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Incontro con i carcerati: non è mai tardi per crescere

Lo scorso 13 Novembre la nostra classe ha potuto partecipare all’incontro con i carcerati di Opera e Bollate. L’incontro si divideva in due momenti. Inizialmente i carcerati hanno messo in atto la rappresentazione de “il Mito di Sisifo” reinterpretato alla luce delle loro esperienze. Questa visione è stata filtrata dal loro percorso di reinserimento nella società, che li ha portati a riconoscere le cause di fondo dei loro errori e del loro comportamento. Proprio il loro comportamento è stato motivo di discussione nella seconda parte dell’incontro.

Dal dibattito è emerso il motivo della scelta del mito: in particolare abbiamo constatato che ognuno di loro si immedesimava nel protagonista, Sisifo, che con una punta di presunzione e arroganza, fa di tutto per opporsi al potere centrale, gli dei. La particolarità dello spettacolo consisteva nel fatto che la crescita morale sarebbe dovuta avvenire non solo nello spettatore che apprendeva da persone che hanno già avuto esperienze negative, ma anche dai carcerati che mettendo in scena una trasposizione dei loro errori e della loro vita passata hanno rielaborato i loro errori e le loro scelte.

Ciò che risulta incongruente è il fatto che l’interpretazione data dai carcerati non corrisponde esattamente all’impressione suscitata in noi; infatti mentre Sisifo, secondo una visione morale, si ribella per una giusta causa, i detenuti si concentravano sul fatto che Sisifo non avrebbe dovuto ribellarsi all’autorità (gli dei) ma ha agito lo stesso per un mancato insegnamento da parte dell’autorità stessa: questa avrebbe dovuto infatti permettergli durante la sua crescita come uomo di imparare e assimilare i suoi doveri relativi alla vita nella società. Un altro aspetto dell’incontro che ha lasciato perplessi molti di noi è che il fine della discussione sembrava fosse volto più a una crescita morale dei carcerati piuttosto che un’effettiva informazione nei nostri confronti. Durante la discussione infatti lo psicologo cercava con insistenza di fare in modo che i carcerati parlassero della loro esperienza piuttosto che concentrarsi sugli spunti o le perplessità degli studenti, che da come ci era stato presentato l’incontro sarebbe dovuto essere il motivo reale dello spettacolo.

Tuttavia la conoscenza delle vicende dei carcerati ha fatto si che noi capissimo l’importanza dell’educazione che ognuno di noi riceve dalla propria famiglia e dalla società e dall’ambiente in cui cresce.

Simone De Cocco, Alessio Ripamonti e Matteo Bollo

Sisifo

Bacone: un nuovo metodo per “interpretare” la natura

"Instauratio magna" di Bacone


Nel periodo che va da metà Cinquecento a metà Seicento, i filosofi cominciano a concentrare la loro attenzione sul metodo per conoscere la realtà. Fanno parte di questa “corrente” filosofi come Bacone (Sir Francis Bacon), Cartesio (René Descartes) e altri pensatori sia precedenti sia successivi.

Vorrei porre l’attenzione, però, su Bacone, che ha dato un grande contributo per formare il concetto moderno di scienza. In particolare la sua metodologia ha portato un grande apporto nel campo della botanica, zoologia, anatomia, embriologia ecc.; in seguito ad una paziente e graduale analisi dei fenomeni con l’aiuto di mezzi di classificazione di stile baconiano si è ottenuta un’importante serie di risultati scientifici.

La sua opera più celebre è il Novum Organum, chiamato così in contrapposizione all’Organon (“strumento”) di Aristotele: infatti, Bacone si distacca completamente dal metodo dei sillogismi aristotelico e ne propone uno completamente nuovo.

Il Novum Organum di Bacone si divide fondamentalmente in due parti:

• La pars destruens, in cui sono esposti gli errori da cui dobbiamo liberarci per delineare il metodo della ricerca della verità. Occorre purificare la nostra mentalità da una serie di errori che avevano causato sino ad allora lo scarso progresso delle scienze. Tali errori (o per meglio dire, i pregiudizi dell’uomo) sono definiti “idola” e si dividono in idola tribus (pregiudizi fondati sulla stessa natura umana, che tende a semplificare e a compiacersi di astrazioni), idola specus (pregiudizi derivanti dal singolo individuo condizionato dall’ambiente in cui si trova, dal temperamento, dall’educazione, dalle letture, dagli amici, ecc.), idola fori (pregiudizi che derivano dal contatto reciproco tra gli uomini, in particolare dal loro “commercio” di idee e pensieri) e idola theatri (pregiudizi derivanti dalle “false eredità” delle teorie filosofiche, ma anche di altre scienze, tramandate dalla tradizione). Una volta abbattuti questi muri, possiamo accostarci al “vero” metodo di conoscenza.

