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ESAMI DI STATO

La scuola è, notoriamente, un elefante conservatore, tardo e goffo nei movimenti, appesantito da una burocrazia ottocentesca. Quest’ultima, marginalmente scalfita da alcuni timidi tentativi di modernizzazione e snellimento, celebra ogni anno a fine giugno, agli esami di stato, i suoi squallidi fasti. Ordina, sotto carnevalesca pena di inapplicabili sanzioni, il ritiro dei cellulari, lo stacco di internet e il divieto di utilizzo delle calcolatrici scientifiche. Dopo aver timidamente fatto presente ai docenti, in corso d’anno, che forse è il caso di prendere in qualche considerazione l’idea di aggiornarsi alle nuove tecnologie, li rassicura nelle loro peggiori abitudini imponendo agli studenti, in occasione degli esami, di tornare alla biro e di fingersi (loro, nati nell’era del digitale!) uguali identici ai giovani (analogici) di cento o duecento anni fa: di dimenticarsi di essere teste pensanti e di reinventarsi come teste farcite di nozioni passivamente assimilate e ripetute in colloqui d’esame tutti giocati sul tema del “ricordare”. Quante volte, durante i colloqui, si sente pronunciare questo verbo! D’accordo, l’ha detto anche Dante che “non fa scienza sanza lo ritener l’avere inteso”: ma, vivaddio, ci sono altre dimensioni della storia culturale di ciascuno di noi, e ben più importanti! E se pensiamo che tutto lo studio dell’ultimo anno (quando c’è, naturalmente) viene finalizzato a questo squallido rituale ottocentesco, vien da chiedersi se la scuola, al di là del suo apparato amministrativo, autoritario e sanzionatorio, abbia ancora un senso e un ruolo nella formazione delle nuove generazioni.
Che dire, poi, dei bolli di ceralacca, degli esiti delle prove scritte pubblicati nel punteggio totale con soltanto la facoltà di richiedere la certificazione del punteggio ottenuto in ciascuna di esse, delle trovate degli azzeccagarbugli romani che un anno prima ti dicono di pubblicare i voti e l’anno dopo ti dicono di non farlo? Che dal principio sacrosanto della trasparenza virano disinvoltamente verso l’opacità e l’ambiguità senza ragione apparente e senza un credibile fondamento legislativo? Non si può dire a codesta gente, in codesto ministero, che il diciannovesimo e il ventesimo secolo sono finiti, che il ventunesimo è iniziato? Questi grigi e anonimi autori di circolari e di ordinanze mi ricordano quei soldati giapponesi nascosti nella giungla, che ancora negli anni ’60 del secolo scorso si rifiutavano di credere che la guerra fosse finita e che il Giappone l’avesse perduta! Adesso per fortuna sono passati più di sessant’anni e tutti questi irriducibili sono morti. Ma quando moriranno gli estensori delle circolari ministeriali? Perché non viene mai un ministro con lo staffile, a cacciarli fuori dal tempio? Fino a quando dovremo tollerare che una cosa tremendamente seria come l’educazione e l’istruzione dei giovani venga condizionata e inquinata da un ceto burocratico irresponsabile e autoreferenziale?
Nel mio ruolo di presidente i commissione, maleodorante di sudore, carta, inchiostro e ceralacca, mi dedico, in questa interminabile attesa di unapalingenenesi forse impossibile, al tentativo non sempre facile di salvare il maggior numero possibile di vite umane. Francamente, non mi sento mai di avallare bocciature (pardon: “esiti negativi”) che avrebbero come unico effetto un crudele e inutile prolungamento della reclusione scolastica. Oggi come oggi, nessuno (neanche i meno ricchi) si vede negare la libertà dopo cinque anni di reclusione: perché mai dovremmo incrudelire su incolpevoli studenti più che su delinquenti incalliti?

