Tutti gli articoli di Marco Parma

VIAGGIANDO LUNGO LA FASCIA DI CLARKE

Come molti avran fatto a loro volta, ieri sera ho assistito al dibattito in Senato sul canale dedicato (satellite Hotbird 13 Est). Il livello stilistico degli interventi era, come al solito, paurosamente basso: tanto che suonavano semplicemente grottesche le citazioni storiche o “dotte”, che qualche oratore improvvisava in mezzo ad interventi privi di contenuti politici e ricchi di offese e attacchi personali.
Dopo ho visto il telegiornale, con gli sputi e gli insulti lanciati nel pomeriggio a chi aveva dichiarato di voler votare diversamente da quanto deciso dal proprio capobastone. Ho pensato, istintivamente, a quanti anni sono passati dalla fine della guerra, quando sulle spoglie di settecentomila morti si scrisse la nostra bella Costituzione repubblicana, dopo un civile confronto fra ideologie che in varie parti del mondo si confrontavano con le armi in pugno. Ho pensato a mio padre, alle scelte che aveva dovuto fare, a vent’anni, a rischio della vita. E tutto ciò per produrre questo bel risultato? Tutto questo per consentire a un “Onorevole Collega” di gridare “uomo di merda” al senatore Cusumano? Bastano così pochi decenni per cancellare tutto?
Allora mi sono rifugiato sul satellite Astra 19,2 Est, e ho guardato la partita Ghana-Namibia (Coppa d’Africa: su quel satellite il canale Eurosport è gratis). Ghanesi nettamente superiori, ma non segnavano mai: cercavano la bella azione, il colpo ad effetto. Mi consolava la visione di quel calcio un po’ trasognato e danzato, così diverso da quello muscolare, sleale e rancoroso che siamo abituati a subire in dosi massicce.
Sempre sullo stesso satellite, mi sono visto un paio di telegiornali tedeschi (ogni Land ha la sua TV regionale). Mentre davano la notizia della caduta di Prodi, passavano anche loro le immagini del Senato, al momento dell’aggressione a Cusumano. Forse i Tedeschi non sapevano leggere il “labiale” degli insulti, ma sicuramente hanno visto e compreso benissimo gli sputi.
Per finire di soffrire, mi sono spostato su Astra 28,2 E. Su quel satellite sono visibili i telegiornali della BBC. Alla pagina 888 di Televideo, è disponibile una sottotitolatura degli interventi dei giornalisti, che passa sullo schermo con solo pochi secondi di ritardo e mi è indispensabile per capire qualcosa. Anche qui, le immagini della rissa, fortemente contrastanti con un commento molto misurato, tipicamente British, ma anche molto allusivo.
Mi sono chiesto che cosa posso fare per far sapere che questa classe politica non mi rappresenta. Che di quella gente non ho eletto nessuno perché c’erano liste “bloccate” preconfezionate dai satrapi di vario colore. Che, al di là delle personali convinzioni politico-ideologiche, c’è un’emergenza morale che non possiamo più far finta di non vedere e che ci chiama, tutti quanti, a fare qualcosa.

AUTO O COGESTIONI O NULLA?