• La pars construens, in cui Bacone espone il suo metodo rigoroso di conoscenza della realtà. Secondo il pensatore inglese, se si vuole realmente “interpretare la natura” e coglierla nella sua struttura più profonda (quella che lui chiama la “forma” dei corpi), bisogna adottare un metodo induttivo rigoroso, quello che lui propone attraverso la teoria delle tabulae.

Ciò che, però, ha attirato la mia attenzione è il nuovo metodo di conoscenza proposto dal filosofo, la pars construens che lui espone. Vediamo di analizzarla nei dettagli.

La pars construens è presentata da Bacone nel secondo libro del Novum Organum. Per il pensatore inglese, se non ci si vuole accontentare di “anticipare la natura” con affrettate e sommarie induzioni, ma si vuole veramente “interpretare la natura” cogliendo la “forma” dei corpi, si deve seguire un metodo induttivo rigoroso, elencando i vari casi in cui la “forma” si presenta nelle tabulae.

Bacone individua tre tipi di “tavole”:

• Nella tavola della presenza (tabula praesentiae) si raccolgono tutti i casi positivi, cioè tutti i casi in cui il fenomeno si verifica (per esempio, Bacone prende in analisi il calore che viene prodotto dal sole, dal fuoco, dai fulmini, attraverso strofinamento, ecc.).

• Nella tavola dell’assenza (tabula absentiae in proximitate) si raccolgono tutti i casi in cui il fenomeno non ha luogo, mentre si sarebbe creduto di trovarlo (per esempio, sempre per quanto riguarda il caldo, i raggi della luna, la luce delle stelle, i fuochi fatui, ecc.).

• Infine, nella tavola dei gradi (tabula graduum) sono presenti i gradi in cui il fenomeno aumenta e diminuisce (ad esempio, le variazioni di calore in uno stesso corpo in relazione a vari ambienti o ad altre particolari condizioni).

Una volta compilate le tre tavole, l’intelletto deve procedere all’induzione vera e propria, cioè all’individuazione della “forma”. Tale processo deve avvenire per via di “esclusioni” e di “eliminazioni”: ossia si deve procedere allo scarto delle ipotesi false. Ad esempio, il calore non è soltanto un fenomeno celeste, perché anche i fuochi terrestri sono caldi; né solo un fenomeno terrestre, visto che il sole è caldo; dipende da un particolare elemento, l’antico elemento chiamato “fuoco”? No, poiché qualsiasi corpo può essere riscaldato per sfregamento, ecc. Per via di eliminazioni sarà così possibile tentare una prima interpretazione positiva, detta vindemiatio prima. Tale interpretazione dovrà essere ulteriormente sottoposta a esperimenti di vario genere, fino all’esperimento “cruciale” (experimentum crucis), che dovrebbe permettere di accettare in modo definitivo l’ipotesi o di rifiutarla.

In prima analisi il metodo baconiano sembrerebbe valido, anche se un po’ troppo rigido per quanto riguarda la sua schematizzazione e la sua lentezza nel compiersi. Allora perché nel corso dei secoli il suo metodo è stato a poco a poco dimenticato, mentre il metodo galileiano oggi è ancora alla base dell’analisi scientifica? Quali sono i suoi limiti?

Sebbene presenti molti elementi in comune con il metodo scientifico moderno, la procedura di Bacone manca di un elemento fondamentale: la matematica; ovvero lo strumento rigoroso di un’analisi quantitativa delle esperienze scientifiche di cui, di lì a poco, Galilei comprenderà l’importanza fondamentale. Inoltre, Bacone sostiene, a differenza di Galilei, di voler conoscere lo schematismus latens ed il dinamismus latens della realtà, cioè la struttura nascosta e l’elemento dinamico latente delle cose: in qualche modo, dunque, si può dire che Bacone sia ancora alla ricerca dell’essenza, cosa che lo differenzia moltissimo dalla concezione scientifica moderna.