LICEO “EINSTEIN” DI MILANO: MATURITA’ 1972, TERZA COMMISSIONE

Molti si sognano gli esami di maturità per tutta la vita, io mai. Secondo Freud i sogni sono riemersioni di materiale psichico depositato nell’inconscio: ma, nel mio caso, quel mese di luglio 1972 nell’inconscio non ci finirà mai e rimarrà sempre ben presente nei miei ricordi. Sono andato a recuperare in mansarda il ritaglio del “Corriere della Sera” del 5 agosto 1972, che a quella sessione d’esame dedicava un lungo articolo intitolato “Comincia la guerra dei ricorsi per i ventinove alunni respinti”. Se non erro si trattava di sette della mia quinta (sezione E) e di undici della F, gli altri saranno stati privatisti che allora, diversamente da oggi, non potevano farsi tranquillamente gli esami nelle loro scuolette.
Il numero dei bocciati era comunque esorbitante ed anomalo, considerando che, dopo la riforma del 1969, l’esame era diventato molto più facile. Due scritti e orali su due sole materie: la prima scelta dal candidato e la seconda (formalmente) dalla commissione. In realtà il “membro interno” (uno solo dei sei componenti) aveva l’elenco dei “desiderata” degli studenti e normalmente era in grado di assicurare la possibilità di fare l’orale su due materie scelte dallo studente.
La mia quinta non era una gran classe e non aveva precedenti brillanti. Infatti in terza, su 36 che eravamo, ben 16 erano stati bocciati fra giugno e settembre, dopo un anno in cui il nostro comportamento era stato spesso semplicemente inqualificabile e diversi miei compagni erano stati gratificati del sette in condotta. Grazie a questo inevitabile bagno di sangue, in quarta diventammo una classe quasi normale, ingentilita (e abbellita) dall’inserimento di due belle ragazze provenienti da altri licei che portarono la popolazione femminile della classe a ben quattro unità.
Tutti in quinta, dunque, nell’anno scolastico 1971/72: e in quinta (esattamente come adesso, anzi peggio) non si faceva un tubo fino ad aprile, quando il Ministero comunicava le quattro materie d’esame, fra cui se ne sceglievano due e si cominciava finalmente a studiare.
Da parte mia, ero uno studente appassionato, ma selettivo e molto sensibile alle attenzioni e alle gratificazioni dei docenti. Le insegnanti di lettere, matematica ed inglese travedevano per me, mentre il nuovo professore di filosofia riteneva che della sua materia non capissi quasi nulla; la professoressa di scienze mi sopportava a malapena e quello di disegno (Architetto Palazzolo Mario) per me semplicemente non esisteva. Normale, dunque, che la mia pagella fosse molto contrastata: otto in matematica e cinque in filosofia, nove in inglese e cinque in disegno. La negligenza di alcune materie, evidenziata nel giudizio di ammissione all’esame, mi sarebbe costata i pieni voti.
Ma veniamo agli esami. Presidente della commissione era la Prof. Franca Saini di Monza; i commissari erano il Prof. Viva di lettere (proveniente da Lecce), il prof. Maggi di filosofia (romano) e la Prof.ssa Ravagnan, di matematica, proveniente da Torino. Membro interno, la nostra Prof. Croci, di lettere. L’unico membro interno, nell’esame di allora, aveva un compito delicatissimo, in quanto doveva gestire da solo quell’attività diplomatica che oggi si può svolgere, in squadra, a cura di ben tre commissari interni.
La prima prova (italiano, come oggi) proponeva quattro temi, fra cui scelsi quello sull’Unione Europea, che io bollai come una sorta di “internazionale capitalista”, voluta dai governi e non dai popoli. In tempi recenti, più di un referendum popolare ha confortato la mia tesi di allora. So che l’elaborato ebbe un’ottima valutazione.
Alla prova di matematica non fu consentita la libera scelta del posto. Si passava dal tavolo della presidenza per l’appello e un commissario indicava il banco a cui sedersi: un banco sì, un banco no, in modo da mescolare le due classi. Io, non so come, riuscii a sedermi, non individuato, fra le mie compagne Elvetico ed Esposti, che quella mattina avrebbero fatto di tutto per me. Ad entrambe le prove scritte, sorretto da presunzione ed incoscienza, avevo portato solo la penna nera. Niente vocabolario, niente formulari (solo un foglietto con le formule di postaferesi, che logicamente non servì a nulla).
Il compito di matematica proponeva quattro temi fra cui se ne dovevano scegliere due. Io ne feci tre e aiutai nel contempo le mie due compagne.
La tensione all’interno della commissione incominciò durante la correzione degli scritti; la Prof. Croci (irritualmente) ce ne teneva al corrente in lunghe telefonate. Formalmente alle singole prove non si davano voti, ma giudizi: l’unico voto ufficiale era quello finale; ma ovviamente per praticità ogni prova scritta veniva letta e valutata con un voto numerico. Io ebbi otto in italiano e nove in matematica, ma tanto per i miei compagni quanto per i colleghi del corso F grandinarono le insufficienze. La Prof. Croci dava fondo alle risorse del suo elegante savoir faire, mentre il membro interno della F (il Prof. Umberto Diotti, poi divenuto preside di liceo classico e oggi in pensione) di carattere meno diplomatico, litigava a muso duro.
Agli orali, soprattutto all’inizio (quando tutti vanno a sentire e l’ansia di chi è interrogato aumenta), la tensione era alle stelle: c’era chi tremava, chi scoppiava in lacrime nel bel mezzo del colloquio, chi ammutoliva. Io sostenni la prova orale il 26 luglio, a tre giorni dalla conclusione della sessione. Portavo italiano e avevo avuto inglese, la seconda materia che avevo chiesto. In italiano non fui particolarmente brillante (la presidente mi fece commentare “Il gelsomino notturno” di Pascoli e il commissario di italiano un brano dei “Sepolcri”: raramente si avventurava oltre il Foscolo), mentre in inglese potei maramaldeggiare su una malcapitata commissaria supplente che interrogava aiutandosi con il libro sperto sotto il banco.
Mentre esponevo torrenzialmente Thomas Stearns Eliot, la poverina continuò a ripetere “yes, yes, enough, enough…” fino a quando finalmente allentai la morsa.
Venne poi lo scrutinio finale, con altre liti e battaglie: situazione ulteriormente complicata dal nostro esimio signor preside Enrico Georgiacodis che, caso vuole, era stato presidente di commissione nel Liceo di Monza da cui proveniva la presidente della nostra commissione e… aveva lasciato il segno. Sicché noi diventammo vittime dell’inevitabile ritorsione. Io ci rimisi il 60/60 (poco male: nel resto della mia vita non ha affatto pesato), ma molti altri furono condannati a un altro anno di Liceo e i privatisti vennero sterminati. I ricorsi al Ministero produssero come effetto – vero Natale – il rifacimento degli orali per i bocciati di fine luglio, ma uno solo di essi riuscì a rovesciare il verdetto dell’estate.