Aggiungo qualche parola mia.
Le discussioni fra me e il rappresentante di istituto sono state tutte costruttive: nel senso che abbiamo sempre parlato di cose da fare e io (da povero vecchio) ho fatto anche alcune proposte di argomenti o problemi sui quali si potrebbe assolutamente bene e positivamente gestire o cogestire o autogestire. Purtroppo queste idee non hanno trovato seguito presso la “base” studentesca. Ora il rappresentante si è giustamente stufato di venire in presidenza a verificare l’impraticabilità di proposte della suddetta “base”, che ricalcano pari pari il cazzeggio (scusate il termine un po’ brutale) degli ultimi anni trascorsi. Dietro la pretesa di ripetere le esperienze degli anni passati io non riesco a leggere altro che la volontà di prendersi della vacanza, e basta.
E’ stato anche chiesto al preside di “concedere” più giorni di quelli stabiliti dal regolamento per la cogestione (due): ma – piccola lezione di diritto – il regolamento di istituto non è una costituzione octroyée come lo Statuto Albertino, bensì un patto fra le tutte le componenti della scuola (genitori, studenti, docenti, ata, preside) discusso e stipulato in consiglio di istituto: e in uno stato di diritto (quale è, o meglio dovrebbe essere, il nostro) le regole valgono per tutti, non esiste nessun dittatore e nessun sovrano che possa decidere a piacimento quando rispettarle e quando ignorarle. Men che meno il preside, che è invece il garante del rispetto delle regole.
Concludo rendendo pubbliche alcune delle proposte che ho fatto:
a) un’assemblea sulla nuova normativa sui debiti, invitando politici e/o esperti a favore o contro (io come è noto sono contro): esperti a cui chiedere magari come ci azzeccano queste innovazioni con il nuovo obbligo di istruzione, oppure riflettere insieme a loro su tutto ciò che non va (e non è poco) nell’attuale sistema di valutazione, chiedendosi se nel ventunesimo secolo ha un senso tenere in piedi questa parodia della scuola autoritaria;
b) visto che nel 2009 si vota a Rozzano e nel 2008 a Opera per il rinnovo delle amministrazioni locali (compresa nel 2009 la provincia di Milano), aggiornarsi o informarsi con l’aiuto dei docenti su
– compiti della provincia e del comune (principali norme del T.U.E.L., decreto legislativo 112 del 1998, e soprattutto nuovo titolo V della Costituzione);
– modalità di elezione del sindaco e del presidente della provincia (legge 81 del 1993);
– riflessione, da fare in presenza di politici locali, su come mai i giovani rifuggono dall’attività politica: hanno spazio? questa politica è repellente o presentabile? è ancora possibile, ai vari livelli, una politica per il cittadino e non per l’occupazione del potere?
c) caso inceneritore o “termovalorizzatore” come pudicamente si dice: sì? no? dove? quando?, il tutto invitando il comitato del “no”, i fautori del “sì” e dei tecnici non schierati per capire meglio;
d) caso Papa /La Sapienza: errori bipartisan e opportunistiche strumentalizzazioni; pubblici peccatori, gestori di tessere e clientele, noti concubini, tutti in piazza San Pietro per difendere dai “deficienti” la libertà di espressione del Papa e della Chiesa, che nel nostro paese è coartata e repressa;
e) per gruppi ristretti di studenti interessati a una bella “tesina”, allestimento per il 25 aprile di una mostra di materiali d’epoca (da selezionare fra giornali, manifesti, cimeli) che un amico collezionista metterebbe a disposizione.
Anche se sono ormai irrimediabilmente distante (e ahimé di gran lunga) dal mondo giovanile, non mi sembra che tutte queste idee siano proprio da buttar via: ma si sa, bisogna lavorarci sopra, prepararle, attivare contatti ed inviti. Meglio dunque, secondo gli studenti vecchi ai cui la scuola vecchia ha evidentemente inoculato il virus del conservatorismo e della burocrazia, tornare allo schema classico del “capogruppo” che va nel gruppo con una fotocopia in mano, scaricata da internet, a supplicare i “raga” che lo stiano ad ascoltare almeno un minuto, esattamente come l’insegnante che va in classe a far lezione; meglio il “servizio d’ordine”, incaricato della vigilanza e di buttar dentro quelli che escono nei corridoi, pedissequa imitazione del faticoso lavoro quotidiano dei bidelli. Perché nulla nella scuola deve cambiare. Mai.

UN RICORDO

La morte di Maria Giovanna Gritti Morlacchi, avvenuta ieri mattina, colpisce al cuore la nostra comunità.

Insieme al Direttore S.G.A. e a tutti i colleghi insegnanti, collaboratori scolastici, assistenti tecnici e amministrativi, esprimo a Giuseppe Hensenberger e a tutta la sua famiglia il cordoglio, l’affettuosa e raccolta partecipazione di tutti noi.

Voglio anche rendere un sincero e ammirato omaggio a una donna valorosa, che ha profuso grande coraggio e ferma determinazione nella sua lotta contro la malattia, lasciando a tutti noi una testimonianza e un esempio assai difficili da emulare.

In questa contesa che non poteva vincere, ha fatto appello alla sua grinta e alla capacità competitiva di nuotatrice di vaglia, capace perfino, pochi anni fa, dopo aver già subìto il primo intervento chirurgico, di far segnare in gara sui 200 stile libero un tempo che non molti anni prima costituiva record europeo.

Nella sua attività di insegnante ha impegnato grandi energie, cercando sempre di trasfondere negli studenti la volontà di riuscire, affrontando e vincendo con il lavoro e l’impegno le difficoltà incontrate nello studio della matematica e della fisica.

A scuola era una presenza importante che non poteva passare inosservata: perché oltre alla grande professionalità aveva un rapporto simpatico e cordiale con i colleghi e con gli studenti e affrontava sempre le discussioni e i dibattiti sulle cose di scuola in modo franco e leale, senza mai venir meno alle sue solide e sperimentate convinzioni.

