Il giorno 4 dicembre ci siamo recati al teatro Fellini di Rozzano per assistere all’incontro con i detenuti. Inizialmente i detenuti hanno messo in scena un breve spettacolo improvvisato di una serata trascorsa con gli amici, recitata utilizzando ,come copione, le loro esperienze di quando avevano la nostra età. Già questa prima introduzione ha suscitato in me diversi interrogativi e, ripensando a ciò che avevano detto durante lo spettacolo , anche un po’ di timore per le scelte sbagliate fatte nella loro giovinezza.
Dopo la rappresentazione hanno dato la possibilità ad alcuni ragazzi, che avevano delle domande, di salire sul palco. Ero molto incuriosita e, dopo un po’ di indecisione, decisi di andare assieme ad alcuni compagni di classe e ci fecero sedere tra i detenuti. Appena salii sul palco mi sentii a disagio perché molte persone mi stavano guardando.
Riflettendoci mi resi conto che i carcerati dovevano avere un grande coraggio per venire su un palco a raccontare la loro storia e ammettere i loro errori.
Durante il dibattito ci spiegarono che tutti i detenuti attorno a noi fanno parte di un gruppo di sostegno ( il gruppo della trasgressione) e dopo diversi anni erano riusciti a parlare dei propri sbagli.
Mi accorsi che molti errori che avevano fatto da ragazzi erano dovuti alla mancanza di guide, genitori o parenti , o alla scelta di imitare modelli “sbagliati”.
Molti dei detenuti ci hanno raccontato la loro esperienza e tutti concordavano sul fatto che spesso il sistema carcerario italiano non li aiuta, al contrario li rende solo più aggressivi e molti di loro quando escono di prigione sono molto più informati sulla criminalità di quando erano stati arrestati.
Tutti parlavano dei propri crimini con un po’ di vergogna ma soprattutto con tristezza perché hanno realizzato quanto dolore hanno provocato compiendoli. Quando sono salita sul palco ero condizionata da tutti gli stereotipi che la gente crea ma, dopo questo incontro, ho capito che una persona può realmente cambiare se ci mette dedizione. Stando seduta al fianco di quelle persone mi sono accorta che hanno impegnato anima e corpo solo per rimediare, anche di poco, agli errori da loro commessi. Auguro ad ognuno di loro di avere la possibilità di ricominciare una vita onesta e di poter riabbracciare e loro famiglie.
Il 4 dicembre 2013 i nostri studenti hanno assistito ad uno spettacolo del Gruppo della Trasgressione, nato nel 1997 a San Vittore, e presente oggi anche nelle carceri di Opera e Bollate e all’esterno del carcere nei locali della ASL Milano, Corso Italia 52. Ne fanno parte detenuti e comuni cittadini.
Iniziamo oggi la pubblicazione delle riflessioni degli alunni della terza G del Liceo scientifico di Noverasco.
Mercoledì 4 dicembre 2013 – Teatro Fellini “Gli uomini sono angeli con un’ala soltanto: possono volare solo rimanendo abbracciati”: Le mie sensazioni all’incontro con i detenuti
la forza propulsiva che spinge a vivere quindi non si trova da soli: siamo dipendenti dal nostro ambiente, dalle persone che ci circondano, dai nostri esempi. Perciò è importante trovare una seconda ala che non ci guidi nella via della perdizione ma ci induca a scegliere il bene non solo per noi ma anche verso la comunità: come disse John Donne “Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto”.
La nostra vita non è priva di senso tanto meno quella delle persone che ci circondano, non è un’ombra che cammina ma è una grande attrice che recita nel teatro dell’esistenza sin dai tempi del big bang e non importa in quale aspetto si presenti perché è in incessante divenire: chissà se proprio quel bruco insignificante che stavamo per calpestare si è trasformato nella più bella farfalla del giardino di casa nostra o se quella semplice prima molecola di amminoacidi nel corso dell’evoluzione di milioni di anni è diventata il nuovo Premio Nobel per la pace.
La ricerca della miglior musa ispiratrice è difficile e capita di smarrirsi durante l’esplorazione , proprio come è capitato ai detenuti del “gruppo della trasgressione” e ai loro compagni. Durante l’incontro si sono inizialmente espressi teatralmente improvvisando e il loro spettacolo è funzionato da prologo per comprendere a fondo le identità presenti sul palco che apparivano uomini ordinari -come possono essere uomini comuni l’autista che guida il bus che ci porta a scuola, il fruttivendolo, i nostri vicini di casa- invece i personaggi descritti durante l’esibizione ci hanno condotti in un mondo che a coloro i quali sono liberi appare lontano ma che in realtà ha il suo nucleo proprio di fianco a noi, in via Camporgnago, Via Cristina Belgioioso, Via Gian Battista Vico e tra noi in ogni uomo che commette atti criminosi.