Infatti nei suoi scritti notiamo che Bacone arriva addirittura a compiere delle affermazioni che oggi risulterebbero alquanto inverosimili: per esempio, sosteneva che l’oro è composto da una serie di nature semplici (quali il colore, il peso specifico, la duttilità, la malleabilità, ecc.); con la conoscenza di queste nature semplici, è possibile “rivestire” (superinducere) di nature nuove un corpo dato; ad esempio, si può produrre un metallo con le caratteristiche dell’oro, o una pietra trasparente, o un vetro molto resistente, ecc. Tali affermazioni, secondo me, mostrano come Bacone abbia qualche legame con la tradizione magico-ermetica, anche se Bacone rifiuta ufficialmente la magia. Allora sembra quasi naturale che un soggetto del genere, col passare degli anni sia stato abbandonato nell’oblio, non credete anche voi?

George Washington: il più grande presidente degli Stati Uniti

Geoge Washington

Se una persona si presentasse davanti a uno statunitense e gli chiedesse chi sia stato il più grande presidente degli Stati Uniti, risponderebbe immediatamente George Washington. Eppure coloro che lo conobbero rimasero delusi nel parlare con lui: infatti non era né brillante né intellettuale (Thomas Jefferson afferma che i suoi talenti erano mediocri e che non aveva grandi idee), in compenso era un accorto uomo d’affari (traeva molto profitto dalla sua piantagione a Mount Vernon).

Allora cosa ha reso quest’uomo così famoso in tutto il mondo?

Di certo le sua doti di uomo d’affari non furono le ragioni che lo resero famoso. In un primo momento uno potrebbe pensare che il motivo della sua fama siano le sue qualità in battaglia, ma analizzando a fondo i suoi combattimenti notiamo che non fu un grande condottiero come Alessandro Magno o Cesare, né i suoi successi militari si avvicinarono alla magnificenza di quelli napoleonici. Il genio di Washington va piuttosto ricercato nel suo temperamento, nella sua personalità: infatti fu il suo carattere di gentiluomo di campagna a farlo eccellere sugli altri; tale virtù, però, dovette coltivarla nel corso degli anni e questo fu ammirato da tutti i suoi contemporanei.

Fu in ambito politico, però, che Washington compì il suo gesto più eclatante. Il gesto che lo rese famoso fu dare le dimissioni da comandante in capo delle forze americane: dopo la firma del Trattato di pace di Versailles con la Gran Bretagna nel 1783, Washington sbalordì il mondo quando, il 23 dicembre dello stesso anno, consegnò la spada al Congresso e si ritirò nella sua fattoria a Mount Vernon. Fu un atto fortemente simbolico che segnò per sempre il suo destino. Avrebbe potuto diventare re o dittatore come ricompensa per il suo valore militare, ma decise di esprimere il desiderio di tutti i componenti della nuova nazione: tornare alle rispettive occupazioni in un “paese ormai libero, pacifico e felice”; la sua sincerità fu apprezzata da tutti.

Washington comprese che il gesto che aveva compiuto gli avrebbe fatto acquisire una fama istantanea. Una volta guadagnato questo lustro per i suoi valori morali, fu attento a non scialacquare gli onori ricevuti: trascorse il resto della sua vita cercando di proteggere la propria immagine pubblica in un modo che ai giorni nostri risulterebbe imbarazzante, ossessivo ed egoistico. Ma i suoi contemporanei capirono le sua ragioni: in quei tempi era normale che i gentiluomini usassero ogni mezzo per mantenere intatto l’”onore”, ossia la stima dei propri pari. Solo alla luce di questo valore si possono comprendere molte azioni di Washington dopo le sua dimissioni.

Nel 1787 fu convinto a recarsi a Filadelfia per partecipare alla stesura della Costituzione. Dopo l’approvazione del testo costituzionale, egli pensò di poter tornare alla vita tranquilla della sua piantagione a Mount Vernon, ma i suoi concittadini si aspettavano che diventasse il presidente del nuovo governo nazionale. Fu così eletto presidente nel 1789 e dimostrò di rimaner fedele ai suoi ideali: affermava infatti di pensare costantemente alle generazioni future, ai “milioni che non sono ancora nati”. Gettò le basi dell’autonomia presidenziale e rese il capo dello Stato la figura dominante del governo. Fin dal 1792 era intenzionato a ritirarsi per sempre a vita privata, ma i suoi consiglieri lo convinsero a rimanere per un secondo mandato. Nel 1796, però, Washington era così determinato a ritirarsi che nessuno riuscì a dissuaderlo.