A PROPOSITO DI ESAMI

Leggo con molto interesse i commenti sull’esame di stato ospitati dal blog, perché mettono in luce alcune contraddizioni nell’atteggiamento degli studenti, a cui chiedo semplicemente: della scuola ve ne frega qualcosa?
Se la risposta è “sì”, allora studiate e i risultati verranno, tanto in pagella quanto nell’esame; se la risposta è “no”, allora fate pure i vostri comodi, ma senza recriminare se uscite con un 60 strapelato o poco più; e state attenti nel valutare i colloqui d’esame!
Ricordatevi che c’è molta gente che esce contenta dal colloquio perché disinvoltamente “ha parlato”: ma magari ha detto un mucchio di fesserie, mentre altri, anche se con meno “fluency” e con incespicamenti dovuti all’emozione, hanno detto cose intelligenti e hanno fatto trasparire una preparazione più solida. I “commissari” di esami ne hanno fatti tanti e – diversamente da voi studenti – hanno l’esperienza che serve per guardare un po’ più in là delle apparenze.
Va poi sottolineato che l’esame, così com’è congegnato attualmente, dà valore al curriculum scolastico in due modi: attraverso il “credito” (in misura modesta) e, all’esame, con la presenza di commissari “interni”. Questi ultimi, inevitabilmente e – dico io – anche giustamente, valutano le “performance” dell’esame proiettandole sullo sfondo di un profilo complessivo dello studente che conoscono molto bene. E questo, scusatemi, è fondamentalmente giusto perché l’esame si colloca alla fine di un percorso di cinque anni che non può e non deve essere ignorato.
Dunque a me non dispiace che chi ha vissuto la scuola superiore con scanzonata superficialità, senza impegno, affrontando l’esame sperando nelle copiature e nella fortuna, abbia sessanta o poco più: mi dispiace semmai che, a volte, prove d’esame non convincenti impediscano alla commissione di riconoscere appieno i meriti e le qualità di chi ha lavorato.
Quando si lavora in commissione, ci si chiede sempre se conta di più l’esame o la “carriera”, ma è una domanda mal posta, perché una carriera scolastica di qualità sfocia naturalmente in un esame fatto bene. Certo, possono verificarsi delle cadute impreviste (per l’emozione o per circostanze particolarmente sfortunate) e in tali casi considero corretto che la commissione le “inquadri” nel profilo dello studente che emerge da tutte e quattro le prove: e che quindi, nel valutare l’ultima e nel concedere il “bonus”, sappia fare le giuste compensazioni.
In questo contesto, è completamente fuori luogo la pretesa che tutti siano nelle stesse condizioni e che “nessuno sia minimamente avvantaggiato”: la logica che ispira l’esame di stato oggi non è questa, come ho cercato di dimostrare.
Ci si deve quindi adeguare, studiando per l’intero triennio: perché, alla fine, di fronte a una bocciatura o a un “60” anche i più allegri e disinvolti ci rimangono male e piangono lacrime di coccodrillo.
Termino con tre spunti di riflessione:
a) mettiamoci bene in testa che la valutazione è sempre fatta da altri e non corrisponde mai a quello che noi pensiamo di valere;
b) nonostante gli studenti di quinta siano adulti maggiorenni, continua ad aleggiare nei loro discorsi la falsa e infantile convinzione che gli esami siano “una lotteria” dal risultato assolutamente casuale. Mica vero: se si è preparati e si vale, gli esami si passano bene, eccome. E la preparazione che serve non è quella mnemonica (inevitabilmente labile e di corto respiro), ma quella pazientemente interiorizzata “con amore”, valorizzando le interconnessioni fra i diversi campi del sapere;
c) voti e punteggi (scusate se lo ripeto una volta ancora) sono attribuiti alla prestazione, non alla persona: perché come persone, uniche e irripetibili, valiamo tutti “cento” e forse più.
Buone vacanze e buona fortuna dal vostro preside che ha tanto trepidato e sofferto per voi!

SALUTO

Momenti di grande commozione, al termine del collegio docenti del 5 giugno scorso, per il saluto ai valenti colleghi che lasciano (giovanissimi) la scuola per pensionamento. Ad Arnaldo Stocchiero, Annamaria De Micheli, Corrado Giannone, Elena Falcone e Roberto Spelta il preside ha rivolto a nome di tutti un affettuoso ringraziamento, cui si sono uniti, con vivissimi applausi, tutti i colleghi presenti.

