La torre d’avorio
Berlino, 1946. Al termine della guerra iniziano i processi ai sostenitori del regime nazista. Un ufficiale dell’esercito americano, il maggiore Steve Arnold (Luca Zingaretti), è chiamato ad indagare su un famoso direttore d’orchestra, Wilhelm Furtwängler (Massimo De Francovich). L’artista non ha mai abbandonato la Germania: pur non avendo mai sostenuto il nazismo né preso la tessera di partito, ha continuato la propria attività in patria. Nella sua mente, il musicista era utopisticamente convinto che l’arte e la cultura dovessero essere mantenute vive per contrastare le atrocità della politica. Ma fino a che punto l’Arte può considerarsi libera dai condizionamenti del Potere? Non è forse vero che continuare ad esibirsi sotto un regime dittatoriale sottintende l’appoggio al sistema?
Nella sala carica d’attese e riecheggiante delle parole di discorsi lasciati incompiuti tra il pubblico, il sipario si apre accompagnato dalle battute conclusive dell’Ottava Sinfonia di Beethoven, un artificio assolutamente efficace e dall’evidente impronta cinematografica.
L’ambientazione nella quale prende luogo la vicenda benché sia complessivamente spoglia (lascia vuoti ampi spazi) è ricercata nell’attenzione dei particolari e ben si amalgama con la fredda luce delle lampade al neon che suggerisce il desolante freddo dell’inverno tedesco che violentemente abbraccia chi esce dall’enorme portone ligneo sulla parete di sfondo. Come nel primo atto la fredda luce del neon proiettava nello spettatore la morsa del gelo così, nel secondo atto, una luce più calda avvolge l’ambiente e i personaggi vestiti con abiti estivi. Il tempo non intacca, nel burbero ufficiale dell’esercito americano, la ferrea convinzione della colpevolezza di Furtwängler.
I personaggi sono psicologicamente approfonditi, fatta eccezione per il tenente David Wills (Paolo Briguglia)che manca di spessore e sembra alquanto fioca come figura e per il maggiore Steve Arnold (Luca Zingaretti) che si spoglia della maschera della rozzezza e della poca cultura indossata sin dall’inizio e si carica di una profondità d’animo solamente nei risvolti finali della vicenda (anche se mantiene un’impostazione cinematografica nella recitazione). Straordinaria e toccante l’interpretazione di un sempreverde Massimo De Francovich capace d’essersi profondamente calato nel direttore d’orchestra Furtwängler.
Nello scontro tra i due uomini, così diversi e così poco disporsi a capirsi, diventa una questione etica sempre attuale: fino a che punto l’Arte può considerarsi libera dai condizionamenti del Potere? Non è forse vero che Continuare ad esibirsi sotto un regime dittatoriale sottintende l’appoggio al sistema?
Uno spettacolo che risulta piacevole, fluido in ogni sua parte, con pieghe comiche, a parer mio, troppo accentuate ma che sicuramente snelliscono una struttura narrativa di per sé ponderosa e impegnativa.