Dopo la sua carica, la mentalità americana, per quanto riguarda le elezioni presidenziali, cambiò: infatti se i membri dei vari partiti (come quello repubblicano di Jefferson) presentassero come candidato “un manico di scopa” e lo chiamassero “figlio della patria” o qualsiasi altra denominazione per soddisfare le esigenze degli elettori, riceverebbero comunque “i loro voti in toto”. Ormai la gente votava per il partito, indipendentemente dal candidato. Nella nuova era dei partiti non importavano più l’influenza personale e il carattere. È per questo che il personaggio di George Washington conserva il suo valore di eroe intramontabile.

San Tommaso d’Aquino: il grande innovatore

San Tommaso d'Aquino

Nell’arco dell’intera storia della filosofia, il frate domenicano Tommaso d’Aquino è stato di sicuro una delle personalità più influenti e, ancor oggi, conta un numero straordinario di “seguaci” della sua dottrina. Con tale pensatore la fiducia nella possibilità di conciliare fede e ragione, in nome di una concezione rigorosamente unitaria del sapere, raggiunge l’apice. Pochi anni dopo la sua morte le “nozze” fra filosofia e teologia entreranno in crisi.

Come mai questo pensatore ha avuto un così grande rilievo nella storia?

In primo luogo bisogna rilevare che la sua filosofia è importantissima per dottrina cattolica, ed avendo la religione cattolica quasi un miliardo e duecento milioni di credenti, appare quasi naturale che questo filosofo sia ancor adesso tra i più letti e commentati nel mondo.

Possiamo riassumere la sua grande novità rispetto al pensiero precedente in tre punti essenziali:

  1. Cambiamento importante nel pensiero religioso, in particolare per quanto riguarda la natura umana e ciò che l’uomo può dire della natura divina: fino ad allora i pensatori cristiani (compreso Agostino)
    • privilegiavano la “teologia negativa”: l’uomo non può affermare nulla intorno a Dio, perché, essendo l’essere stesso, è sostanzialmente qualcosa di indefinibile
    • svalutano il corpo che, legato alla terra, svia l’uomo dai suoi obiettivi ultraterreni
    • ritengono non vi sia alcuna somiglianza tra noi e Dio: egli è l’essere divino irraggiungibile e noi inutili creature terrene.

    Per Tommaso, al contrario,

    • ciò che noi possiamo dire di Dio non è del tutto sbagliato: di certo non potrà mai arrivare a determinare la sua grandezza, ma serve comunque ad esaltarla
    • il corpo deve essere rivaluto perché anch’esso è opera di Dio e ha un ruolo positivo nella vita umana
    • vi è una similitudine tra l’essere umano e Dio: infatti tutti gli esseri da lui creati traggono dal divino la loro essenza e l’uomo è tra quelli che ne trae di più perché è l’unico essere che ha in sé sia l’elemento spirituale (l’anima) sia l’elemento terreno (il corpo).
  2. Il rapporto tra fede e ragione, che è uno dei temi più importanti sviluppati nella sua filosofia: egli riprende il concetto agostiniano (“credo ut intelligam, intelligo ut credam”) e lo conferma, affermando anch’egli che fede e ragione devono trovare un accordo e collaborare, che filosofia e teologia sono scienze che vanno usate entrambe per raggiungere la verità. Per dare credito alla sua idea che fede e ragione possono collaborare, Tommaso compie una dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, rivelando così che il “credo quia absurdum” di Tertulliano è sbagliato come del resto tutte le correnti fideiste (di cui fa parte anche Guglielmo di Occam), le quali affermavano che nessuno degli attributi divini poteva essere oggetto di dimostrazione, altrimenti Dio non avrebbe compiuto il gesto inutile di rivelare all’uomo ciò che poteva scoprire con le sue sole forze.
  3. La sua teoria della conoscenza: Tommaso a riguardo espone una teoria realista, ossia l’uomo è in grado di conoscere la realtà che lo circonda; tale posizione è contrastata da filosofi come Guglielmo di Occam (il quale era un frate francescano; in quel periodo domenicani e francescani erano ordini religiosi avversi tra loro e, anche in ambito filosofico, avevano sempre posizioni contrastanti): questi filosofi sposavano una posizione nominalista, cioè l’uomo non ha alcuna possibilità di comprendere la realtà.

