Tutti gli articoli di Simone Caronni

I puntini di sospensione

I puntini di sospensione sono un segno di punteggiatura costituito da un gruppo di tre punti, non uno in più non uno in meno, disposti in modo consecutivo e scritti orizzontalmente. Essi hanno varie funzioni,  tra queste la principale e più frequente è la pausa, quindi nella lettura essi si possono paragonare ad un intervallo fonetico come la virgola. I puntini di sospensione furono inventati nel 1496 da Richardus Rufus Neglia, feudatario dell’epoca. Al giorno d’oggi molte persone fanno uso di questo segno, però non sempre nel modo corretto; infatti i puntini di sospensione sono molto utili poiché esprimono incertezza, reticenza, imbarazzo e vaghezza… Il guaio qual è? Qualcuno esagera. E usa i puntini per mascherare atteggiamenti inconfessabili. Probabilmente è proprio questo il motivo per il quale il segno è diventato tanto popolare negli ultimi tempi. Gli individui che utilizzano i puntini di sospensione per scopi non affini alla reale funzione grammaticale che essi svolgono, ma per altri motivi, quali la mancanza di costanza o il coraggio di finire un ragionamento, vengono definiti “Puntinisti”. Raramente questo gruppo di puntini esprime un pensiero compiuto, accompagna invece la maggior parte delle volte mezze ammissioni, spunti, accenni e piccole vigliaccherie (non ho il coraggio di dire qualcosa, e alludo).

A questo punto la domanda che viene da porre è: da dove viene e a cosa è dovuta questa moderna mania puntinista?

Secondo Beppe Severgnini essa ha una doppia origine: biografica (per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta) e tecnologica (per chi è venuto dopo).

Negli anni Sessanta c’era una generazione corrotta dalla corrispondenza intimista, dove era molto frequente l’uso di fitte lettere scritte a mano, per diluire in quattro pagine ciò che non si aveva il coraggio di dire con poche frasi. In queste lettere era presente un numero spropositato di puntini di sospensione, come se non bastasse disposti anche casualmente. Essi erano la rappresentazione grafica di una generazione sospesa (politicamente, culturalmente e sessualmente).

I giovani d’oggi, invece, sono stati traviati dalla tastiera del computer e dai messaggi sul telefonino. Basta tener premuto il tasto del punto e i puntini partono come una raffica di mitragliatrice. Sono tanti, facili,rapidi e pericolosi: bisogna schivarli, se vogliamo evitare che in una frase ci siano più puntini che parole!

