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APERTURA SCUOLA A ROZZANO

Il sindaco di Opera, intorno alle 16, ci ha ripensato e ha emanato l’ordinanza di chiusura delle scuole del suo comune per l’8 e il 9 gennaio.
Sulla base di ulteriori contatti telefonici, avuti in serata, con l’assessore Caterina Mallamaci, confermo che nessuna ordinanza di chiusura è stata emessa dal sindaco di Rozzano. Nulla, che io sappia, giunge dalla prefettura. Quindi domani avremo due situazioni diverse: Rozzano aperto e Opera chiuso.
Pregherei gli studenti di piantarla con il diluvio di commenti che hanno inserito per tutta la giornata: è giusto che il servizio sia disponibile, che chi può o vuole usufruirne lo faccia e che non vuole resti invece a casa e porti la giustificazione al suo rientro. Che ognuno voglia fare come gli pare, dal mio punto di vista, è di per sé discutibile: ma che si pretenda che le istituzioni decidano secondo le comodità personali dei signori studenti (non di tutti, ovviamente) meno inclini a scomodarsi mi sembra decisamente un po’ troppo.
Nel valutare questi provvedimenti si deve tenere presente che le scelte dei sindaci riguardano le scuole di ogni ordine e grado, e che nei gradi inferiori dell’istruzione ci sono bambini i cui genitori hanno assolutamente bisogno che il servizio funzioni. Non tutti i lavoratori, infatti, sono dipendenti pubblici, che, anche se telefonano a scuola descrivendo insormontabili muri di neve (insormontabili per alcuni, ma non per altri che risiedono nella stessa località e vengono regolarmente al lavoro), non corrono certo il rischio del licenziamento. C’è gente (soprattutto stranieri e precari) per cui una giornata di lavoro persa rappresenta una trattenuta sullo stipendio che, a fine mese, pesa. Abituiamoci a guardare le cose anche da un punto di vista diverso da quello che suggerisce il nostro contingente interesse personale.
Colgo l’occasione per ringraziare tutti i docenti e tutti i lavoratori che oggi hanno raggiunto la scuola (o hanno seriamente provato a farlo) per assicurare il loro servizio ai ragazzi che a loro volta si sono impegnati per non perdere la giornata di scuola.
La circolare dell’assessore provinciale Barzaghi è stata invece un’iniziativa inopportuna e improvvida, che ha creato soltanto confusione, perché, come ho più volte confermato, i poteri di ordinanza sono in capo al prefetto e al sindaco: tant’è vero che Barzaghi stesso nella sua circolare diceva di “ritenere opportuno”, cioè non decideva; per il semplice fatto che non gli spetta per legge, e quindi si è preso un meritato rimprovero durante la conferenza stampa tenuta dal sindaco di Milano.
Buona notte a tutti.

ULTIMA COMUNICAZIONE SULL’APERTURA DELLA SCUOLA

Avendo contattato il Comune di Opera, posso confermare che anche il sindaco di quel comune non ha emanato e non intende emanare ordinanze di chiusura delle scuole per domani.
Quindi, concludendo:
NOVERASCO: APERTO
ROZZANO: APERTO
I Genitori si regoleranno a loro discrezione e, qualora decidano di tenere a casa i propri ragazzi, ne daranno giustificazione come di consueto.

8 GENNAIO: SCUOLE APERTE

Il sindaco di Rozzano non ritiene opportuno disporre la chiusura delle scuole della Città. Pertanto, domani la scuola sarà regolarmente aperta. Si terranno regolarmente anche le lezioni del corso serale, oggi sospese d’intesa con l’amministrazione.
Non risultano emesse ordinanze di chiusura nemmeno ad Opera; in caso di novità provvederò ad aggiornare nuovamente il blog.

SCUOLA DI FASCISTONI?