Per la società che non ha partecipato all’incontro è semplice fare di tutta l’erba un fascio: davanti a un carcerato spesso non vede margine di miglioramento, trova un morbo che si è fagocitato l’umanità caratterizzante ogni singolo abitante terreste; non tutti hanno la sensibilità per scorgere la richiesta di aiuto e di ascolto che questi uomini urlano al mondo per uscire dal tunnel della spietatezza e cercare di non rientrarci più attraverso l’accettazione; ma i membri del “gruppo della trasgressione” mercoledì tra le righe ci hanno confidato che nonostante la veneranda età hanno compreso di non aver ancora iniziato a vivere nel momento in cui si sono resi conto di aver trascorso tanto tempo a compiere reati per trarne soddisfazione e vana gloria effimera alla ricerca di adrenalina, attenzione.
Sentire il loro cuore dolorante battere tra le proprie mani è stata una sensazione indescrivibile, esperienze toccanti come queste ti avvicinano alla comprensione delle meraviglie del cuore umano.
Auguro a tutti loro di ritrovare la loro vita e di non scoraggiarsi mai, quanto auguro a tutti di cercare con coscienza le proprie guide senza cadere nel tranello della semplicità o nella scorciatoia più breve. Il nostro destino lo plasmiamo noi con le nostre mani.
Non si può discendere due volte nel medesimo fiume (…)
Così diceva Eraclito, più di duemila anni fa.
Sembra un’affermazione assurda, se non si tiene in considerazione un fattore importante che domina e condiziona la nostra vita in ogni momento: il tempo. Esso implica che ogni nostro istante non sia mai uguale all’altro e che noi non siamo mai gli stessi da un istante all’altro. In ogni momento noi non siamo più quello che eravamo un momento prima, il nostro corpo è cambiato, la nostra mente è cambiata, il nostro pensiero è un altro pensiero che lo si voglia o no. Ciò vale per noi come esseri umani, corpi vivi e mutevoli, ma anche per tutto ciò che ci sta attorno, compresi gli oggetti inanimati come l’acqua di un fiume.
Ne consegue un problema: se qualsiasi cosa intorno a noi cambia e non è più la stessa di prima, come possiamo identificarla con lo stesso nome?
Aristotele divide i corpi terrestri in due categorie: privi di vita e viventi. Gli interessano soprattutto i secondi, perché sono i più complessi. Come molti antichi, egli interpreta la natura esistente attraverso un modello biomorfico: spiega il non vivente per mezzo di concetti maturati grazie all’analisi dei viventi. Gli esseri viventi e non viventi sono costituiti dagli stessi elementi, i primi però hanno una forma diversa: l’anima. Ma che cos’è l’anima? Aristotele lo spiega nel De Anima, introduzione alle sue opere di biologia. Definisce l’anima come «La forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza» o come «l’atto primo di un corpo naturale dotato di organi», dove “atto primo” indica il principio di ogni attività vivente.
Che differenza rispetto a Platone! L’anima non è più un essere indipendente dal corpo ed imprigionato in esso come in una prigione o in una tomba. L’anima è, per Aristotele, la struttura stessa del corpo e dirige il funzionamento dei suoi organi per mantenerlo in vita. Quando l’anima lascia il corpo, questo diventa un cadavere senza vita. Le funzioni dell’anima sono, per Aristotele, tre: vegetativa, sensitiva ed intellettiva. L’anima vegetativa governa le attività più elementari: la nutrizione e la riproduzione, ad esempio nelle piante; l’anima sensitiva, tipica degli animali, comprende le funzioni di quella vegetativa ed è arricchita dalla sensibilità e dal movimento. Infine gli uomini possiedono l’anima intellettiva, perché sono dotati dal pensiero e dalla volontà. L’anima intellettiva è superiore a quella vegetativa e sensitiva e svolge anche le loro funzioni inferiori. Per Aristotele l’anima è unitaria, invece per Platone è suddivisa in tre parti (razionale, animosa e concupiscibile) in conflitto fra loro.