frontespizio del libro di Severgnini L'Italiano. Lezioni semiserie

Platone e la dialettica

Platone
Platone

La dialettica è per Platone la tecnica propria della filosofia, tant’è vero che egli è generalmente considerato il padre della dialettica. Il termine identifica un metodo discorsivo, cioè fondato sull’uso di concetti, parole e  proposizioni in cui le idee vengono spiegate mettendole in relazione le une con le altre. Quando descriviamo una cosa con le parole, infatti, non facciamo altro che mettere in relazione questa cosa con le altre, individuando che cosa di essa può essere detto e che cosa no. Per capire meglio questo concetto si può far riferimento ad un semplice esempio: vogliamo sapere che cos è la giustizia; il metodo da seguire per arrivare a rispondere a questo quesito, seguendo la definizione del termine “dialettica”, consisterà nel mettere in relazione l’idea di giustizia “in negativo” con le cose che non è, poi in “positivo” con le cose che è. Nel primo caso troveremo, ad esempio, che la giustizia non è empia, nel senso che una definizione di giustizia compatibile con il fatto che un uomo giusto sia anche empio non è possibile. Mentre nel secondo caso troveremo che la giustizia è “coraggiosa”, nel senso che una definizione di giustizia compatibile con il fatto che un uomo giusto non sia coraggioso non può essere corretta. In sintesi la dialettica è, nella sua essenza, l’arte di riunire (quindi l’analisi) e dividere (la sintesi), di collegare organicamente, in base a precisi rapporti ciò che è relativamente unitario a ciò che è relativamente molteplice, ciò che è relativamente universale a ciò che è relativamente particolare. Detto questo possiamo giungere alla conclusione che la dialettica di Platone è suddivisa in due tipi: la dialettica come confutazione e la dialettica come unificazione e divisione. Per quanto riguarda la prima, sappiamo che Platone parla della dialettica per la prima volta nel Menone, dove contrappone il modo di discutere e di confutare praticato dai sofisti, che mira al successo con tutti i mezzi, persino con l’imbroglio, al modo di discutere praticato tra amici, dove ciascuno difende ugualmente la propria tesi, ma solo con mezzi leciti; quindi dando risposte sincere alle domande dell’interlocutore usando solamente le premesse che questi ha concesso. Quest’ultima è la vera dialettica, l’arte di confutare sulla base delle premesse concesse dal proprio interlocutore. Sempre nello stesso testo, Platone precisa che la dialettica si serve di ipotesi, di cui ignora la verità e ne deduce le conseguenze, per giudicare in base a queste se l’ipotesi sia vera o falsa. Come si possa accertare la verità, viene detto nella Repubblica, dove Platone afferma che per arrivare al principio anipotetico, bisogna “distruggere le ipotesi” ovvero confutarle. Ciò significa che bisogna prima formulare tutte le ipotesi possibili riguardo ad un argomento, poi cercare di distruggerle tutte mediante delle confutazioni, l’ipotesi che riuscirà a resistere alle confutazione, una volta distrutte tutte le altre, sarà quella vera, cioè un principio non ipotetico. Per quanto riguarda il secondo tipo di dialettica Platone precisa ulteriormente il significato del termine, definendolo un metodo, un percorso del sapere per ricondurre ciascuna specie di cose molteplici all’unica idea a cui tutte partecipano, questa idea insieme con le altre idee del medesimo tipo all’idea superiore e più generale. Nel Fedro, infatti Platone afferma che la dialettica è l’arte di ricondurre il molteplice all’uno, o “unificazione”, e l’arte di dividere l’uno nel molteplice, o “divisione”. Nel Sofista, Platone riprende la stessa definizione, precisando che la dialettica consiste nel saper dividere per generi, scoprendo quali idee comunicano tra loro e quali non comunicano. In tal modo la dialettica si configura come una classificazione generale di tutte le idee, ovvero una scienza universale.

Le nuove tecniche di combattimento nel Trecento

Battaglia di Crecy con archi e balestre.
Battaglia di Crecy con archi e balestre.