Dopo questo breve sunto, cerchiamo di analizzare più a fondo i tre elementi della dottrina di Tommaso.

Come citato sopra, fino a quel momento i filosofi cristiani prediligevano la “teologia negativa”, in altre parole, per quanto riguarda il nostro modo di predicare qualcosa di Dio, l’uomo è in grado solamente di dire cosa Dio non è (ad esempio: Dio non è cattivo, Dio non è ingannevole, Dio non è malvagio, ecc.), ma se volesse dire cosa Dio sia, non potrebbe perché la sua natura ineffabile fa sì che nulla di ciò che si professi di lui serva in qualche modo a comprendere il suo essere, il linguaggio umano non può far nulla per descriverlo. San Tommaso, invece, sebbene non si distacchi totalmente da tale tradizione, ritiene che ciò che noi diciamo di positivo sul suo conto (esempio: Dio è glorioso, onnipotente, onnisciente, ecc.), anche se non riesce comunque a estrapolare la sua essenza, serve comunque a valorizzare la sua magnificenza e a cogliere parte del suo essere. Per quanto riguarda invece la natura umana, secondo la “teologia negativa” l’uomo, fatto di anima e corpo, deve “disprezzare” la sua parte corporea che, essendo legata al mondo terreno, lo distoglie dai suoi obiettivi più importanti, ovvero il raggiungere la felicità nella vita ultraterrena. Tommaso al contrario rivaluta il corpo: dopotutto Dio ha creato l’uomo come unione di anima e corpo, ponendolo, di fatto, al confine tra il mondo delle sostanze spirituali (perché possiede l’anima) e il mondo terreno (perché possiede il corpo); il corpo, essendo in stretto legame con l’anima, ha anch’esso una funzione rilevante nel conseguimento della felicità terrena, che contribuisce così anche alla felicità ultraterrena, l’unica davvero importante per il vero cristiano. Il fatto che l’uomo sia un essere a metà strada tra le sostanze spirituali e il mondo terreno è inoltre un segno evidente della nostra somiglianza col divino.

Altra questione è la teoria della conoscenza secondo Tommaso. Nella storia della filosofia la gnoseologia (ossia “teoria della conoscenza”) è da sempre uno degli ambiti più trattati, la quale in particolare nel mondo medievale si divideva in due posizioni contrastanti: la posizione realista, secondo cui l’intelletto è in grado di conoscere la realtà, e la posizione nominalista (cui appartiene Guglielmo di Occam e uno dei più grandi scrittori contemporanei, Umberto Eco, che mostra la sua concezione nella sua opera “Il nome della rosa”: “nomina nuda tenemus”), secondo cui l’intelletto umano non riesce ad avere una conoscenza del reale e i nomi che noi diamo alle cose sono semplici etichette che noi poniamo agli oggetti che sembrano avere una vaga somiglianza. Tornando a Tommaso, la sua teoria della conoscenza viene esposta nel seguente modo: l’anima intellettiva umana non è in grado di apprendere direttamente gli intellegibili, ma può conoscere le forme delle cose solo nella loro unione con i corpi, in altre parole soltanto grazie all’esperienza sensibile. L’anima (fatta di facoltà attiva e passiva) considera le forme sensibili nel loro aspetto universale, ossia la facoltà attiva astrae gli elementi comuni (gli universali) e li imprime nella facoltà passiva, che conserva tutti gli universali raccolti.