Nel De Anima il filosofo afferma che la sensibilità è la capacità di provare percezioni attraverso i sensi. Percezione significa, per l’organo di senso, assumere la forma sensibile di un oggetto. La percezione è un passaggio dalla potenza all’atto sia dell’organo che percepisce sia dell’oggetto che è percepito in atto. Negli organi si forma un’immagine dell’oggetto chiamata phàntasma, conservata nella memoria e riprodotta dall’immaginazione (phantasìa).
Secondo la dottrina aristotelica, l’anima è forma, cioè organizza intimamente la struttura di ogni essere vivente. Tale dottrina ha permesso ad Aristotele di fondare la biologia. Egli anche in biologia resta fedele alla sua gnoseologia e parte sempre dall’osservazione diretta del mondo reale. Nel trattato Historia animalium, composto da otto libri, Aristotele descrive 581 specie diverse di animali da lui stesso osservate in Asia Minore e sull’isola di Lesbo. In seguito, nel De partibus animalium egli distingue tutti gli animali in generi e specie, e crea una classificazione rimasta invariata fino a Carlo Linneo nel Settecento.
Inizialmente Aristotele suddivide gli animali che possiedono sangue da quelli che ne sono privi (oggi tale divisione corrisponde alle due categorie di animali vertebrati ed invertebrati): tra i primi elenca i mammiferi (terrestri e vivipari), i rettili e gli anfibi (terrestri e ovipari), gli uccelli (aerei o vivipari) ed infine i pesci (acquatici e ovipari). All’interno della seconda categoria egli classifica gli animali privi di sangue secondo vari criteri, per esempio in base alla durezza o alla mollezza della pelle. Per la prima volta pratica la dissezione per studiare le parti interne di cui gli animali sono costituiti; grazie a tale procedura Aristotele distingue i tessuti, formati da parti omogenee e gli organi, formati da parti eterogenee. Studiando gli organi, il filosofo ricerca la causa finale, scopre così per primo l’importante principio della biologia, secondo il quale la funzione svolta dall’organo spiega anche come l’organo è fatto. Aristotele spiega così l’apparato locomotore, digerente, respiratorio e riproduttivo.
Aristotele nacque nel 384 a.c. presso Stagira, una città a Nord della Grecia. Era figlio di Nicomano e Festide. Suo padre era il medico personale del re di Macedonia Aminta, mentre la madre era una donna originaria di Calcide.
Disgraziatamente il futuro filosofo perse in giovane età entrambi i genitori e per questo venne cresciuto dal cognato Prosseno di Atarneo, marito della sua sorella più vecchia. Nel 367, quando aveva solo diciassette anni, andò ad Atene e riuscì ad entrare nell’Accademia di Platone, mentre questi si trovava a Siracusa con lo scopo di insegnare la filosofia a Dionisio il Giovane. Aristotele rimarrà nell’Accademia fino alla morte del maestro Platone, frequentandola per venti anni ed assumendovi un ruolo sempre più importante, passando da allievo ad insegnante. Il periodo trascorso da Aristotele nell’Accademia, detto «periodo accademico», fu decisivo per la sua formazione.
Il primo scritto risale al 362, anno in cui morì in battaglia Grillo, figlio di Senofonte. Aristotele compose un dialogo dedicato al defunto, chiamato perciò Grillo, nel quale criticò la retorica fondata esclusivamente sulla mozione degli affetti, riprendendo alcuni concetti di Platone e mostrando una grande abilità nello scrivere.
Forse per questo, Platone, ritornato senza successo da Siracusa, gli affidò un corso di retorica nel quale sostenne una stretta connessione tra la retorica stessa e la dialettica. In seguito dovette occuparsi anche della dialettica affiancata alla matematica come educazione dei futuri governanti.
Da questo momento in poi il giovane Aristotele iniziò a scrivere la parte più importante delle sue composizioni riguardanti la dialettica, i Topici. Successivamente, quando tra i membri dell’Accademia si aprì il dibattito sulla dottrina delle idee in seguito alla composizione del Parmenide di Platone, Aristotele scrisse un trattato Sulle idee ,quasi completamente perduto, in cui criticò la separazione delle idee dalle realtà sensibili e la mescolanza tra idee e cose.
In seguito trascrisse insieme ad altri suoi compagni il corso tenuto da Platone sulla dottrina dei principi, in un trattato chiamato Sul bene, anch’esso quasi completamente perduto. Su tale dottrina egli compose un dialogo Sulla filosofia, in cui confutò le idee-numeri di Platone e riprese con alcune modifiche la concezione dei principi del maestro.