FOU RIRE

Nella mia lezione odierna di latino in 2D ho avuto occasione di specificare che gli imperativi dei verbi “dicere” e “facere” presentano alla seconda persona singolare, rispetto alla coniugazione regolare, l’apocope della vocale finale. E’ esplosa una risata generale e irrefrenabile, che mi ha molto consolato: perché, in questi due anni di insegnamento del latino, ho molto insistito sulla linguistica comparativa. però mi sono chiesto: che razza di vocaboli fanno imparare, al giorno d’oggi, gli insegnanti d’inglese?

Con chi avete a che fare

vignetta raffigurante il preside su un mezzo spazzaneve, mentre ripulisce il cortile della scuola

Per realizzare la sua bella animazione natalizia, Aniello Colavolpe ha riutilizzato la simpatica caricatura di circa un anno fa, dal titolo “Il dirigente nella neve”, che qui riporto. Il titolo alludeva evidentemente al “Sergente nella neve” di Rigoni Stern: e, guarda caso, sergente io lo sono. Ma di questo parleremo più avanti.

Le parole del fumetto di Pigni (che ardisco tradurre: “Tutti gli studenti devono sapere con chi hanno a che fare”) mi avevano fatto a lungo riflettere. Tanto a lungo che oggi, sollecitato dal riutilizzo di questa vignetta, sono ancora sul problema: da dove viene tutta questa testardaggine? Come mai le scuole di Milano chiudono per neve e la “mia” no? A che pro tenere aperto l’uscio, se poi abbiamo a scuola poche decine di studenti?
La conclusione di Angelo Paganini (cito sempre dal blog) è lapidaria e ancipite: “Le scuole di intere regioni sono rimaste chiuse per neve, ma l’istituto Calvino di Rozzano non è una scuola come le altre, non ha professori come gli altri e non ha un preside come gli altri”. Ma come mai?

Mi sono quindi sentito sollecitato a riflettere sulla formazione della mia personalità, e su coloro che sono stati i miei maestri e vi hanno impresso un sigillo indelebile. Lo faccio dopo quasi un anno (nell’imminenza della prossima nevicata) superando due ostacoli: da un lato, il naturale pudore che dovrebbe indurmi ad astenermi dal parlare di me stesso; dall’altro, il timore di far torto a tante ottime persone che ho incrociato nella mia vita: i tanti amici, sicuramente, ma anche tutti coloro che maestri dovrebbero essere per mestiere, cioè gli insegnanti.
Ne ho tuttavia incontrati di ottimi, sia chiaro: a partire dalla mia maestra Stefania Gerili (che tenne per cinque anni interi la mia classe maschile, senza consegnarla a un maestro maschio dopo il primo ciclo, come allora si usava), passando poi per la Professoressa Elmede Sironi che nella scuola media mi ha dato tutti i “fondamentali” dello studio del latino, per giungere infine ad alcune autorevolissime figure incontrate nel liceo: il Professor Luigi Lehnus, oggi docente di lettere antiche all’università, la Professoressa Clementina Croci Gerli, responsabile del mio innamoramento per le lettere, che conobbi nell’anno (il 1969) in cui lei perse tragicamente il padre nell’attentato di Piazza Fontana, il Professor Piero La Francesca, l’unico che mi fece amare la filosofia, e la Professoressa Franca Ranci Ortigosa, giovane e splendida insegnante di matematica degli ultimi due anni di liceo.
Oltre che ottime persone, quelli che ho citato sono anche stati ottimi esempi di vita, cioè persone capaci di testimoniare i valori morali, civili e culturali che ci andavano trasmettendo: eccellenti dimostrazioni, quindi, del fatto che il buon insegnante è prima di tutto vir bonus, bonus civis; perché nella comunicazione didattica (come in tutte le altre forme di comunicazione) i messaggi trasmessi in modo subliminale sono un corollario indispensabile per rendere credibile ciò che comunichiamo in modo esplicito e intenzionale.

I miei “maestri”, coloro che hanno lasciato una traccia visibile sulla mia cera allora ancora calda, sono persone che ho incontrato più avanti, cioè nel momento in cui mi accingevo a lasciare gli studi per iniziare la mia vita professionale e lavorativa: ma prima di parlare di loro voglio riconoscere che il mio modo di affrontare il lavoro è lo stesso di mio padre. Nonostante la diversità del suo contesto lavorativo (l’azienda), verso il quale, all’epoca della scelta dell’università, rifiutai decisamente di avviarmi («non voglio fare la vita che hai fatto tu», gli dissi brutalmente), mi accorgo che l’approccio è sostanzialmente uguale: al lavoro si va se appena appena si riesce ad alzarsi dal letto, l’azienda – nel mio caso la scuola – è come cosa propria, il lavoro ha una centralità e una priorità ben definite.
Proprio in questi giorni, immediatamente successivi alla sua improvvisa scomparsa, comprendo «che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto»: quello di considerare il lavoro non una maledizione biblica, ma una forma di servizio alla collettività, una via per migliorare la condizione umana su questo pianeta.