“RONDE ROSSE” A ROZZANO – LETTERA APERTA AL SINDACO MASSIMO D’AVOLIO

Rozzano, 19 maggio 2008
Egregio Signor Sindaco,

Essendo “domiciliato per la carica” a Rozzano in via Guido Rossa presso l’Istituto di Istruzione Superiore “Italo Calvino”, mi sento Rozzanese per adozione: anche perché a questa Città ho dedicato già ben diciotto anni della mia vita professionale, prima come docente e poi come capo di istituto. In quest’ultima funzione, ho impostato e mantengo un rapporto di leale e fattiva collaborazione con l’Amministrazione Comunale da Lei diretta, da cui ritengo che tanto la scuola quanto l’Amministrazione abbiano ricavato evidenti benefici.
Tuttavia, proprio perché leale, il rapporto deve anche essere franco e diretto.
Per questa ragione non posso mancare di esternare la perplessità e la costernazione che ho provato nel leggere sul settimanale “Panorama” l’articolo intitolato “Una notte di primavera con le ronde di sinistra”.
Mi ha profondamente rattristato vedere la Città, i suoi Amministratori e un Ufficiale di Polizia Locale sottoposti al sarcasmo di un giornalista che, già in partenza, non poteva non essere sospettato di tale intenzione. Le suggerisco quindi, Signor Sindaco, di liberarsi sollecitamente del Suo collaboratore che l’ha fatta cadere in questa trappola.
Non so cos’abbia pensato Lei nel rileggersi, dipinto come sceriffo, nelle descrizioni di “Panorama”: “42 anni ben portati dentro un giubbotto sportivo (�)” “Si capisce che la parte dello sceriffo democratico comincia a piacergli”. Assai peggio, ai miei occhi, ne esce il Suo Assessore accompagnatore Stefano Apuzzo che – racconta “Panorama” – scherza con colpevole leggerezza con i cappucci del Ku-Klux-Klan senza minimamente tenere presente la doverosa prudenza suggerita dal famoso detto popolare “Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi”. L’Assessore viene anche umoristicamente descritto nell’atto di apostrofare un Rumeno (dandogli del “tu”: perché agli stranieri non si dà mai del “lei”?) in dialetto napoletano, sulla base della presunzione di universalità di questo idioma. Nel quadro dell’inutile e rovinoso degrado d’immagine gratuitamente inflitto alla nostra “Rozzangeles”, non viene risparmiato dall’ironia del giornalista nemmeno l’incolpevole Vincenzo La Vecchia, descritto con “faccia e baffi da film poliziesco anni �70”. All’intento sarcastico del giornalista dà poi alimento la scarsa rilevanza delle operazioni di ordine pubblico poste in atto in quella notte brava: dieci Rumeni sloggiati da via Perseghetto, due famiglie accampate sotto un ponte allontanate fra l’abbaiar dei cani.
Nella mia fatica quotidiana, in cui, non diversamente da tanti altri docenti e presidi delle scuole di Rozzano, cerco di coniugare le politiche dell’accoglienza con la valorizzazione delle eccellenze che questo territorio sa esprimere, non mi sento certo sostenuto da un Sindaco e da un Assessore che del tutto impropriamente si improvvisano poliziotti e mettono in scena una scimmiottatura delle “ronde padane” (illudendosi che gli elettori preferiscano la brutta copia all’originale), esponendo al ridicolo una Città che disperatamente, con il faticoso lavoro quotidiano di molti, cerca di sottrarsi a una vecchia, negativa immagine stereotipata.
Restano fuori da questa mia lettera gli interrogativi di fondo, che meritano una discussione più ampia: per aumentare i livelli di sicurezza dei cittadini esistono veramente ricette semplici a portata di mano, come qualche interessato semplificatore vuol farci credere? E, se è vero che i problemi si risolvono solo con delle politiche di lungo respiro, perché ricorrere a inutili (anzi, dannose) operazioni di facciata? Quando saremo chiamati a farlo, sarà indifferente votare per l’uno o per l’altro, oppure continueremo ad avere la possibilità di scegliere fra chi semplifica artificiosamente problemi complessi e qualcun altro che, invece, si fa carico di questa complessità e sa tradurla in politiche credibili?

