Tutti gli articoli di Silvia Carrara

L’arte di “fare uno e molti”

La dialettica, dice Platone, è il metodo supremo per fare filosofia: ci consente di raggiungere la verità o l’idea. Per avvicinarci alla verità possiamo prima di tutto escludere tutte le ipotesi false: questo procedimento prende il nome di confutazione. Se in Socrate la dialettica come confutazione si fermava proprio alla confutazione di coloro che si credevano sapienti ma non lo erano, in Platone essa diventa strumento di conoscenza. E come può la semplice confutazione arrivare ad un vero e proprio sapere? Per Platone basta confutare tutte le ipotesi possibili: quella che rimarrà, che avrà resistito ad ogni confutazione, è quella vera e dimostrata. Ma a me non sembra così semplice: magari noi non siamo riusciti a confutarla, ma in seguito ci riuscirà qualcun’altro. Nello stesso modo il punto critico ed il passo falso del ragionamento di Platone stanno nel fatto che la soluzione potrebbe trovarsi in un’ipotesi a cui non ho pensato.

Come faccio invece a confutare tutte le ipotesi, per raggiungere quella anipotetica? Semplice: dimostrando che le conseguenze che ne derivano sono in contraddizione tra loro. Il “principio di non contraddizione” su cui Platone si basava arrivava infatti alla conclusione che se un’ipotesi dà origine a conseguenze contraddittorie (rispetto a quelle tangibili della realtà sensibile), l’ipotesi sarà falsa. Oppure, se ho due ipotesi contraddittorie fra loro: o è vera l’una o è vera l’altra! Prendiamo un esempio: “Soltanto qualche mio amico gioca a calcio” e “Tutti i miei amici giocano a calcio”; direte voi, o tutti i miei amici giocano a calcio o solo qualcuno: non possono essere vere entrambe! Ma Platone non era stato il primo a comprendere che dimostrando l’assurdità di una tesi si arrivava implicitamente alla veridicità della tesi opposta. Anche Zenone, seguace di Parmenide, c’era arrivato: ma questo “padre della dialettica” pretendeva di difendere con il metodo della confutazione il suo maestro, che di non essere proprio non voleva sentir parlare!

Ma la dialettica diventa anche essenziale strumento della filosofia per un altro motivo: come la filosofia è una “scienza universale”, che cerca quindi di occuparsi di tutta la realtà nel suo complesso, così anche la dialettica è l’arte dell’unire e del dividere. È quella “scienza” che unisce le “cose molteplici” sotto un’unica idea e nello stesso tempo quella che divide queste “cose molteplici” da quelle che non partecipano all’idea. Per esempio: l’idea della bellezza riunisce in sé tutte le “cose belle”, che sono a loro volta separate, divise, dalle cose “non belle” che non partecipano all’idea di bellezza.

In breve: la dialettica è quello strumento che ci consente di arrivare alla verità, pura e assoluta, che non si serve di presupposti, ma arriva a dimostrarli. E fa questo attraverso la confutazione, perché prima di arrivare alla verità devi attraversare le lunghe strade delle menzogne (Rachid Ouala).

Poveri, ora come nel Trecento

Poveri ai margini della strada
Poveri ai margini della strada

I poveri c’erano allora, come adesso. L’epoca di cui parliamo è il Trecento, anni caratterizzati da una profonda crisi, economica, demografica e sociale. Ma come venivano trattati allora i poveri?

Una profonda contraddizione segnava la società: se da una parte i poveri erano cacciati e considerati malvagi, dall’altra essi costituivano un modo per redimersi dai propri peccati. Le ingiustizie che subìvano erano molte: spesso non potevano neppure avere alloggio negli asili di una stessa città per due notti di fila, pena la forca. Il povero era isolato: non aveva nome, né documenti, e anche dopo la morte era separato dagli altri, in fosse comuni. Ma riceveva nello stesso tempo asilo e aiuti da ospedali, confraternite e corporazioni. I mercanti istituirono il “conto di messer Domeneddio”, che raccoglieva le elemosine concesse ai poveri. Oltre alle singole corporazioni, che prevedevano sostegno e assistenza in favore dei membri in difficoltà, i poveri erano anche ricordati nei lasciti testamentari: non c’era miglior mezzo infatti per espiare i propri peccati.