Ma parliamo ora dei maestri che ho avuto al di fuori della famiglia e che ho incontrato fra i venti e i venticinque anni di età: nel periodo che, ai nostri tempi, rappresentava uno snodo fondamentale per le scelte future.

Emilio Bigi comes first to mind, mio professore all’università e relatore della mia tesi di laurea: onore, quest’ultimo, assai difficile da conquistare per il prestigio che aveva in università questo docente. Ma per me, sin dai primi mesi, non esistevano alternative da prendere in considerazione. Ero all’università solo per laurearmi in letteratura italiana e – con convinzione ancor maggiore dopo aver seguito il suo “monografico” su Leopardi – solo con quel finissimo letterato, punta di diamante, insieme a Maurizio Vitale, dell’istituto di filologia moderna, e indubbiamente il migliore: ligio al dovere, non mancava mai alle lezioni né all’orario di ricevimento degli studenti.
Al momento di scegliere la tesi, rifiutai con decisione di lavorare con un suo assistente e per questo accettai un autore (Metastasio) piuttosto lontano dal mio sentire. Fu il prezzo che ben volontieri pagai per il privilegio di essere ricevuto a casa sua, nel suo studio, al cospetto della sua gigantesca libreria. Leggeva e correggeva ogni capitolo della mia tesi con la dedizione del buon professore di liceo; moderava i miei azzardi lessicali e sintattici suggerendo termini più perspicui e periodi più brevi, meno involuti. Conservo ancora, in soffitta, tutte le minute con le sue preziose annotazioni a matita; ma soprattutto conservo il ricordo delle lezioni che mi impartiva durante la discussione dei vari capitoli della tesi. Ciascun incontro era un evento, e da lui imparai alcune cose fondamentali.
In primo luogo, capii che la chiarezza dell’argomentare è un pregio e non un difetto, e che le oscurità e le ricercatezze di molti critici letterari non sono segni di eleganza, ma sintomi di scarsa chiarezza di idee. «Lasci perdere, non si faccia problemi – disse una volta a proposito di un passo un po’ ambiguo di Binni – ogni tanto Walter, in quello che scrive, non ci capisce bene nemmeno lui».
Resistetti quindi, grazie a lui, alle ricorrenti tentazioni di indulgere al barocchismo stilistico e adottai poco a poco uno stile più paratattico, un argomentare più vicino alla prosa illuministica.
Infine, last but not least, apprezzai il suo atteggiamento disponibile e sostanzialmente democratico (in un’epoca in cui molti lo erano tanto più forsennatamente a parole quanto meno lo erano nei fatti). Non mi sarei mai aspettato, dal più insigne professore di letteratura dell’università di Milano, una così solerte e puntuale tutorship.
Pertanto, Emilio Bigi fu da allora per me un modello di stile e di metodologia critica, ma anche, dal punto di vista etico, un vero maestro per la sua capacità di avvicinare il mio lavoro con puntualità e – oserei dire – con umiltà. Non mancò mai un appuntamento e si piegò – lui, fine lettore di Poliziano ed Ariosto, di Cesarotti e Leopardi – a calarsi nella mia prosa spesso lutulenta per depurarla e affinarla: ma dimostrando un grande rispetto per le mie idee e per le mie argomentazioni.
Ho ben presente il suo esempio quando (si parva licet) non lascio mai cadere una richiesta di contatto proveniente da uno studente o da un genitore: perché da Emilio Bigi ho imparato, fra l’altro, che l’autorevolezza non si esprime nel distacco aristocratico, ma nella capacità di affrontare con sicurezza il confronto.
Alla discussione della tesi, il correlatore, il compianto Sergio Antonielli, ne lodò sia il contenuto sia la forma; ascoltai, annichilito, le sue parole, sentendomene indegno: perché il maestro Emilio Bigi ne era l’artefice nascosto. All’esame di laurea ero andato solo, non avevo voluto nessuno con me: perché mi sentivo carico di disagio all’idea che, laureato, sarei passato alla condizione di disoccupato; però, quello che mi sentii dire in quella occasione mi diede la fiducia che mi serviva.