Cordialmente

Marco Parma

COSTITUZIONE MATERIALE

L’articolo 1 della Costituzione della Repubblica italiana deve essere così riformulato: l’Italia è una Repubblica (l’aggettivo “democratica” lo toglierei perché francamente mi sembra superato) fondata sui certificati medici. Questi ultimi infatti servono per ogni genere di cose. Nel mondo del pubblico impiego rappresentano uno strumento di proseguimento della lotta sindacale con altri mezzi (piloti e assistenti di volo Alitalia), un mezzo per sottrarsi al lavoro (invalidità di dubbia natura) e un modo per prolungare le ferie o i “ponti” già previsti in calendario. Purtroppo il ricorso ai certificati di comodo ha delle localizzazioni geografiche a tutti note, ma che non possono essere citate perché altrimenti scattano le accuse di “razzismo”, di “processo alle intenzioni”, di “fare di tutte le erbe un fascio” eccetera. Se poi si tratta di invalidi, peggio ancora: sei qualificato praticamente come nazista.
Perciò, andiamo pure avanti così: truffiamo allegramente lo Stato (cioè i concittadini), e facciamo mancare, nel nostro caso ai ragazzi, i servizi a cui hanno (avrebbero) diritto. Tanto, troveremo sempre un politicante o un sindacalista che ci protegge e lancia anatemi contro chi dice la pura e semplice verità, che del resto tutti sanno.
Peccato, però, che in questo modo si getti discredito su tanti lavoratori seri ed onesti, e soprattutto su una parte del nostro paese che non ha certamente bisogno di essere ulteriormente screditata da chi fa, del tutto gratuitamente e con grande pervicacia, un’efficacissima propaganda elettorale per la Lega Nord.

25 APRILE

Il 25 aprile è una festività nazionale: come tale, non dovrebbe essere costituire l’occasione per consolidare antichi odi e vecchie contrapposizioni ideologiche: dovrebbe bensì essere celebrata in un clima di concordia.
Il 25 aprile, festa della Liberazione, è l’anniversario della conclusione della seconda guerra mondiale. Dall’estate 1943 sino alla liberazione la nostra penisola era stata (ancora una volta, come spesso già era accaduto nei secoli passati) terreno di scontro fra eserciti stranieri contrapposti: da una parte i Tedeschi, nostri ex alleati, e dall’altra gli Anglo-Americani. Gli Italiani? In parte combattevano agli ordini degli Anglo-Americani, in parte, sotto le insegne della Repubblica Sociale Italiana, accanto ai Tedeschi. Altri ancora, datisi alla macchia, diedero anima e corpo alla Resistenza e collaborarono attivamente, con azioni di disturbo e attentati, all’avanzata anglo-americana. Nel frattempo, in Italia come nel resto d’Europa, i nazisti rastrellavano gli Ebrei e li avviavano a campi di sterminio, perseguendo la “soluzione finale” del “problema”. Si susseguivano in quegli anni orrori e violenze di ogni genere, quelli che ogni guerra porta inevitabilmente con sé: bombardamenti che seminavano strage fra la popolazione civile, attentati e rappresaglie; né potevano mancare terribili violenze sessuali sulle donne, spesso perpetrate dalle vaiopinte truppe di occupazione che gli alleati portavano con sé (rileggersi “La ciociara” di Moravia).
Il 25 aprile 1945, non senza un doloroso strascico di persecuzioni e di vendette personali, tutto questo finì. La generazione dei nostri padri, la cui adolescenza era stata cancellata dalla guerra, potè finalmente uscire dall’incubo, rimboccarsi le maniche e ricostruire il paese.
Prima che la guerra finisse, i vostri coetanei di allora avevano dovuto fare scelte drammatiche, a rischio della propria vita. Arruolarsi nell’esercito della Repubblica di Salò e combattere accanto ai Tedeschi (col rischio di essere deportati in Germania)? Disertare e unirsi ai “banditi” partigiani, rischiando non solo la propria fucilazione, ma anche rappresaglie a danno delle proprie famiglie? In questo dramma, ciascuno cercò e trovò la propria personale soluzione. Molti, da una parte e dall’altra, pagarono con la vita. Tutti questi ragazzi di vent’anni erano cresciuti in una scuola e in una società pervase dall’idologia fascista, non erano certamente nelle condizioni migliori per operare delle scelte autonome. E poi, quanti di loro ebbero piena consapevolezza della proprie scelte? Quanti di loro erano animati da ferree convinzioni? Quanti, ancora, furono trasportati da entusiasmi, ideali ed infatuazioni giovanili?
Ora che sono passati più di sessant’anni; ora che è chiaro a tutti quanto fossero aberranti le ideologie totalitarie del novecento; ora che i ventenni della seconda guerra mondiale sono quasi tutti scomparsi, ha ancora un senso rifiutarsi di ricordare con lo stesso identico senso di “pietas” tutti i giovani di allora? Tutti, indistintamente, i settecentomila Italiani morti di quegli anni? E insieme a loro i milioni di morti che l’Europa e il Mondo dovettero immolare nella strage orrenda della guerra? Può finalmente, anche per loro, suonare quella campana della pace che tutti i giorni, a Rovereto, abbraccia con i suoi rintocchi tutte le vittime delle Prima Guerra Mondiale, senza distinzione di razza, di nazionalità, di religione, di fede politica?