Incrocio questa pesante accusa riportata in un recente post sul blog (da cui traluce un feroce risentimento, degno di miglior causa) con gli articoli apparsi recentemente su “Repubblica”, in cui si parlava di presidi di licei milanesi alle prese con liste di candidati per la rappresentanza studentesca nel consiglio di istituto dichiaratamente neofascisti o neonazisti.
Nulla di ciò si verifica nella nostra scuola, e se la studentessa accusatrice me lo consente, un motivo, secondo me, c’è.
In adolescenza ognuno si fa le sue idee, che cambiano a volte nel giro di pochi mesi, a volte per ragioni serie e profonde, a volte per motivi molto più banali. Ad esempio, io in terza liceo ero piuttosto sulla destra per influenza della maggioranza dei miei compagni di classe (ricordo distintamente che facevo arrabbiare mio padre ex-partigiano prché sostenevo che nella seconda guerra mondiale l’Italia aveva colpevolmente tradito l’alleato tedesco), mentre in quarta ho virato decisamente a sinistra grazie all’influsso benefico di una mia compagna molto carina, e son poi rimasto più o meno da quelle parti.
Per maturare un’idea politica propria, personale ed adulta (destra o sinistra, non mi importa) l’importante è avere uno spazio lbero in cui confrontarsi senza estremizzare le posizioni.
Nella scuola ognuno ha il suo ruolo e la sua opinione. Il preside non potrà mai dire agli studenti di andare in piazza, invece che a scuola, come se fosse la stessa cosa: ma ritengo che egli abbia il dovere di confrontarsi e di mettersi in discussione.
Se il filo del dialogo non si spezza nemmeno quando il confronto è duro, certe posizioni estreme e inaccettabili non hanno il tempo e lo spazio per maturare e per consolidarsi: perché la democrazia la spunta sempre, a patto che venga realmente esercitata e che non abbia paura di se stessa.
Mi dispiace molto che ci siano colleghi presidi alle prese con gruppi di estremisti di destra così incattiviti: ma temo che non abbiano un blog, né un altro luogo libero e aperto in cui confrontarsi, né la sana abitudine di discutere. Noi invece queste cose ce le abbiamo e ce le teniamo care.
Detto questo (ma era la cosa più importante) accettiamo pacificamente la diversità delle posizioni (per tentare di modificarle attraverso il confronto e il dibattito, che è il sale di una democrazia matura). Invece, una democrazia ancora allo stadio infantile (come è quella italiana: e mi riferisco a quella degli adulti, non certo al confronto ideologico fra studenti) ricorre alla demonizzazione dell’avversario per povertà di contenuti e per arretratezza culturale.

POLITICA, MANIFESTAZIONI: UN “POST” IN PIU’

Sono contento che sulle questioni che ho sollevato sia nato un vivace dibattito. Si diceva che il “blog” languiva, e invece eccolo qua, vivo e vegeto, nel momento in cui si discutono questioni importanti.
La posizioni si confrontano – devo riconoscerlo – in modo corretto, argomentando, senza invettive o insulti (salvo quel tale Bhà, che ancora non è venuto a chiarirmi di che cosa esattamente si lamenta: ma il suo turpiloquio riguarda la mia persona, e quindi non importa).
Molte sono le cose che vorrei dire, perché ognuno dei commenti che ho letto mi ha fornito delle sollecitazioni: ma non voglio intervenire “nel merito”, perché non voglio dare l’idea di venir meno al mio dovere di imparzialità. Il preside è una persona come le altre, ha le sue idee e le propugna: è un libero cittadino e ha diritto di parola; con una limitazione, però: essendo un dirigente scolastico, egli dipende dal direttore generale dell’ufficio scolastico regionale per la Lombardia e – in successiva istanza – dal Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca. Tuttavia, quando dice che è meglio non perdere gorni di scuola, il preside non pensa al ministro o al direttore generale: pensa invece ai ragazzi che più degli altri hanno bisogno di venire a scuola. Quando ero “under 20” e non “over 50” come ora, ho brillantemente recuperato tutte le giornate perse in manifestazioni, autogestioni e occupazioni grazie alla pronta intelligenza (e all’equilibrio) che il buon Dio mi ha dato, mentre tanti altri miei compagni, meno di me inclini allo studio, ci hanno lasciato le penne. Questa, e nessun’altra, è la mia preoccupazione di oggi, nel momento in cui invito i ragazzi a venire a scuola.
Grazie comunque a tutti coloro che hanno contribuito al dibattito.