Il rapporto tra fede e ragione è una questione piuttosto ampia che affonda le sue radici all’origine delle prime comunità cristiane e che è diventato col passare degli anni un problema sempre più importante dato che il cristianesimo si era ormai affermato come religione europea. Tale problema parte alle origini del cristianesimo con Tertulliano che condanna in modo categorico la ragione e la filosofia (“credo quia absurdum”); poi prosegue con Sant’Agostino, secondo il quale la fede è fondamento della ricerca razionale e la filosofia chiarisce i contenuti di fede, predisponendo l’uomo ad accoglierli (“credo ut intelligam, intelligo ut credam”); in seguito vi è Anselmo d’Aosta, il quale, non distaccandosi totalmente dalla posizione agostiniana, afferma che, anche se la fede ha un primato sulla ragione, quest’ultima chiarisce ciò che si possiede già con la fede (“credo ut intelligam”). Ed ecco che arriva Tommaso d’Aquino, che sotto molti aspetti rivela di avere punti in comune con Agostino: secondo la sua concezione unitaria del sapere, è impossibile che due scienze come filosofia e teologia siano separate, anche se la filosofia può creare contrasti con le verità di fede; dato che comunque la priorità va data alla rivelazione divina, in quei casi bisogna sottostare ai risultati raggiunti dal teologo. Entrambe le scienze tendono a un’unica verità, ma diverso è il modo di conoscerla: pur utilizzando entrambe il medesimo metodo di ricerca (tratto dalla logica aristotelica), partono però da premesse differenti, che in ambito teologico derivano dalla fede, mentre in ambito filosofico sono evidenti. Come conciliare dunque due scienze così diverse, una legata alla fede, l’altra alla ragione? Semplicemente la teologia ha il compito di fornire un sommo sapere speculativo e pratico, mentre la filosofia ha lo scopo di intendere sempre meglio i contenuti della rivelazione, di dimostrare che alcuni dogmi che la ragione umana è in gradi di indagare e capire (come l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima) non siano contraddittori, di combattere le posizioni contrarie alla fede. Le due scienze non sono in contrasto, ma al contrario sono complementari.

Al giorno d’oggi, in cui l’uomo è ormai approdato a una visione laica della vita, completamente distaccata dalla religione e dal sapere teologico, come si può conciliare la filosofia di un pensatore cristiano medievale, che ritiene che filosofia e teologia siano semplicemente due facce di una stessa moneta?

Secondo me, bisognerebbe partire dal presupposto del perché esista la religione e perché, fin dall’antichità, l’uomo ha avuto bisogno di credere in uno o più enti soprannaturali. Una reale spiegazione credo che sia impossibile trovarla, ma per me è possibile dimostrare l’esigenza per l’uomo di una religione. Prendiamo in esame due casi: al giorno d’oggi se andiamo in mezzo alle tribù eschimesi, possiamo notare che essi possiedono una loro religione seppur animista, lo stesso vale se andiamo in mezzo alle tribù amazzoniche o a qualsiasi altra popolazione tribale o civilizzata; tutti possiedono una religione e questo è un primo elemento per dimostrare il bisogno religioso dell’uomo. La seconda via riguarda l’analisi storica: se prendiamo in considerazione i nostri antenati, come l’homo sapiens di Neanderthal, o le prime tribù nomadi preistoriche, possedevano anche loro una religione. Quindi appare quasi evidente che l’essere umano, unico dotato di ratio, abbia bisogno di credere in uno o più enti sovrumani.

Dunque perché ci meravigliamo che nel corso della storia parte fondamentale della filosofia sia stata dedicata alla religione? Del resto Tommaso non ha fatto altro che incarnare in modo straordinario la mentalità della sua epoca.

Questa breve precisazione, forse un po’ fuori luogo, aveva semplicemente lo scopo di convincere il lettore che, anche se viviamo ormai in una società che si ritrova quasi al rifiuto della religione, è altrettanto vero che la società occidentale affonda le sue tradizioni nel credo cristiano e involontariamente ne siamo ancora molto influenzati. Quindi è inutile cercare di fuggire dal “mos maiorum”, ma dovremmo piuttosto cercare di conciliare tradizione e innovazione, che è ciò che la Chiesa in questi anni sta cercando di compiere.

Dopotutto è quello che ha fatto Tommaso ai suoi tempi, ha conciliato la tradizione della rivelazione divina con gli scritti aristotelici che in quel periodo, grazie alla formazione delle università e ad illustri personalità come Guglielmo di Moerbeke, si stavano diffondendo con una rapidità impressionante, tanto da essere stati più volte oggetto di censura da parte della Chiesa.

