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L’Inquisizione spagnola

L’inquisizione arrivò in Spagna nel XV secolo come strumento totalmente nelle mani del re. Questa istituzione doveva svolgere il compito di emarginare fin da subito le deviazioni religiose attraverso il rogo o la prigione per evitare che queste si espandessero maggiormente.

In Spagna, in particolare, la religione fu un affare di Stato; infatti il Sant’Uffizio (così era inizialmente chiamato il tribunale) prendeva il nome dal compito che doveva svolgere, l‘officium santo: difendere la fede cattolica. In particolare indagava sugli ebrei convertiti per scoprire chi continuasse a praticare clandestinamente l’antica fede.

Dopo l’espulsione della minoranza ebraica, nel 1492, il Sant’Uffizio si mosse contro i moriscos, i musulmani convertiti di buon grado o con la forza che vennero perseguitati fino alla definitiva espulsione avvenuta all’inizio del XVI secolo. Il tribunale sradicò il protestantesimo spagnolo nel Cinquecento e nel Seicento per poi perseguitare i cristiani blasfemi.

L’inquisizione spagnola dipendeva da un inquisitore generale, nominato dal Papa su proposta del Re, a differenza dell’Inquisizione romana che dipendeva direttamente dal papa. I sovrani spagnoli usarono quest’arma senza scrupoli come un’autentica polizia politica al servizio della monarchia. Il primo e più famoso inquisitore, per il terrore che ispirava, fu Tomàs de Torquemada, un frate domenicano di Valladolid. Egli fu uno spietato funzionario politico: rovinò circa 114.000 famiglie e fornì il modello intransigente a cui si ispirarono i successivi inquisitori. I metodi utilizzati dall’Inquisizione verso eretici, streghe, nemici della fede cristiana prevedevano il ricorso alla tortura. La confisca dei beni degli imputati, che li privava di qualsiasi risorsa finanziaria, produceva una sicura «morte sociale» dei malcapitati. Ma i giudici utilizzavano soprattutto la prigione (solitamente a vita) che spesso era l’anticamera del supplizio. L’Inquisizione amava molto le esecuzioni pubbliche, con grande sfarzo. In Spagna erano chiamate autodafé: una sorta di atto di fede che il condannato doveva pronunciare pubblicamente. I condannati portavano sul capo un copricapo alto, diviso in due punte, chiamato “mitra” ed erano vestiti con una tunica gialla. Essi avanzavano in processione e venivano a lungo esortati a rinnegare i loro errori. Se acconsentivano, ottenevano di morire strangolati; se si ostinavano, venivano bruciati sul rogo.

Nonostante queste pene bisogna però ricordare che i giudici dell’Inquisizione erano dei tecnici del diritto molto competenti e scrupolosi, infatti, per esempio, nella città di Toledo i giudici rifiutarono di bruciare delle presunte streghe incolpate dell’adorazione del demonio quando la folla ne chiamava a gran voce la morte. Inoltre L’Inquisizione era un’istituzione unica nel suo genere poiché rifiutava di prendere in considerazione i vari privilegi personali e locali introducendo così un concetto di uguaglianza di fronte alla legge.

Una carica prestigiosa: il doge di Venezia

palazzo ducale (Venezia), antica residenza dei dogi di Venezia
palazzo ducale (Venezia), antica residenza dei dogi di Venezia

Con il titolo di doge (voce veneta equivalente a “duca”, dal latino dux, capo, comandante) veniva indicato, a partire dal VIII secolo, il magistrato incaricato di governare Venezia.

Verso il X secolo il doge si trasformò in una specie di monarca elettivo, eletto appunto dagli esponenti dell’oligarchia patrizia secondo una procedura molto lunga e complessa che aveva lo scopo di evitare scorrettezze da parte di qualunque persona. Col passare degli anni i dogi videro diminuire i loro poteri; questo però non precluse loro la magnificenza esteriore, sia nei cerimoniali sia nelle dimore e nelle vesti sontuose.

La carica di doge era molto ambita soprattutto per il suo valore simbolico e per il l’importanza che donava alle famiglie aristocratiche; l’immensità, la bellezza, lo sfarzo e tutto quello che circondava le varie cerimonie dogali spingevano tutti quei nobili che erano decisi a lasciare un segno, ad essere qualcosa di più che di un “semplice nobile”, ad aspirare alla carica di doge. Ma nonostante tutta questa importanza quella del doge era una carica molto costosa perché il doge stesso era chiamato e obbligato ad auto-mantenersi in modo pesante e questo precludeva alla maggior parte dei cittadini di Venezia la possibilità di aspirare a questa carica, limitandola solo ai membri dell’aristocrazia ricca.

A seconda dei tempi e delle situazioni il doge agiva da condottiero o da supremo notaio. Per cui si può solo dire che sempre all’interno dell’ordinamento politico vi erano una serie di disposizioni che limitavano pesantemente le prerogative del doge e perfino la sua stessa vita quotidiana: la funzione del doge era principalmente quella di rappresentante ufficiale di Venezia nelle cerimonie pubbliche e nelle relazioni diplomatiche con gli altri stati e di mostrarne la regalità pur senza regnare. L’unico potere effettivo che non fu mai sottratto al doge fu quello di comandare la flotta e guidare l’armata in tempo di guerra. Per il resto egli si limitava a sedere a capo della Serenissima Signoria, che era il supremo organo di rappresentanza dei sovrani di Venezia, e presiedere con essa a tutti i consigli della Repubblica, nei quali però il suo voto non aveva più valore di quello di qualunque altro membro.

Il doge aveva anche acquisito sin dalle origini connotazioni religiose, molto astratte fino all’arrivo delle spoglie dell’evangelista Marco a Venezia, nel 828. All’arrivo delle spoglie corrispose anche la costruzione della basilica di San Marco, cappella palatina e chiesa di Stato. Da questo momento in poi il doge divenne a tutti gli effetti Capo della Chiesa di San Marco. Nonostante questo titolo ci furono molte discussioni sul ruolo del doge all’interno della Chiesa stessa poiché al Concilio di Trento venne stabilito che non era un vescovo e nemmeno un principe. Infine, però, furono modificati i decreti conciliari per consentire al doge di partecipare alle cerimonie con gli stessi onori di vescovi e principi.