POLITICA, MANIFESTAZIONI: QUALCHE PAROLA IN PIU’

La discussione sulla partecipazione diretta degli studenti alla vita politica nazionale e locale, sotto forma di manifestazioni di piazza o in altre modalità, deve risalire dal basso livello cui è scesa (anche per colpa mia) nel momento in cui si è privilegiato l’aspetto burocratico e formalistico a scapito delle questioni sostanziali, che meritano ben altro approfondimento.
Chiudo sulla questione giustificazioni con un’ultima osservazione: risparmiatevi pure l’ipocrisia delle “indisposizioni” e dei “motivi di famiglia”, tanto è lo stesso. Venerdì 3 e venerdì 10 ottobre sono assenze ingiustificate, e basta: salvo cause di forza maggiore comprovate e documentate, di cui peraltro sono gli stessi docenti ad avere diretta conoscenza.
Le manifestazioni e le autogestioni, vecchie, rituali e deteriori forme di partecipazione studentesca alla vita politica, hanno fatto il loro tempo e non hanno più il minimo significato, né la minima incidenza.
Berlusconi l’ha detto chiaro e tondo: andate pure in piazza, ci fa un baffo, noi andiamo avanti lo stesso. Il messaggio era diretto tanto agli studenti quanto (soprattutto) ai lavoratori della scuola, intruppati da un’abile e rozza propaganda nei plotoni dei “nullafacenti” del pubblico impiego, e quindi destinati al disprezzo del popolo, per quante buone ragioni possano avere. Chi lavora a diretto contatto con il pubblico ha già avuto modo di misurare gli effetti di questa generica diffamazione.
Dunque la piazza non serve più; non valgono più a nulla i comizi, gli striscioni e le bandiere. Bisogna inventarsi qualcos’altro, visto che siamo approdati al ventunesimo secolo.
Ripetere quello che hanno fatto i vostri padri e le vostre madri è una resa all’esistente e un’offesa alla vostra creatività e alla vostra padronanza dei nuovi strumenti di comunicazione.
Provate a pensare qualcos’altro, provate a stupire con qualche bella invenzione; provate anche a dimostrare che vi interessa sul serio, spendendovi sui problemi anche ad aprile, a maggio, non soltanto in ottobre e in novembre, perché non è che sul pianeta terra di cessi di soffrire e morire, solo perché è iniziato il secondo quadrimestre e quindi bisogna preoccuparsi di recuperare in qualche modo la promozione.
Certamente il pessimo esempio dato dagli adulti non stimola la vostra partecipazione: alimenta, anzi, quella disillusione che fatalmente induce al qualunquismo. Destra o sinistra, sono tutti uguali e purtroppo è vero. A tutti i livelli, nazionale e locale, la politica è diventata (o è sempre stato?) un mestiere poco pulito: si utilizzano le risorse pubbliche per gli interessi privati delle oligarchie di potere; competenze e merito non vi hanno cittadinanza; il concetto di politica come servizio e non come puro e semplice esercizio del potere e godimento del privilegio è sparito completamente dall’orizzonte.
Se i giovani ci credono tutto questo può cambiare, ma c’è da lavorare duro, c’è ben altra fatica che vi aspetta. Bisogna leggere, studiare, capire, partecipare. Bisogna sapere che cosa sono le leggi (costituzionali e non), i decreti legge, i decreti legisaltivi, i decreti del presidente della repubblica, i decreti ministeriali, le delibere delle giunte regionali, provinciali, comunali, e le funzioni dei relativi organi elettivi: insomma, bisogna informarsi e imparare, perché la propria partecipazione alla vita pubblica non sia passiva, perché si sappia essere cittadini consapevoli, attivi, capaci di analisi critica, e non semplice massa di manovra a disposizione di coloro che – indipendentemente dal colore politico – hanno il contingente interesse di mandare gli studenti in piazza.

SCIOPERI STUDENTESCHI (da “I miei conti con la scuola” di Augusto Monti)