In ordine cronologico di apparizione sulla scena della mia vita, il mio secondo maestro è stato Giuseppe Magri, preside della scuola media “Duca degli Abruzzi”, la prima in cui lavorai e che «fu donna di province un giorno», con ventisette classi, e che oggi mi stringe il cuore quando la vedo, ridotta com’è a succursale dell’Agnesi. Sic transit gloria mundi.
Alla prima supplenza lì, ancor prima della laurea, arrivai per caso e, dopo avermi accompagnato in classe per la mia prima lezione di “elementari conoscenze di latino”, Magri rimase fuori ad origliare: tanto che, uscendo a fine lezione, me lo trovai davanti e mi disse semplicemente: «Lei può fare». Divenni una pupilla dei suoi occhi e ne seguì una lunga serie di supplenze, brevi e lunghe, che durò quattro anni, a cavallo dei miei studi e del servizio militare.
Oggi che sono quasi vecchio capisco meglio che cosa lui vedeva in me. L’istinto biologico di conservazione non si limita alla trasmissione del patrimonio genetico, ma si estende a quello professionale. Intravvedendo in me il preside che sarei diventato, ambiva ad imprimere nei miei comportamenti la traccia dei suoi princìpi e del suo modo di interpretare il proprio ruolo.
Arrivare presto alla mattina, possibilmente per primo, era una sua abitudine e un suo principio. «Si educa con l’esempio» diceva sempre; e – per guidare la scuola – bisogna esservi presenti e visibili, come Giuseppe Magri insegnava mantenendo alcuni comportamenti fissi e ricorrenti. Dopo essere arrivato regolarmente prima delle otto, assisteva all’ingresso degli alunni e alla loro uscita alla fine delle lezioni; firmava personalmente le giustificazioni delle assenze.
Era uomo di cultura, oltre che di personalità molto forte: e su queste risorse fondava la sua indiscussa autorevolezza e il suo ascendente sui docenti, sugli alunni e su tutto il personale della scuola.
«Melius timeri» sembrava essere il suo motto, ma era anche amato, anche se ovviamente non da tutti.
Per esempio, non lo amavano coloro che venivano frequentemente eletti destinatari delle sue improvvise visite alle classi (fatte – dicevano i dissenzienti – a scopo intimidatorio e inquisitivo: ma spesso questi colleghi avevano anche qualche cosa da nascondere).
Devo però ammettere che neanche a me piaceva (tanto che non lo imito per nulla in questo) il suo eccesso di schiettezza montanara (era nativo di Vilminore di Scalve) che lo portava a rimproverare i docenti in presenza degli alunni, interferendo con la lezione in corso per propugnare, contro le scelte dell’insegnante, la sua pedagogia sostanzialmente conservatrice. Nel contesto di tali discussioni, bisognava avere molta personalità ed esperienza (oppure, nel mio caso, una notevole incoscienza giovanile) per controbattere senza timori reverenziali e tenergli testa; lasciandolo vincere, ovviamente, ma cercando di recuperare credito rispetto alla classe: perché se no, uscito lui, era grigia.
La sua confidenza mi onorava e mi intrattenevo volontieri in lunghe chiacchierate con lui, o più esattamente mi prestavo di buon grado ad ascoltare le sue esternazioni: durante le quali mi insegnò, fra l’altro, come valutare gli insegnanti attraverso alcuni elementi essenziali, e in proposito debbo riconoscere che era praticamente infallibile e il suo metodo, la sua check-list mi risulta ancor oggi preziosa.
Dai ragazzi era temutissimo, ma da buon uomo di scuola li amava sinceramente e ne difendeva l’assoluta centralità. Oggi, in tempi in cui l’invadenza sindacale pone continuamente al centro dell’interesse i veri o presunti “diritti dei lavoratori” la sua lezione mi torna quanto mai utile. Escludeva che vi fossero ragazzi (o classi) che «non si possono tenere» e rispetto ai problemi disciplinari propugnava l’unica soluzione veramente valida: lavorare con loro, lavorare per loro. Citava sempre Giovenale: «Maxima debetur puero reverentia». Si può dire di più?
Quando lo conobbi era già vicino alla pensione, cui si rassegnò solo nei pressi del settantesimo anno. Del resto era in formissima: snello, atletico, dritto come un pino, fuori dalla scuola non avrebbe potuto vivere e difatti da pensionato non visse a lungo.
Tornando alla “Duca degli Abruzzi” per pratiche di segreteria (avevo iniziato da un paio d’anni con le supplenze annuali e avevo dovuto migrare altrove), avevo portato con me mio figlio sul passeggino. Lui si chinò a giocare con le sue manine, il bimbo sorrideva e lui anche, con tenerezza venata di malinconia. «Il tuo bambino è bellissimo – mi disse – e anche il suo nome – Lo hai chiamato Giacomo: il nostro Giacomo, giusto?». Quel breve momento di complicità ancor oggi mi commuove, perché dopo quella volta non lo vidi più.