Poco dopo il 354, anno della morte dell’amico e compagno Eudemo di Cipro, Aristotele compose un altro dialogo, l’Eudemo, riprendendo lo scopo consolatorio del Grillo, in cui sostenne l’immortalità dell’anima riprendendo il tema trattato da Platone.
Nel medesimo periodo scrisse un discorso sotto incarico di Platone indirizzato al re Temisone di Cipro, nel quale difese lo scopo delIa filosofia professata nell’Accademia rispetto a quella professata da Isocrate e dalla sua scuola.
Durante la sua permanenza all’Accademia Aristotele scrisse molti altri dialoghi che trattavano tematiche prese da quelli di Platone, ma purtroppo la maggior parte di questi sono andati perduti.
Molti altri materiali prodotti da Aristotele non sono giunti fino a noi, soprattutto quelli di cui si serviva per insegnare all’Accademia. Già in questo periodo egli aveva sviluppato concetti personali diversi da quelle di Platone, sebbene egli ritenesse molto valida la concezione platonica della filosofia e della cultura.
Nell’ultimo periodo della sua vita, il filosofo Platone (V-IV secolo a.C.) scrisse due dialoghi dedicati alla politica, ma profondamente diversi tra loro per idee e contenuti. Nel primo dialogo, Il Politico, Platone descrive come dev’essere il perfetto uomo politico e differenzia sei tipologie di costituzione. Secondo il filosofo, la risorsa fondamentale di chi governa è la ragione: egli non ha bisogno di leggi, poiché deve possedere unicamente la capacità di governare qualunque comunità, ovvero la “scienza regale”, come un moderatore. Per il filosofo, infatti, il buon politico doveva essere in grado di unificare e mescolare gli elementi che compongono una comunità con una giusta misura, ovvero come un buon misuratore. Platone ritiene però molto difficile trovare buoni politici. Perciò, suddivide i sei diversi tipi di governo in due gruppi: quelli buoni, che rispettano le leggi, ovvero la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia; e quelli “cattivi”, basati invece sulla violazione delle leggi, ovvero la tirannide, l’oligarchia e un’altra forma di democrazia. La legge può dunque supplire alla mancanza del buon misuratore. Platone considera la monarchia la costituzione migliore, poiché essa consiste nel governo del buon politico, mentre la tirannide quella peggiore.
E se questo “buon politico” non fosse davvero così buono? A parer mio la monarchia non può essere considerata il governo migliore, in quanto si basa esclusivamente sulle scelte e sui pensieri di un’unica persona, non sempre dotata della “scienza regale” citata da Platone. Un singolo uomo non può essere in grado di prendere le decisioni migliori per il proprio popolo, anche se egli fosse l’uomo più saggio del mondo, poiché non potrà mai trovarsi in accordo con tutti i cittadini. La monarchia, infatti, potrebbe diventare rischiosa se vista come un modo per possedere il pieno potere (portando, talvolta, alla tirannide), senza prendere in considerazione i diversi bisogni di una comunità. L’essere umano ha il diritto di esprimere le proprie idee, le proprie opinioni, ed è indispensabile che tutti vengano ascoltati, per far sì che, tutti insieme, si raggiunga la decisione migliore e si verifichi una condizione di “buon governo”. Bisogna quindi dare ad ognuno la possibilità di manifestare i propri pensieri, come avviene per esempio in democrazia, tramite elezioni e referendum.
Come Platone stesso affermerà nel suo ultimo dialogo politico, Leggi, in contraddizione con il suo precedente scritto, non esiste un modello migliore di governo. La costituzione migliore deve possedere le qualità più valide presenti nei diversi tipi di governo, e deve essere in grado di maneggiarli con attenzione. Bisogna dunque sfruttare ciò che di meglio si trova nelle diverse situazioni e riunire alcuni degli elementi presenti nelle diverse costituzioni.
Le leggi servono, non sono superflue. Esse sono in grado di guidare lo stato verso ciò che è utile per la comunità, e lo fanno in termini generali, senza analizzare i singoli casi; sono indispensabili, poiché garantiscono la libertà ai cittadini, ma devono essere scritte con la saggezza e il buon senso umano, senza esagerare, perché è su queste caratteristiche che si basa una forma di buon governo.
Sia Platone sia Cicerone dedicano alla riflessione politica un ampio spazio ed entrambi scrivono un dialogo intitolato La Repubblica. Ma che cosa avvicina il filosofo greco all’uomo latino? Quali idee condividono e in quali, invece, divergono? Per scoprirlo bisognerà partire proprio dall’analisi delle due opere che li accomunano per il titolo scelto.