Penso ora a ciò che succede nel presente. Anni luce lontano dal Trecento, sembra. Eppure, i mendicanti che supplicano per pochi euro, che giacciono ai lati delle strade, scansati dai passanti, raccontano un’altra storia. Il modo in cui essi sono oggi trattati è così diverso da quello del Trecento? Di sicuro c’è una maggior sensibilizzazione nei loro confronti: non sono più considerati malvagi o cacciati con brutalità dalle città. Ma se nel Trecento essi erano anche sofferenti da aiutare, anche solo per la salvezza della propria anima, ora non è più così: i più poveri ed i mendicanti guardano dal basso della loro posizione i passanti, che, il più delle volte, li ignorano, imbarazzati dalla sporcizia e dalla ripugnanza in cui vivono, ma troppo lontani dalla loro realtà per allungare una mano in loro aiuto. Certo, le organizzazioni umanitarie tentano di rendere le loro condizioni più sopportabili, ma la maggior parte delle volte questo non è sufficiente. Nel Trecento, benché l’obiettivo fosse puramente egoistico, un aiuto veniva fornito anche dalle persone comuni.

Ed allora io mi domando: possibile aver fatto un passo indietro rispetto ad un’epoca in cui gli ebrei e i lebbrosi erano accusati e perseguitati perché considerati gli untori che diffondevano la peste?

La schiavitù dell’animo

Socrate, Museo del Louvre
Socrate, Museo del Louvre

“L’ignoranza fa giustamente chiamare schiavi gli uomini”: con questa frase, riportata nei Memorabili di Senofonte, Socrate secondo me non vuole alludere alla schiavitù in senso stretto, ma ad una schiavitù diversa, una schiavitù dell’animo, come del resto non vuole alludere all’ignoranza del povero analfabeta.

L’ignoranza a cui Socrate fa cenno ha infatti origine dal non conoscere se stessi. C’è da sottolineare però che, seppur la conoscenza sia ovviamente preferibile all’ignoranza, non è possibile arrivare ad una piena e vera conoscenza di noi stessi e della verità: la parte conscia dell’uomo, dice Sigmund Freud, è solo la punta dell’iceberg che emerge dal mare. Quella, seppur piccola, conoscenza che raggiugiamo è però molto importante: ci permette infatti di fare una distinzione su ciò che è Bene e cio che è Male. Bisogna tuttavia rammentare che questa “porzione di verità” che abbiamo faticosamente raggiunto va poi discussa con le altre persone attraverso il dialogo, l’unico strumento per avvalorare e trovare i punti critici del ragionamento. Gli uomini possono quindi essere depositari della verità, ma non da soli. Gli uomini “ignoranti” invece, che non hanno una sufficiente conoscenza della verità che risiede in loro, sono più portati a compiere il Male, proprio perchè non sanno che cosa esso sia. Ma l’ignoranza rende questi ultimi, oltre che malvagi, anche schiavi?

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La parola come arma

Gorgia

La parola, arma più pericolosa? Come affermazione pare esagerata, eppure proprio di questo era convinto il filosofo Gorgia. Attraverso un discorso ben costruito da una persona capace, si può convincere che è giusto ciò che sembra sbagliato e che è sbagliato ciò che sembra giusto. Non ha valore il contenuto in sè, ma solo l’abilità che ciascuno di noi ha di persuadere la gente. E i più bravi in questo, sempre secondo l’opinione di Gorgia, sono i sofisti.