Fin qui tutto normale: è abbastanza logico che i maestri di vita di un uomo di scuola siano stati un docente e un preside di scuola media. Il terzo ed ultimo personaggio che voglio includere in questa piccola galleria, invece, non fa parte del nostro mondo pur avendo appartenuto a un’istituzione pubblica.
Si tratta di Gianalfonso d’Avossa, oggi generale in pensione, che ebbi quale comandante del 19° Gruppo di Artiglieria Campale Semovente “Rialto”, di stanza a Sequals, in provincia di Pordenone.

A proposito di servizio militare una premessa è d’obbligo: diversamente da molti altri, considero questa esperienza positiva e altamente formativa, che tale è stata per una somma di favorevoli coincidenze.
In primo luogo, ho fatto il mio servizio di leva a ventiquattro anni, con un discreto background culturale e con l’obiettivo di imbarcarmi nella professione che poi ho svolto; fattori, questi, che hanno determinato in me un vivo interesse antropologico e culturale per i miei compagni d’arme, che spesso aiutavo e sostenevo nelle maniere più svariate: dalla gestione dei rapporti con la gerarchia al sostegno psicologico nei casi (purtroppo assai frequenti) di abbandono da parte della fidanzata durante il servizio. Ma soprattutto, grazie all’interesse cui accennavo, imparavo a conoscere il popolo italiano, nella ricchezza delle sue tradizioni ma – purtroppo – anche nella sua desolante povertà dal punto di vista culturale: compensata però da una carica umana veramente non comune.
Inoltre, ho difeso la Repubblica in un reparto operativo (frequenti esercitazioni e novanta granate sparate dal mio pezzo: numeri da tempo di guerra, non ci si annoiava affatto) e popolato anche da diverse altre persone di età più matura, caratterizzate da un percorso di crescita analogo al mio. «Impossibile che tu non abbia fatto niente – dicevano – a Sequals non si arriva mai per caso»: forse, ma sicuramente esageravano nel definire la nostra una caserma punitiva. Comunque, la consapevolezza politica di questi compagni d’arme aveva fatto da tempo cessare il nonnismo e aveva creato per contro un clima collaborativo e solidale nei confronti dei nuovi arrivati.
Conservo ancora di quel periodo due carissimi, fraterni amici, fedeli da quasi trent’anni. Oso aggiungere che chi non ha fatto il militare non sa veramente che grande cosa può essere l’amicizia; e fra le tante persone che a Rozzano ho ritrovato (come padre di un nostro ex alunno) c’è anche il Caporale Maggiore Vanzini: purtroppo lo ricordo distintamente mentre saliva sulla jeep che lo accompagnava in stazione, in congedo anticipato per la morte improvvisa di suo padre.