ELEZIONI, ELEZIONI…

Ieri, mentre leggevo sul blog e sulla stampa i vari “de profundis” sulla sinistra che non ce l’ha fatta a entrare in parlamento, mi giungevano all’orecchio le voci del gruppo di teatro che, preparando il saggio di ieri sera, cantava “L’Internazionale”. Mi sembrava di essere nel bel mezzo di un funerale! Certamente l’eliminazione della sinistra ha fatto scalpore, perché quasi nessuno si aspettavauna catastrofe simile. Bene così, comunque: il malcapitato Prodi ha dovuto soffrire per due anni il loro continuo tirar la corda, i loro compromessi al ribasso, il loro continuo cantare fuori dal coro che distruggeva l’immagine del governo presso l’opinione pubblica e a livello internazionale. Non vedevo l’ora che per loro arrivasse dagli elettori la giusta punizione. E devo dire in tutta onestà che non mi dispiace affatto la prospettiva di non dovermi più sorbire, nel “panino” dei commenti politici del telegiornale, le facce di Bertinotti, Diliberto, Pecoraro Scanio, Giordano, Mussi & C.. Devo ammettere che non li sopportavo più. Soprattutto non sopportavo più il comunista da salotto che pontifica sugli “operai” e sui “lavoratori” con il “Rado” al polso, le camicie e e le scarpe su misura, e che probabilmente non ha lavorato nemmeno un giorno della sua vita. Potevano votarlo forse i “”lavoratori”” (notare le virgolette doppie) garantiti del pubblico impiego (ma soltanto quelli straultrasindacalizzati del certificato medico per allungare le ferie), non certo i muratori e i piastrellisti a cottimo delle valli bergamasche che dopo una settimana passata ad alzarsi alle quattro del mattino per scendere a Milano coi pulmini si alzano presto anche nel fine settimana per costruirsi la casa, che ovviamente votano la Lega. Come possono i lavoratori (veri) votare per la gente che si parla addosso dall’interno del palazzo e ha perduto (se mai l’ha avuto nel recente passato) qualsiasi contatto con la realtà? Che applica ancora schemi di pensiero ottocenteschi come se la società non si fosse profondamente trasformata negli ultimi decenni? Che pensa principalmente a conservare gli equilibri e i posti di potere a livello locale?
Per il Partito Democratico si favoleggiava su un’irresistibile rimonta, che invece non c’è stata, proprio per niente, visto che l’unico “recupero” è stato proprio il prosciugamento del bacino elettorale della sinistra radicale o (per dirla con Pansa) “regressista”. Peraltro perché i Democratici avrebbero dovuto rimontare? A parte qualche bella ragazza, che fa sempre un bel vedere, hanno inserito in lista i soliti noti, ex ministri, sottoministri, sottosegretari, capicorrente e portaborse vari del loro pantagruelico governo di oltre 100 persone. Senza contare che la novità del Partito Democratico è tutta da discutere. Tanto a livello nazionale quanto a livello locale il loro problema principale è stato quello della spartizione dei posti fra ex-comunisti ed ex-democristiani.
Va tuttavia detto che la scelta di Veltroni di non accettare gli stessi patti di coalizione che avevano affondato Romano Prodi (sebbene sia stata determinata dalla consapevolezza che tanto la sconfitta era comunque certa) è stata decisiva per la semplificazione del quadro politico italiano perché ha indotto nel centrodestra scelte analoghe. Speriamo che la lotta fra le sigle alleate o contrapposte non venga sostituita dalle lotte di potere all’interno dei grandi partiti venutisi a formare.
Siccome ne ho per tutti (Marco Parma può avere preferenze politiche, il preside no), devo sottolineare che il successo del centrodestra è stato ottenuto dopo due anni di guerriglia parlamentare in cui questa parte politica ha testardamente perseguito l’obiettivo della “spallata” anziché dimostrare senso dello stato e rispetto delle istituzioni.
Oltre alle risse in parlamento (ricordo ancora l’orrendo spettacolo del senato in occasione della crisi di governo), si è orchestrata una gigantesca campagna mediatica per far credere che improvvisamente gli Italiani erano diventati poveri ed erano strozzati dalle tasse, di cui peraltro Prodi non ha aumentato le aliquote, ma ha semplicemente cercato di farle pagare.
L’Italia non ha bisogno di votare a getto continuo. Ha bisogno di politici che sappiano governare la polis tenendo d’occhio l’interesse generale e non il “particulare” di categorie privilegiate, o addirittura il proprio tornaconto personale: ma c’è sempre speranza, e oso dire che qualcosina all’orizzonte si vede. Quando si invecchia si pensa inevitabilmente al dopo, si desidera lasciare di sé un buon ticordo e si è di conseguenza più buoni e disinteressati. Vale per il vostro preside, ma anche per il futuro capo del governo.
Concludo dicendo che mi ha fatto piacere vedere sul blog gli interventi degli studenti su questo tema (dunque non è vero che “se ne fregano”); mi è invece dispiaciuto leggere il finto necrologio sulla presunta morte della democrazia. I risultati delle elezioni possono piacere o non piacere, ma non mi pare che non ce ne siano altre in programma: fra cinque anni, mi auguro, e non prima. E che buone cose vengano nel frattempo per il nostro paese e per il piccolo mondo della scuola italiana.