Però, la mia mente (come penso quella di chiunque altro) ad un’affermazione del genere si ribella. Possibile che non abbia valore ciò che diciamo, ma solo come lo diciamo? Un sofista, o chiunque sappia essere carismatico, con il suo discorso ci ha quindi in pugno, ci domina. Non nego l’importanza del saper parlare: le stesse argomentazioni presentate attraverso parole diverse possono essere più o meno convincenti e suscitare emozioni differenti in chi le ascolta. Ma da questo al dire che la sola e unica cosa che conta è il come ci si esprime, di strada ce ne vuole. Se davanti a noi c’è una persona priva di qualsiasi spirito critico, pronta a farsi soggiogare dalla magia delle parole, allora si può dire che Gorgia ha ragione. Ma la realtà è un po’ diversa. Ogni uomo ha le sue opinioni, che non possono essere annullate dall'”incantesimo” di cui secondo Gorgia potremmo essere vittime. Un uomo carismatico rende le sue argomentazioni più persuasive di un uomo che fatica ad esprimersi, può farle sembrare inconfutabili, ma se ciò che dice il primo uomo va contro la nostra morale o le nostre convinzioni non è pensabile che muteremo la nostra idea senza rifletterci. Un esempio che potrebbe appoggiare il principio e la posizione di Gorgia è quello di Hilter, che non si è imposto sulla scena politica solo con la forza: è stato eletto dal popolo tedesco. Il popolo non ha saputo vedere ciò che si nascondeva dietro le parole di Hitler e, senza porsi troppe domande, ha seguito il suo percorso; si è affidato alla magia che le sue parole sapevano provocare.
C’è una cosa però su cui mi trovo d’accordo con Gorgia: ciò che fa la differenza è la conoscenza. Se non si conosce si è più disposti a credere all’opinione altrui, che può essere ingannevole e illusoria. Invece, il “sapere” consente di farsi un’idea su una questione e di trovare delle argomentazioni per confutare il discorso persuasivo che tenta di ingannarci o per sostenere la nostra opinione.

E poi, se Gorgia fosse stato davvero così in gamba come diceva nel persuadere la gente attraverso le parole, ora io non sarei contraria a ciò che lui dice, no?

Una contraddizione… filosofica

La sapienza non ha forse a che fare con la filosofia? In senso stretto sì, poiché anche senza essere filosofi (ed ognuno di noi in realtà un po’ filosofo è) la prima non può esserci senza la curiosità per la conoscenza. Sebbene i filosofi stessi affermino che una definizione esatta di filosofia non esiste, si può dire, e su questo quasi non si trova dissenso, che essa tragga origine dal desiderio di apprendere dell’uomo. Che, in generale, osservando ciò che lo circonda, si pone delle domande e si ingegna per trovare delle risposte. Così, analizzando le cause e le motivazioni di un fenomeno, ogni uomo accresce la sua “sapienza”.
Era così anche per i grandi filosofi, come Aristotele e Platone.
Ma per i greci più antichi non era così: i veri “sapienti” si limitavano a diffondere la sophìa degli dei, la vera sapienza. Questi ultimi erano per lo più i poeti, che si credeva fossero ispirati dalle divinità e quindi facessero da tramite tra la sfera celeste e quella umana. Attraverso le loro opere, gli uomini potevano apprendere la volontà e il sapere degli dei, poiché esse erano scritte come sotto dettatura e perciò non potevano essere, in alcun modo, contestate. La sapienza così considerata era quindi strettamente legata al mito: anch’essa andava accettata in modo passivo, senza poter essere esplorata ed analizzata poiché costituiva parola divina. In fondo, però, neanche gli stessi poeti erano veramente sapienti: erano solo coloro che trasmettevano ciò che gli dei o le Muse, custodi della saggezza, decidevano potesse essere appreso dagli uomini. Insomma, per gli uomini non c’era alcuna speranza di venire a sapere qualcosa che non fosse voluto dagli dei.

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