Ritorniamo al commento del pensiero di Tommaso. Secondo me, riguardo al superamento della “teologia negativa” vi è poco da condividere ai giorni nostri, perché, trattandosi di ciò che si professa di Dio e della natura umana sotto l’aspetto religioso, riguarda comunque qualcosa di strettamente teologico, non riguardante la società laica moderna; tale problema tuttavia interessa l’ambito della Chiesa che ha confermato la posizione di Tommaso riguardo a quel problema teologico.

Più interessante risulta invece l’ambito gnoseologico che nel corso della storia è stato trattato dalla maggior parte dei filosofi, fino ad arrivare, come già detto prima, ai giorni nostri con Umberto Eco, fautore della posizione nominalista. A mio parere, la posizione realista, di cui fa parte Tommaso, è quella più “giusta” da sposare, perché dà grande rilievo al ruolo della ragione umana. Io ritengo infatti che, se per assurdo non avessimo realmente la possibilità di conoscere la realtà, l’uomo non avrebbe in sé la sua insaziabile sete di sapere e il progresso a cui siamo pervenuti nei giorni nostri non avrebbe mai potuto realizzarsi; del resto se i nominalisti come Occam avessero ragione, periodi storici come il Rinascimento, in cui l’uomo rivaluta la sua ragione, pensa, desidera una conoscenza approfondita della realtà, non sarebbero mai potuti esistere.

Altro ambito è il rapporto fede-ragione. Anche quest’altro nodo fondamentale della dottrina di Tommaso è difficile da ricondurre ai giorni nostri per via della sua natura teologica, ma trattando anche di ragione è più facilmente interpretabile. Se fossi un credente ferreo, sarei completamente d’accordo con Tommaso perché se esiste un modo per cui fede e ragione possano collaborare e per cui le verità di fede possano essere dimostrate, ne andrei subito in cerca. Ma essendo un soggetto critico verso la religione, non credo di poter essere d’accordo con Tommaso, perché secondo me la teologia parte da presupposti non condivisibili da tutti, ma solo dai credenti. All’interno delle visioni cristiane di sicuro Tommaso ha una posizione migliore rispetto al fideismo, ma risulta comunque difficile da conciliare con la visione moderna del mondo.

In tale discorso rientrano le sue famose prove dell’esistenza di Dio, che, devo ammettere, adducono forti argomentazioni a sostegno della tesi, ma si poggiano comunque su premesse non del tutto concrete.

Io ammetto che l’uomo abbia bisogno di credere nel divino, ma è davvero possibile dimostrare l’esistenza di Dio con le sole risorse del mondo sensibile? Lascio la questione aperta, poiché neanche io ho una soluzione a riguardo.

Condizioni delle carceri e degli ospedali nell’Europa d’antico regime

stilografia di un ospedale seicentesco

Durante il periodo che dal medioevo durò fino al XVIII secolo, le carceri e gli ospedali versavano in condizioni a dir poco pietose. Per prima cosa è necessario specificare che all’epoca il carcere non era considerato una pena duratura come ai giorni nostri, ma era piuttosto un luogo di passaggio in attesa della vera e propria pena. Inoltre il carcere era uno strumento di punizione per coloro che non riuscivano a pagare i propri debiti, per i vagabondi, per gli oziosi e per coloro che venivano fatti scomparire per volere del sovrano: questo era il motivo principale per cui, nella maggior parte dei casi, le prigioni non dipendevano da un’organizzazione statale o da funzionari pubblici, ma la loro sorte era affidata ad appaltatori privati. Essi traevano il proprio guadagno dagli stessi detenuti o, nel caso dei debitori, dai loro parenti. Un ulteriore guadagno proveniva dal creditore, il quale aveva l’obbligo di versare una retta per mantenere il detenuto. Possiamo facilmente dedurre come il mestiere del gestore di carceri fosse alquanto redditizio.

Prendendo come esempio Parigi nel periodo settecentesco, si possono distinguere tre tipologie di carcerati, a seconda della loro pericolosità e dei soldi che potevano elargire.

La prima categoria, che comprendeva i soggetti più pericolosi, era rinchiusa in celle sotterranee prive di luce e di aerazione diretta, in ciascuna delle quali erano accatastati moltissimi detenuti in spazi ristrettissimi; di solito inoltre questi detenuti venivano incatenati alle pareti.

Il secondo gruppo, formato da detenuti poco più fortunati, era custodito in grandi locali comuni simili a camerate, in cui “soggiornavano” circa duecento carcerati sopra giacigli di paglia.

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