PENSIERI DELLA DOMENICA

Settimana scorsa ho fatto alcuni benefici giorni di ferie, utili anche per smaltire arretrati dell’anno scolastico 2006/2007 per il cui godimento l’Ufficio Scolastico Regionale ha emanato disposizioni perentorie e ultimative. Se io facessi altrettanto con il personale della mia scuola, finirei alla gogna in men che non si dica: ma con i dirigenti scolastici tutti possono permettersi di tutto, e il Signor Ministro Uscente è stato peraltro il primo a dare il buon esempio. Ma lasciamo stare questo triste argomento.

Vorrei soffermarmi su alcune questioni emerse proprio durante la mia assenza sul nostro “blog”, che hanno sollecitato una vivace e partecipata discussione, come testimonia l’alto numero di commenti agli articoli che sono stati pubblicati. Dico subito che questa vivacità di discussione mi fa molto piacere, e mi auguro che tutto il mondo “adulto” che gravita attorno alla scuola (docenti, genitori, personale) vi dedichi la stessa mia attenzione e intervenga nel dibattito.

Le questioni discusse sono le seguenti: l’incontro a scuola con il Dott. Targetti; l’articolo di Paganini sul destino della terra e sul livello di consapevolezza manifestato dagli uomini di varia generazione; l’auto… ops! lapsus… la cogestione del liceo che fatica a decollare; lo spettacolo teatrale del 29 febbraio al Teatro Fellini. Sono questioni diverse ma fra loro collegate per alcuni aspetti.

Cominciamo dalla cosa più importante, che è ovviamente il destino del pianeta terra, su cui Paganini attira la nostra attenzione, non senza spunti polemici nei confronti delle nuove generazioni. In proposito, mi permetto di rimandare alla lettura del libro “Collasso” di Jared Diamond, che, sulla scorta delle esperienze del passato, autorizza le più pessimistiche previsioni. Per l’incapacità di prevedere gli effetti dei propri comportamenti o, in presenza di tale consapevolezza, per l’incapacità o l’impossibilità di modificare le proprie abitudini di vita, le comunità umane hanno quasi sempre marciato diritte verso il disastro, piuttosto che ricercare un rapporto più equilibrato con l’ambiente. Jared Diamond trae esempi da epoche storiche ormai lontane, in cui avvennero tanto la catastrofe ambientale dell’Isola di Pasqua, causata dal diboscamento totale, quanto l’estinzione delle colonie vichinghe in Groenlandia, che non seppero passare ad altre fonti di sostentamento durante la fase di raffreddamento climatico che ne determinò la fine.
É ben vero che rispetto al passato disponiamo di dati e conoscenze scientifiche ben più raffinati: ma, visto che non è mai successo nella storia, un sano pessimismo dell’intelligenza mi induce a dubitare della capacità del genere umano di differire il godimento di beni naturali a beneficio di generazioni future. Sicuramente non l’ha fatto la nostra generazione, che pure ha sostenuto esami di università sui libri di Barry Commoner.