Fino a tutto il XIII secolo le operazioni militari erano state condotte e gestite dai “signori della guerra” appartenenti all’aristocrazia, che dai tempi di Carlo Magno avevano costituito la parte più forte del potere politico e militare: i nobili erano infatti i soli a disporre di terre e quindi di rendite sufficienti per allestire, armare e mantenere possenti reparti di cavalleria. Erano i cavalieri, truppe di nobili uomini in cerca di fortuna alle dipendenze dei signori feudali, il punto di forza degli eserciti medievali. I fanti rappresentavano soltanto un nucleo secondario, e di essi facevano parte prevalentemente contadini e artigiani strappati alle loro consuete occupazioni, male armati e male addestrati. Tuttavia nel corso del XIV secolo, a partire dalla guerra dei Cent’anni, il ruolo della cavalleria venne fortemente ridimensionato a causa della comparsa di nuove e più efficaci tattiche di combattimento della fanteria. Tra queste innovazioni le più significative sono senza dubbio le armi da getto, ovvero la balestra e l’arco che acquistarono progressivamente importanza e cambiarono radicalmente le tecniche di combattimento. La balestra aveva infatti una potenza micidiale: le frecce che scagliava potevano trapassare qualsiasi armatura. Per il suo impiego però si richiedeva un addestramento ben preciso. Superiore alla balestra per efficienza era l’arco, poiché richiedeva un tempo di ricarica della freccia molto inferiore rispetto a quello della balestra; infatti se un balestriere esperto non riusciva a scagliare più di due frecce al minuto, i lunghi archi utilizzati dagli Inglesi durante la guerra dei Cent’anni ne potevano lanciare perfino otto. L’arco era l’arma plebea per eccellenza, tutti i contadini ne conoscevano l’uso e durante le battaglie nulla potevano le spade dei cavalieri contro la pioggia di frecce che cadeva su di loro. Ma gli arcieri e i balestrieri avevano generalmente un ruolo di difesa. Fu l’introduzione delle lunghe picche dei soldati svizzeri, a modificare la tecnica di combattimento, assegnando un ruolo primario alla fanteria. Durante le battaglie, la fanteria svizzera, costituita da circa seimila soldati, si disponeva in quadrati ed ogni fante era armato di picca: una lancia lunga circa tre metri, che veniva usata con entrambe le mani. In questo modo la cavalleria nemica che giungeva verso la formazione di fanti, si trovava davanti ad un immensa concentrazione di lance che venivano manovrate all’unisono con grande tempismo e, come si può immaginare, nella maggior parte dei casi i cavalieri venivano infilzati da questo grande numero di picche. Successivamente il prestigio della fanteria svizzera fu oscurato, verso la fine del XV secolo, dall’uso della polvere da sparo. Inventata dai Cinesi presumibilmente intorno all’VII-IX secolo, venne da loro utilizzata per la fabbricazione di fuochi d’artificio. Furono gli Europei a farne uno strumento di morte, costruendo intorno alla metà del XIV secolo le prime armi da fuoco. I primi cannoni erano di bronzo, rame e stagno. Questi metalli divennero una preziosa merce di scambio e si formò un ingente mercato di armi soprattutto nell’Italia settentrionale e nei Paesi Bassi. Inizialmente i proiettili erano a forma di freccia, poi vennero sostituiti da palle di pietra e infine di bronzo. Il nome di questo nuovo tipo di arma deriva dalla forma della struttura dalla quale venivano lanciati i proiettili, che in un primo periodo era una sorta di vaso, poi si passò ad una forma tubolare, cioè alla “canna”, posta su un cavalletto. Inizialmente i cannoni avevano molti difetti e oltre che ad avere un tiro impreciso facevano anche più rumore che danni. Dopo vari studi e perfezionamenti anche da parte di uomini di fama, come Leonardo Da Vinci, che studiò con precisione la traiettoria dei proiettili, le prestazioni dei cannoni migliorarono notevolmente ed essi diventarono così la miglior arma in circolazione. Con l’arrivo delle armi da fuoco le fortificazioni delle città vennero modificate; vennero progettati bastioni, torri e mura elevate che potessero resistere il più possibile ai bombardamenti dei cannoni. Furono inoltre studiate forme più adatte a respingere i colpi: il cilindro e il cuneo sembrarono le forme più indicate per evitare la distruzione perché davano maggiore stabilità. Come tutte le grandi invenzioni anche le armi da fuoco suscitarono varie perplessità. Io sono d’accordo con Ludovico Ariosto che nell’Orlando Furioso, trovò l’occasione per esprimere il suo giudizio indignato, nel quale condannò le armi da fuoco come strumenti di guerra poco virtuosi. In effetti con le armi da fuoco si perse il senso di gloria, di onore e di valore che si poteva ottenere con una battaglia di spade tra due cavalieri o con un duello tra due eroi epici che si affrontavano per proteggere o manifestare i propri ideali.

I poveri nel Trecento: malvagi da isolare o sofferenti da aiutare?

Chi erano i poveri nel Medioevo?