La Repubblica di Platone ha la giustizia come tema principale. Nel II libro Socrate, dopo aver confutato alcune definizioni circa il significato di giustizia, propone di ricercare che cosa è la giustizia in un quadro più ampio e, dunque, più facile da analizzare: lo Stato.
L’indagine è resa possibile dal legame fra etica e politica; infatti, non può esistere una società buona senza che anche i suoi membri lo siano per primi.
Socrate considera un modello di Stato piuttosto semplice in cui gli uomini soddisfano solamente i bisogni fondamentali: il sostentamento materiale e la difesa. Questi due bisogni spingono, perciò, il legislatore a riorganizzare i cittadini in classi, dove troviamo i lavoratori, i guardiani difensori dello Stato e, infine, i governanti. Ogni membro di questa società lavora per realizzare solo cose di carattere positivo.
Successivamente, riadattando un vecchio mito di Esiodo, le tre classi vengono associate alle tre parti dell’anima: alla sapienza, al coraggio e alla temperanza. La giustizia, perciò, consisterà nell’ordinamento per cui ciascuno svolge le attività che gli competono naturalmente senza usurpare quelle degli altri.
A trarre ispirazione e a scrivere un trattato politico sullo Stato a partire dalla Repubblica di Platone, è Marco Tullio Cicerone, autore tra il 54 e il 51 a.C. del De re publica. Non c’è dubbio. Innanzitutto, perché in quest’opera anche Cicerone, come Platone, ragiona su quale sia lo Stato perfetto; poi, perché ritorna il modello del dialogo platonico; infine perché il mito di Esiodo che chiude l’opera platonica è la fonte della sezione conclusiva dell’opera di Cicerone, il Somnium Scipionis. Ma Cicerone, a differenza di Platone, evita qualsiasi discorso ideale o astratto e preferisce proiettarsi nel passato, facendo riferimento a Stati veramente esistiti. La sua originale rielaborazione dell’opera platonica si fonda, infatti, sulla comparazione tra il pensiero greco e la tradizione etica, politica e giuridica romana.
Egli ambienta il suo dialogo nel 129 a.C., anno della costituzione romana presieduta dagli Scipioni, di cui Scipione Emiliano è uno dei maggiori protagonisti.
In primo luogo discute delle tre diverse forme classiche di governo: la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia. La conclusione? Semplicemente si afferma che inevitabilmente queste degenerano nelle loro forme estreme, ovvero la tirannide, l’oligarchia e l’oclocrazia.
La soluzione non è astratta, anzi, concreta: lo Stato migliore è il regime “misto” della res publica romana (e qui riecheggia di nuovo Platone),che, per fortuna, sa essere un po’ monarchia, un po’ aristocrazia, un po’ democrazia.
Segue, poi, nel libro VI il Somnium Scipionis, che rappresenta il più importante frammento pervenutoci del De re publica, in cui Scipione Emiliano racconta agli interlocutori di un sogno fatto anni prima, all’inizio della terza guerra punica. Egli aveva visto in sogno Scipione Africano che gli parlava dall’alto della via Lattea, sede dei grandi uomini, rivelandogli il destino delle anime dei defunti.
Il messaggio di Cicerone, così come si esprime per bocca dell’Africano, è duplice: gli uomini devono aspirare alle cose celesti; là, tra l’armonia di quelle sfere, le anime troveranno la vera ricompensa; la gloria umana, osservata dalle altezze del cielo, appare ben piccola cosa, quindi, finché essi saranno sulla terra il loro dovere sarà servire la patria, ma senza insuperbirsi. ma finché saranno sulla terra il loro dovere sarà servire la patria, senza insuperbirsi.
Da tutto ciò sappiamo che Cicerone era totalmente legato alla tradizione della res publica aristocratica. Per lui la fedeltà alla tradizione implicò anche scelte che oggi non sembrano condivisibili: leader degli oligarchici, egli per regola e abitudine metteva sempre al primo posto i boni cives, i possidenti (quelli che, invece, per Platone erano filosofi) e che erano anche i primi destinatari delle sue opere.
Dal confronto, fin qui condotto, tra il pensiero platonico e quello ciceroniano, è evidente come Cicerone, al contrario di Platone, abbia un’idea politica più concreta e chiara. Cicerone si appella sin dall’inizio ai cittadini romani affinché si impegnino politicamente, si sofferma sulla specifica costituzione della res publica romana e fa continui riferimenti a Roma. Il pragmatismo di Cicerone, dunque, costituisce il punto di forza della sua opera, laddove l’idealismo platonico è motivo di debolezza. Entrambi, però, hanno un limite: porre come unica guida dello Stato un’ èlite illuminata e individuare in modo netto ruoli e compiti di ciascuno.