Dunque è abbastanza sterile trarre dall’imminente catastrofe climatica lo spunto per una polemica intergenerazionale, che potrebbe soltanto stabilire, se per caso venisse risolta, se fan più danni i cinquantenni con i SUV o i diciottenni con le cuffiette sempre infilate nelle orecchie, gli uni e gli altri ugualmente ubriachi di presente e totalmente indifferenti al futuro.
La polemica intergenerazionale è tipica degli anziani, laudatores temporis acti, come diceva Orazio. Sicché, se «Ogni anno è sempre peggio», è perché siamo più vecchi e mentalmente meno elastici noi. Dopo l’esperienza di ritorno all’insegnamento degli ultimi due anni sono molto più sicuro di quello che dico, perché non mi è parso affatto che gli studenti di oggi siano peggiori di quelli che ho lasciato quindici (quindici!) anni fa per iniziare a fare il preside; né mi è parso che siano peggiori di me e dei miei compagni di liceo di trentacinque-quaranta (35-40!!) anni fa.
Forse dico questo perché ho fatto le superiori in una “classaccia” (qualche dato soltanto: 36 in terza, 22 in quarta, comprese due graziose fanciulle inserite da altre scuole: fanno 16 bocciati in terza, fra giugno e settembre; in quinta, 2 non ammessi e 7 bocciati agli esami: e sì che si trattava di quelli facili, con due scritti e due orali con una materia scelta e l’altra “prenotata”!). Ho in mente di scrivere un articoletto dal titolo “Ricordi di scuola”, a beneficio di coloro che si son dimenticati come eravamo. Dissento profondamente da ogni mitizzazione, tanto del ’68 quanto degli anni ’70, perché molti mali della nostra società vengono da allora; e, se oggi critichiamo giustamente l’inconsistenza delle “autogestioni” e le qualifichiamo come pure e semplici perdite di tempo, non dovremmo dimenticare le “occupazioni” di allora, che non finivano mai e che venivano votate in massa ad alzata di mano (magari con qualche forma impropria di sollecitazione) non per consapevolezza politica, ma perché il carnevale d’autunno durasse più tempo possibile. Risale ad allora, infatti, il passaggio dalla valutazione trimestrale a quella quadrimestrale, e questo dato, da solo, la dice lunga. Sed de hoc satis: se no rischio di non aver più materia per il nuovo articolo che ho appena promesso.

Guardo, dunque, con la mia tenera comprensione di vecchio il dibattersi dei “rappresentanti di istituto” fra le pressioni della “base” e il temuto confronto al vertice con il capo di istituto: sono come i sindacalisti, che nelle assemblee le beccano dalla base e nelle trattative le prendono dalla controparte “padronale”.
Apprendo che – come recita una famosa legge economica – «la moneta cattiva scaccia la buona» e che gli spunti di discussione più interessanti vengono tagliati a beneficio (scusate nuovamente il termine) del solito cazzeggio sul sesso, sul “disagio” e sulla musica, o della visione di qualche filmaccio nella conciliante oscurità di un’aula video.
L’ultima proposta delle masse studentesche del liceo scientifico di Rozzano (veicolata dalle rappresentanze con qualche imbarazzo), al di là dei contenuti, è quella di collocare i due giorni di cogestione nella settimana che precede la Santa Pasqua: lunedì-martedì o martedì-mercoledì, cioè, a scelta, due o tre giorni di vacanza in più (immaginarsi le percentuali di assenza dalle lezioni…). Lo dico chiaro: così non passa. Il regolamento dice che il preside “può” acconsentire, non che “deve”: e il preside acconsentirà volontieri in presenza di contenuti seri e di serie intenzioni di partecipazione. In famiglia, il ruolo del babbo è quello di dire tutti i “no” che servono: prego gli studenti di portare pazienza, di usare discernimento e di non costringere i loro rappresentanti a presentare con imbarazzo proposte irricevibili, che non so chi, fra gli insegnanti, si sentirà di avallare e sostenere.

Qualche parola sull’incontro con il Dott. Targetti. Stando sul palco, ho visto una minoranza di studenti attenti e interessati, che anche dopo l’intervallo si sono raccolti intorno a lui e lo hanno tempestato di domande e di sollecitazioni; ma ho sentito anche il fastidioso brusìo che ha disturbato diversi momenti della sua interessante esposizione. C’erano purtroppo anche colleghi insegnanti che chiacchieravano in platea.
Da un lato, dunque, non si può che considerare lodevole l’iniziativa di organizzare questo incontro; dall’altro, non si può non affermare che bisogna smetterla di proporre tutto a tutti. Alle iniziative extracurricolari deve partecipare solo chi ha già dimostrato maturità e interesse per l’argomento, non chiunque!
Analoghe considerazioni andrebbero fatte per le visite guidate e i viaggi di istruzione: perché dobbiamo proporli a tutti? Perché non trasformarli da iniziative della singola classe a iniziative della scuola, a partecipazione rigorosamente selezionata? Perché dobbiamo portare in giro per l’Europa coloro che, in classe, non hanno dimostrato nessun interesse per le cose che andranno a vedere? Perché i viaggi di istruzione devono essere fatti indipendentemente da come ci si comporta, dall’interesse che si dimostra quotidianamente a scuola?