Il povero era colui che non mangiava carne e non beveva vino; era un infermo, cieco, zoppo o monco, coperto di piaghe che degli stracci lasciavano apparire con una inverecondia ripugnante; il povero viveva nella sporcizia. Egli era laido, faceva paura, lo si riteneva malvagio, era disprezzato, umiliato e lui stesso umiliava gli altri con il suo contatto. Il povero era un errante, un vagabondo; col sacco sulle spalle, il bastone in mano, andava di borgata in borgata. Non aveva né una casa né una professione. La società ignorava il povero, infatti i documenti non lo designavano con il suo nome, supposto che se ne conoscesse uno. L’isolamento lo perseguitava anche dopo la morte, poiché il suo cadavere non trovava posto fra gli altri Cristiani; ad esempio nel cimitero degli Innocenti, a Parigi, la “fossa dei poveri” era in disparte. Da tutto ciò viene spesso trasmessa un’idea sbagliata della povertà del Medioevo. Studi recenti stanno smentendo l’immagine di un Medioevo gravato dalla miseria e da una fame diffusa e invincibile. Come sempre, la realtà è più sfumata e sembra proprio che la fame più atroce sia iniziata con l’età moderna. Anche se non va idealizzato, il lunghissimo periodo medievale è, per molti versi, simile alla nostra epoca per quanto riguarda l’intensità della felicità e dell’infelicità, della miseria e della ricchezza. Ciò che è profondamente cambiata è la mentalità nostra che ci fa apparire intollerabile o miserabile ciò che un tempo era accettato. Purtroppo non abbiamo la controprova, e non potremo mai sapere cosa avrebbe pensato un uomo medievale degli stili di vita moderni. Sappiamo invece che nel Trecento si formarono due diversi tipi di tendenze riguardo agli atteggiamenti da adottare nei confronti dei poveri. Innanzitutto c’erano le istituzioni di beneficenza che avevano il compito di fornire e di organizzare i soccorsi ai bisognosi. In primo luogo vanno nominati gli ospedali, che nel Medioevo ospitavano soprattutto i poveri. Ad assisterli poi vi erano le varie congregazioni. I fondi per la beneficenza non mancavano, giacché i mercanti nella loro contabilità tenevano presente anche la necessità di redimersi dai peccati. L’opera di beneficenza veniva svolta in larghissima misura sul piano delle istituzioni; il più delle volte le somme venivano affidate ai collettori delle elemosine, che rappresentavano conventi, ospedali e lebbrosari, e non ai poveri direttamente. Mentre nell’altra tendenza riguardante l’atteggiamento da adottare con i poveri, in opposizione con la prima, si sviluppò una legislazione di carattere repressivo nei loro confronti. In molti paesi, le prime serie misure contro i poveri furono prese intorno al 1350. Nel 1351 il re don Pedro I di Castiglia pubblicò un’ordinanza contro i mendicanti validi, che diventarono passibili di fustigazione sin dalla prima contravvenzione alla legge. In Inghilterra diversi testi legislativi promulgati da Edoardo III tra il 1349 e il 1351 si prefissero lo scopo di reprimere la mendicità, il vagabondaggio e l’elemosina data agli oziosi, e nello stesso tempo regolamentarono i salari. Ma questa legislazione, che d’altronde rimase spesso inapplicata, non cancellò affatto le antiche idee sui diritti sacri del povero quale rappresentante del Cristo sulla terra. Cominciò semplicemente a delinearsi una distinzione, che avrebbe avuto molta fortuna nei secoli seguenti, tra poveri “buoni” e poveri “cattivi”; e i poteri pubblici, almeno, ritenettero indispensabile usare la massima severità con i secondi. Ma si esitava, si andava a tentoni. Evidentemente, alla fine del Medioevo non si era ancora deciso quale dei due opposti atteggiamenti adottare.

Poveri soccorsi in ospedale nel Medioevo

Grandine

In un piccolo paesino a Sud di Atene viveva Chalaza, una bellissima ragazza. Ella passava le giornate a guardarsi allo specchio e a pettinarsi i capelli con la spazzola.
Chalaza aveva una coperta speciale. Era un regalo dei suoi genitori; era azzurra, e quando sua mamma gli e la regalò, le disse: «Tieni Chalaza, il mantello azzurro del sole, custodiscilo con cautela, è un regalo speciale» . A Chalaza quella coperta stava troppo a cuore, e quando aveva freddo, se la buttava sulle spalle e stava al calduccio, certe volte, per non fare brutta figura, si metteva sopra un altro mantello, oppure, quando aveva caldo, lo appallottolava e se lo metteva nella tasca, senza farsi vedere.
Ma Chalaza aveva un difetto, era presuntuosa e credeva di essere la piu bella tra tutte le fanciulle. Un giorno, giunse in paese Clarissa, una splendida ragazza dell’Est. Tutti cadevano ai suoi piedi: era davvero la piu bella tra tutte le fanciulle.
Chalaza vedendo tutti i ragazzi più belli che appena la vedevano se ne innamoravano, venne colta dalla gelosia e, quando si fece sera, entrò nella sua stanza e le puntò un pugnale  dritto nel cuore. Poi scappò e non si fece più vedere. Zeus, vedendo tutto dall’alto, pensò di punire Chalaza, la portò con se sull’ Olimpo e le tolse la sua amata coperta.

Senza la coperta Chalaza si sente al freddo e, nei giorni gelati, quando la temperatura cala di tanti gradi, Chalaza è cosi gelata che piange pezzettini di ghiaccio che paiomo cristalli, belli e maestosi come lei.

Simone Caronni-Davide Storelli-Grillo Federico

grandine