di coraggio e pone l’uomo nel mezzo di un percorso, il percorso della ricerca, della libertà e della scelta che porta al bene.

Socrate, “Chi era costui”?

La figura di Socrate è fondamentale per lo sviluppo non solo della filosofia greca, ma di tutto il pensiero occidentale.

Il suo insegnamento, infatti, ha aperto la strada alla ricerca del sapere ed esercita tutt’oggi una grande influenza su filosofi e intellettuali.

Quella di Socrate, nell’Atene del V sec.  a.C. fu una vera e propria “missione”, un esame incessante su se stesso e sugli altri condotto sempre con umiltà propria di chi  “sa di non sapere”. È proprio questa consapevolezza che funziona come uno stimolo alla ricerca, una ricerca, però, portata avanti con quel gioco di parole comunemente conosciuto con il nome di eironeia.

Così in un “variopinto teatro” di finzioni, il maestro, perché soprattutto questo era in fondo Socrate, spinge i suoi discepoli ad aprire le menti e a liberarle da quelle pseudo – certezze che le imprigionano.

Ecco appunto il filosofo simile alla levatrice che con la sua abilità e con il suo assillante “Che cos’è?” aiuta gli uomini a “partorire” quelle verità che tengono nascoste da tempo dentro di sé.

Così grazie a Socrate ciascuno ha imparato anche il mestiere di vivere, a distinguere il bene dal male.

Insomma, in poche parole, a essere un uomo.

David - La morte di Socrate