GLI SCIOPERI STUDENTESCHI IN UN COLLEGIO DOCENTI DEL 1919

Per la seduta, turno pomeridiano, dopo le lezioni, parlai per primo io su invito del preside: la piaga degli scioperi di studenti si era aperta con la fine del secolo scorso, gli elementi più irresponsabili della borghesia, studenti di veterinaria e di farmacia (che andavano all’Università dalla seconda liceo) e poi di medicina, fatti propri i novissimi metodi della lotta di classe operaia, scioperavano per certi privilegi goliardici, cantar forte canzoni sconce aspettando il professore, proibire alle matricole l’accesso ai due primi banchi e simili; poi la trista moda era stata seguita anche dai barabbotti dei licei per l’obbligo degli esami di licenza liceale, poi col secol nuovo eran sopravvenuti i «motivi ideali», l’università italiana a Vienna e a Trieste, la rimozione del generale Asinari di Bernezzo cantato dal Pascoli; finché con la Libia, me testimone, le capitanerie dei porti siculi e calabresi telefonavano ai licei e istituti perché mandassero le folle studentesche a far onore ai reduci. E qui cominciarono i ben distinti mugolii di un Invernizzi dell’Inferiore, stripe di grandi affittavoli della bassa cremonese, buon diavolaccio del resto, con altri più sordi da me non identificati. Continuai imperterrito a spiegare che la scuola era un servizio pubblico, che il diritto di sciopero era contestabile  (e contestato) per gli operai addetti a tali prestazioni di «pubblica utilità», che inconcepibile era uno sciopero per un servizio pubblico di utilità e importanza capitale come il nostro  – almeno per un paese che voleva esser civile  ; che ridicolo poi, anzi io dissi «bestiale», era che un servizio pubblico venisse sabotato proprio da chi di questo servizio fruiva gratuitamente o quasi, volevo dire da parte degli studenti e delle relative famiglie, per i quali disertare, o lasciar disertare, le lezioni era la stessa inconcepibile cosa che un rifiuto degli inquilini di casa mia ad aprir la chiavetta dell’acqua potabile o del gaz. E qui, siccome quell’Invernizzi  – quello che una volta per liquidar la questione di Fiume aveva proposto di dar i pieni poteri a Mussolini – seguitava a mugolarmi contro, io, persa la pazienza, gli feci: – Tu, Invernizzi, hai sotto di te in seconda mia figlia, buon per te che l’inferiore non ha scioperato, se no una denuncia mia al procuratore del re «per mancata custodia di minore» non te l’avrebbe risparmiata neanche il tuo Mussolini. E il buon preside cav. uff. Pagàn disse: – E in prisòn ci sarei finito io . Sulla quale battuta press’a poco finì anche la seduta, ché i presenti guardavan l’orologio pensando alla lezione privata che avevan già perso o alla cena di cui stava per suonar l’ora: ripeté straccamente il preside che «oramai l’era acqua passata», e nessuno avendo chiesto di parlare, mise malcontento ai voti la mia proposta di «accertamenti e provvedimenti riguardanti i fatti del 28 maggio u.s.»; risultati proclamati: presenti 16, voti contrari 14, voti favorevoli 2.

(da Augusto Monti, “I miei conti con la scuola”, Torino 1965, pp. 178-179)

COMMENTO: possibile che, da allora ad oggi, la scuola sia cambiata così poco?

25 ANNI: “NOZZE D’ARGENTO” CON ROZZANO

Il 6 ottobre 1983, un giovane precario poco più che trentenne si recò alla scuola media di Binasco, di buon mattino, per tenervi la prima ora di lezione. Aprì il cassetto ma non vi trovò il registro, che vide subito dopo appoggiato sul tavolo, ma nelle mani della neonominata collega “avente diritto”; fine della supplenza, licenziamento in tronco e terribile senso di frustrazione: moglie al lavoro, bimbo di un anno e mezzo da nutrire, disoccupato, salvo il benefico lavoretto pomeridiano di arrotondamento.
Il giovane precario non poté far altro che riprendere la strada di casa sulla sua moribonda FIAT 127, carica di chilometri per i lunghi tragitti imposti dalle sedi lontane dei due precedenti anni di supplenza.
Mentre guidava, gli venne improvvisamente in mente di aver ricevuto, proprio il giorno prima, una raccomandata “tassa a carico” (del precario destinatario). La estrasse dalla borsa e si recò alla scuola che l’aveva spedita: la scuola media “Eugenio Curiel” di Rozzano: dove, siccome la guerra fra poveri non conosce confini, scalzò a sua volta una supplente con minor punteggio ed entrò, quel giorno stesso, in classe: la disoccupazione era durata poco più di mezz’ora. Esiste ancora il modulo di nomina ciclostilato con l’appunto della segretaria: “il docente accetta alle ore 8.30”.
Quel giovane precario – si sarà ovviamente capito – ero io, e cominciava così, in modo del tutto casuale, il mio lavoro a Rozzano. Non potevo certo immaginare, allora, che dopo venticinque anni mi sarei provato ancora lì, dopo che nel 2001 sono stato preso dalla voglia di tornarci, stavolta come preside di ruolo, e di riprendere a sobbarcarmi un tragitto più lungo – il doppio dei chilometri – rispetto alla scuola di San Donato dove stavo prima, sollecitato dalla sfida professionale di dar vita e futuro a un istituto superiore composito, di nuova istituzione.