Considerazioni non diverse potrebbero essere svolte per lo spettacolo teatrale del 29 febbraio: non tutti sono preparati e predisposti per fruirne, ma qui ci sono anche altre osservazioni da fare. In primo luogo, la dura legge dello spettacolo prevede da tempo immemorabile che tocchi agli artisti catturare l’attenzione del pubblico; specialmente se si tratta di un pubblico giovanile. In secondo luogo, va purtroppo osservato che molte iniziative vengono proposte alla scuola perché gli studenti fanno numero e quindi cassa. Talvolta si tratta di spettacoli a cui nessuno andrebbe spontaneamente, né tanto meno pagherebbe il biglietto per vederli: tuttavia,non avendo partecipato personalmente all’iniziativa del 29 febbraio, non so se questi rilievi siano validi per questa specifica occasione.

Per finire, mi associo agli auguri a Marco Pigni. Magari ce ne fossero tanti, come lui: la scuola sarebbe cent’anni più avanti.

ISCRIZIONI

Il numero delle nuove iscrizioni è un indicatore grezzo e contraddittorio, perché non sempre un’elevata quantità di iscritti va di pari passo con la qualità della scuola: tuttavia senza gli studenti le scuole semplicemente non esistono, e dunque è ovvio che, dopo la scadenza assegnata agli alunni di scuola media per la scelta della scuola superiore, si aspettino con una certa trepidazione le magiche buste provenienti dalle scuole medie.
Devo dire che quest’anno sono particolarmente soddisfatto del risultato. Infatti, dopo il calo del 2007, siamo tornati quest’anno assai vicini al record storico del 2006. Registriamo infatti ben 253 nuovi iscritti, così distribuiti: 169 a Rozzano (64 all’Istituto Tecnico Commerciale, 79 al corso di ordinamento del Liceo Scientifico, 26 alla sperimentazione P.N.I.) e 84 a Noverasco (34 al Liceo Scientifico, 26 all’indirizzo generale dell’Istituto Agrario e 24 alla sperimentazione “Cerere”).
Accelera, dunque, la crescita di Noverasco, e a Rozzano vedremo di fare i soliti salti mortali per farci stare tutti, utilizzando al meglio ogni centimetro quadrato in attesa del sospirato ampliamento, da cui ci separa ancora un paio d’anni di passione e di fatiche.
Il clima di fiducia che ci circonda è merito di tutti: degli studenti corretti e responsabili, e in particolare di coloro che hanno fatto simpaticamente da guide ai visitatori negli “open days”, dei docenti che lavorano bene in classe e di tutti i componenti della “squadra d’assalto” (guidata da Luisa Muratore) che non solo ha “battuto” insieme a me tutte le scuole medie del distretto, ma ha anche costruito e mantenuto nel tempo un cordiale rapporto di fiducia con gli insegnanti delle scuole medie. Questo rapporto, in altre realtà, è spesso discorde e diffidente: nel nostro territorio, invece, si alimenta di una relazione continua improntata alla stima reciproca, che quest’anno ci porterà a proporre ai nuovi iscritti, a primavera, delle prove d’ingresso nelle discpline di base. Queste consentiranno ai nostri nuovi alunni una prima valutazione della correttezza della loro scelta e una utile indicazione sugli eventuali punti critici cui rimediare nella fase finale di quest’anno scolastico.
Il successo dell’Istituto “Italo Calvino” è dovuto a una molteplicità di fattori: principalmente, alla cura della relazione con lo studente non disgiunta dal costante richiamo alla serietà degli studi; ma non dimentichiamo mai l’importanza del “fare squadra”, del proporsi con una forte identità unitaria pur nella molteplicità delle sedi e nella diversità degli indirizzi di studio.
Un grosso grazie a tutti coloro che hanno contribuito a questo brillante risultato.

DIALOGO DEI MASSIMI SISTEMI

Nel filmato, un momento dell’appassionata e serrata discussione nell’assemblea degli studenti del liceo scientifico. All’ordine del giorno, la riflessione sui più sentiti e drammatici problemi del momento, da approfondire nelle giornate di cogestione.

http://it.youtube.com/watch?v=Hb7pP-gnIdc

Non era l’assemblea: per cortesia si leggano anche i commenti, che contengono le necessarie rettifiche.