Ma veniamo a Gianalfonso d’Avossa che – per intenderci – è quel «provocatore» che recentemente, dopo un funerale di stato, ha apostrofato il presidente Bertinotti dandogli dell’opportunista: gesto del tutto coerente con la sua storia di personaggio antipolitico, contraddittorio, romantico e geniale.
Si presentò a noi svergognando pubblicamente, in adunata di gruppo, tanto l’artigliere che si era fatto raccomandare per una licenza quanto l’onorevole che aveva utilizzato la linea telex dedicata per invitare il comandante a concedergliela.
Per quel che riguarda il rapporto con me, dopo un incidente formale che mi fruttò un pubblico rimprovero (a un suo comando di attenti in adunata, il corpo di guardia che quel giorno comandavo non aveva ottemperato, attendendo il mio ordine), avemmo una lunga chiacchierata mentre, una sera di settembre, come “capomacchina”, lo accompagnavo a casa. Fu la prima di tante.
Una notte di autunno comandavo il corpo di guardia e come di consueto vegliavo: perché il dover accompagnare le guardie sul posto ogni due ore mi impediva di dormire. Lui mi avvicinò dicendomi, con una vena di rimprovero: «Parma, lei non mi ha mai detto di avere precedenti penali!».
Caddi dalle nuvole, sulle prime non sapevo cosa rispondere: ma poi mi venne in mente una vecchia citazione rimasta senza seguito, per violazione dell’art. 633 del Codice Penale. Ero stato sollevato di peso e identificato dalla polizia durante un tentativo, abortito, di occupazione della scuola. Gli descrissi l’episodio e poi gli domandai perché se ne fosse occupato. «Deve sapere, Parma – mi rispose – che le nomine a caporale sono disposte dal comandante del reparto senza particolari formalità, mentre quelle a caporalmaggiore prevedono l’acquisizione del parere del comando di brigata: che nel suo caso si è espresso in senso negativo, per la ragione che lei mi ha appena spiegato». Ma poi soggiunse, recisamente: «Ma non sia mai detto che io non posso nominarla caporalmaggiore solo perché un commissario di polizia non la pensava come lei».
Divenni dunque caporalmaggiore, contro il parere del comando di brigata; e, al congedo, sergente, con deroga speciale che d’Avossa si adoperò ad ottenere direttamente dal Ministero della Difesa.
Rimanemmo in contatto anche dopo il mio congedo, e in particolare nell’anno in cui, da colonnello, comandò le “Voloire” di stanza nella storica caserma milanese di Piazzale Perrucchetti. Per il calendario del reggimento, mi commissionò una storia di Milano in due facciate, che resta ancor oggi una delle mie produzioni meno spregevoli.
D’Avossa ripeteva spesso: «L’istituzione è fatta dagli uomini»; per dire, in poche parole, che anche in un’istituzione totale come l’esercito il clima e le relazioni potevano essere ben diversi, a seconda delle persone che ne erano protagoniste. E insegnava con l’esempio che il comandante deve saper assumere le responsabilità e deve anche saper rischiare, presidiando con uguale fermezza entrambe i versanti del rapporto: quello con i subordinati e quello con i superiori, la politica interna e la politica estera.
La sua leadership si alimentava continuamente, al di là delle contraddizioni che pure c’erano, di una grande indipendenza di pensiero, non immune da forme anche ardite di contaminazione ed eclettismo. Aveva poi l’innata capacità (derivante, è evidente, da una debordante autostima) di farci sentire protagonisti di qualcosa di importante, di un progetto comune in cui ciascuno di noi aveva un ruolo. Alcuni decenni prima che se ne accorgessero gli psicologi e i formatori dei manager, aveva compreso l’importanza e la centralità della dimensione emotiva dell’animo umano. Non a caso terminava sempre i suoi ordini del giorno con le parole: «… e soprattutto: amore nei vostri sentimenti».

They were my close companions many a year.
Con queste note spero di aver risarcito in piccola parte il grande debito che ho contratto con loro; e rievocando le loro figure ho fors’anche aiutato chi mi legge a capir meglio «con chi avete a che fare». Nel bene e nel male, ovviamente.

Chiudo con un “cameo”, quasi in guisa di poscritto.
Nel febbraio 1982, quando nacque prematuramente mio figlio e fu ricoverato in rianimazione all’Ospedale San Carlo, mi assentai per un’intera settimana dal lavoro (ero in servizio, allora, alla Scuola Media “Manzoni” di Arconate come insegnante di sostegno). Rientrai, com’è ovvio, assai provato e preoccupato e andai dal preside (si chiamava Andrea Staluppi) per giustificarmi.
Lui mi accolse con parole calde e affettuose, chiamandomi «Fratello Marco»; mi chiese infine se avessi un certificato medico giustificativo. Ovviamente gli risposi di no: avevo tutt’altro per la testa, ero piombato dalla serena e felice attesa al dramma nel giro di pochi giorni, figurarsi se pensavo a salvare una settimana di paga.
In risposta, lui si limitò a ribadire: «Coraggio, fratello Marco, vedrai che tutto andrà bene». Di quella settimana di assenza non ci fu mai traccia nella mia busta paga. Che Dio gli perdoni questo piccolo abuso e gli renda lieve la terra.

Rozzano, 22 gennaio 2007

GRANDE SUCCESSO DELLA III C A BASIGLIO

La replica dello spettacolo di teatro scientifico della 3C del Liceo Scientifico è andata in scena sabato 16 dicembre a Basiglio nell’ambito della manifestazione “Aspettando il Natale 2006”. Grande successo di critica di pubblico e premio della Giunta Regionale della Lombardia, consegnatomi dall’Onorevole Valentina Aprea, segretario di presidenza della Camera dei Deputati.
Vivissime felicitazioni ai ragazzi, alla Professoressa Marina Ascari, al regista Marco Pernich.

un momento dello spettacolo della terza C a Basiglio