Tutto questo, infatti, se applicato alla lettera potrebbe finire per escludere il popolo da una partecipazione attiva alla politica e per diventare all’interno degli Stati attuali un vero e proprio strumento di discriminazione e sopraffazione sociale.
Platone scrisse molti dialoghi durante la sua vita. Essi hanno natura prevalentemente polemica e spesso si chiudono senza che gli interrogativi proposti abbiamo trovato una risposta. Uno fra questi è il Menone in cui viene per la prima volta affrontata la teoria della reminiscenza o dell’anamnesi.
Per Platone infatti apprendere, e quindi conoscere non è altro che richiamare alla memoria e ricordare quanto già si sapeva.
Quindi vuol dire che una persona può conoscere già tutto semplicemente ricordando quello che già sapeva nella vita precedente?
Infatti nel Menone Platone prova la sua tesi con l’esempio pratico di uno schiavo che risolve un problema di geometria solo rispondendo ad alcune domande: questo perché, non avendo mai studiato geometria in quella vita, ha ricordato ciò che la sua anima aveva appreso nell’aldilà.
Probabilmente oggi nessuno crede più a questa teoria. In effetti, la teoria di Platone è poco convincente. Platone sembra pensare che si possa arrivare alla verità solo in maniera passiva , contemplandole nell’Iperuranio. Eppure lo schiavetto potrebbe essere arrivato alla soluzione, non perché ricorda, ma perché, sollecitato dalle domande, è riuscito a trovare soluzioni per lui nuove.
Per Platone neppure un dio come il Demiurgo crea. Plasma soltanto, ad imitazione delle idee. Ma noi, uomini d’oggi, lo sappiamo: gli esseri umani sono capaci di scoprire cose nuove, sono grandi creatori.
La vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia. Tutto soffre, persino l’amore è un’illusione. Il filosofo argomenta così: l’amore puro non esiste in quanto, in fondo, è espressione del nostro egoismo, del nostro tornaconto personale e strumento della Natura per perpetuare la vita. Noi nobilitiamo l’amore, lo idealizziamo, ma in realtà è l’espressione del “desiderio sessuale”. E il desiderio, nel momento in cui non è appagato, è mancanza che produce “dolore”. Una volta poi che viene appagato, si arriva alla noia e poi ad un nuovo desiderio, e così via.
Il filosofo non solo spoetizza l’amore, ma tralascia l’aspetto positivo del desiderio (che non esprime solo mancanza, ma anche la gioia dell’attesa) e del godimento. Vede solo ciò che è negativo.
La vita è dunque desiderio insaziabile, manifestazione di un’unica Volontà, senza causa né scopo, che è la radice noumenica, cioè il fondamento metafisico di ogni cosa.
Ma come liberarsi allora da questa “terribile” vita che ci si prospetta?
Egli in primo luogo condanna il suicidio: non è un buon rimedio al problema. La soppressione di un singolo individuo, oltre ad esser un estremo atto di volontà, non comporta alcun danno alla Volontà stessa, che continua ad esistere nel resto del mondo.
Vengono così proposte tre vie di “salvezza”.
L’arte, contemplazione disinteressata degli archetipi (non “questo amore”, ad esempio, è l’oggetto dell’arte, ma “l’amore”, il modello di amore), libera l’individuo dalla catena quotidiana dei desideri e dei bisogni.
La “pietà”, amore disinteressato verso il prossimo, nasce dal sentire come nostro il dolore altrui e ci libera dall’egoismo.
E, per ultima, l’ “ascesi”: la soppressione di ogni desiderio di vita.
Schopenhauer evidenzia quest’ultima come il punto di arrivo, il traguardo a cui bisogna giungere per essere davvero liberi dall’infinita catena di desideri, noia e dolore che fin qui ci ha perseguitati. Non mi convince per nulla!
Se noi siamo manifestazioni della Volontà, come potremmo sottrarci ad essa? Se è davvero parte di noi, come possiamo sopprimerla senza autodistruggerci? E infine, la nostra eventuale volontà di liberarci dalla Volontà, non sarebbe, comunque, un atto di volontà? Mi sembra una di quelle conclusioni campate per aria che ogni studente, almeno una volta nella sua carriera scolastica, ha scritto per finire in fretta il tema di italiano e consegnarlo prima al professore.