Via da Rozzano ero stato per otto anni, dal 1993 al 2001. Non sono pochi, e sono stati combattuti, intensi e belli. Ho fatto, modestamente, cose importanti; sono stato anche membro della Giunta Comunale di San Giuliano grazie alla fiducia del Sindaco Virginio Bordoni e grazie ai giudici di Tangentopoli, assai convincenti nel persuadere i politici di mestiere a farsi da parte e a far posto a qualche esponente della cosiddetta “società civile”.

Ma torniamo a Rozzano.
Negli anni ’80 il repentino sviluppo della Città era già dietro le spalle: la popolazione residente era passata dai 2.701 abitanti del 1951 ai 38.230 del 1981.
Nei miei anni alla “Curiel” ho visto Rozzano moltiplicare gli sforzi per “Diventare città” (questo era il titolo di una mostra del 1984 in Cascina Grande, di cui conservo gelosamente il catalogo): compito di immane difficoltà, perché si aveva a che fare con una popolazione cittadina quasi tutta composta da famiglie sradicate dai loro luoghi di origine nelle regioni meridionali, oppure espulse dalla città di Milano per l’eccessivo costo degli alloggi.
Molti (a partire dalla scuola) fecero sforzi generosi per intraprendere quell’arduo cammino.
L’amministrazione comunale guidata da Giovanni Foglia, con il recupero della “Cascina grande”, coraggiosamente affidato ad architetti e tecnici degli uffici comunali, creò un modello successivamente imitato in tanti altri comuni del sud Milano. Seppe salvaguardare la vivibilità dei quartieri di nuova costruzione, attraverso lo strumento del convenzionamento con i proprietari dei terreni edificabili.
Anche il passante più distratto è in grado oggi di confrontare gli ampi spazi verdi del quartiere ALER (allora IACP) con la meno felice situazione dei condomini più recenti, frutto di una fase successiva di sviluppo urbano. Questo più recente momento di sviluppo ha avuto l’importante funzione di modificare la composizione sociale della popolazione e di caratterizzare il territorio anche con manufatti di miglior qualità, ma purtroppo sta procedendo ancora a tappe forzate senza tener conto dei costi sociali ed economici che comporta nel lungo periodo, a fronte degli effimeri benefici finanziari realizzabili a breve.

Nonostante le sue contraddizioni, criticità e difficoltà (o – forse – proprio per la loro presenza), Rozzano sa farsi amare. Ho conosciuto, lavorando qui, molti colleghi insegnanti o dirigenti che nel legame con questa Città hanno trovato una ragione in più per il loro impegno professionale, in tutti i livelli di scuola, perché il vero professionista si riconosce di fronte agli impegni più difficili: come quello di contribuire al successo formativo in un contesto ambientale caratterizzato da grande complessità. E grazie a questo difficile lavoro sul campo alcuni docenti, come me, hanno acquisito le esperienze e la cultura organizzativa necessarie per affrontare con successo i concorsi per la qualifica dirigenziale.

A questa Città continuerò a dedicare il mio lavoro, come preside dell’Istituto Superiore “Italo Calvino”, per consolidare i risultati già raggiunti in questi sette anni di confortanti successi: dal 2001 al 2008 siamo passati da 715 a 1206 Studenti iscritti, offrendo nel territorio una risposta sempre più significativa, dal punto di vista qualitativo e quantitativo, a una domanda di istruzione e di cultura sempre più consapevole ed esigente. Abbiamo aperto il liceo scientifico a Noverasco; abbiamo istituito a Rozzano il corso serale per ragionieri; inizieranno fra pochi mesi i lavori per l’ampliamento del centro scolastico di via Guido Rossa. A tutti coloro che hanno collaborato con me in questi anni per conseguire questi risultati, e soprattutto a tutti i ragazzi che hanno (chi più, chi meno) studiato nella nostra scuola, va il mio ringraziamento più vivo e riconoscente: per l’incoraggiamento che mi danno, giorno dopo giorno, a continuare in questo lavoro bello e difficile.