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Per un confronto tra Platone e Cicerone

Papiro con frammento della Repubblica di Platone
Papiro con frammento della Repubblica di Platone

Sia Platone sia Cicerone dedicano alla riflessione politica un ampio spazio ed entrambi scrivono un dialogo intitolato La Repubblica. Ma che cosa avvicina il filosofo greco all’uomo latino? Quali idee condividono e in quali, invece, divergono? Per scoprirlo bisognerà partire proprio dall’analisi delle due opere che li accomunano per il titolo scelto.

La Repubblica di Platone ha la giustizia come tema principale. Nel II libro Socrate, dopo aver confutato alcune definizioni circa il significato di giustizia, propone di ricercare che cosa è la giustizia in un quadro più ampio e, dunque, più facile da analizzare: lo Stato.

L’indagine è resa possibile dal legame fra etica e politica; infatti, non può esistere una società buona senza che anche i suoi membri lo siano per primi.

Socrate considera un modello di Stato piuttosto semplice in cui gli uomini soddisfano solamente i bisogni fondamentali: il sostentamento materiale e la difesa. Questi due bisogni spingono, perciò, il legislatore a riorganizzare i cittadini in classi, dove troviamo i lavoratori, i guardiani difensori dello Stato e, infine, i governanti. Ogni membro di questa società lavora per realizzare solo cose di carattere positivo.

Successivamente, riadattando un vecchio mito di Esiodo, le tre classi vengono associate alle tre parti dell’anima: alla sapienza, al coraggio e alla temperanza. La giustizia, perciò, consisterà nell’ordinamento per cui ciascuno svolge le attività che gli competono naturalmente senza usurpare quelle degli altri.

A trarre ispirazione e a scrivere un trattato politico sullo Stato a partire dalla Repubblica di Platone, è Marco Tullio Cicerone, autore tra il 54 e il 51 a.C. del De re publica. Non c’è dubbio. Innanzitutto, perché in quest’opera anche Cicerone, come Platone, ragiona su quale sia lo Stato perfetto; poi, perché ritorna il modello del dialogo platonico; infine perché il mito di Esiodo che chiude l’opera platonica è la fonte della sezione conclusiva dell’opera di Cicerone, il Somnium Scipionis.
Ma Cicerone, a differenza di Platone, evita qualsiasi discorso ideale o astratto e preferisce proiettarsi nel passato, facendo riferimento a Stati veramente esistiti.
La sua originale rielaborazione dell’opera platonica si fonda, infatti, sulla comparazione tra il pensiero greco e la tradizione etica, politica e giuridica romana.

Busto di Cicerone presso i Musei Capitolini
Busto di Cicerone presso i Musei Capitolini

Egli ambienta il suo dialogo nel 129 a.C., anno della costituzione romana presieduta dagli Scipioni, di cui Scipione Emiliano è uno dei maggiori protagonisti.

In primo luogo discute delle tre diverse forme classiche di governo: la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia. La conclusione? Semplicemente si afferma che inevitabilmente queste degenerano nelle loro forme estreme, ovvero la tirannide, l’oligarchia e l’oclocrazia.

La soluzione non è astratta, anzi, concreta: lo Stato migliore è il regime “misto” della res publica romana (e qui riecheggia di nuovo Platone),che, per fortuna, sa essere un po’ monarchia, un po’ aristocrazia, un po’ democrazia.

Segue, poi, nel libro VI il Somnium Scipionis, che rappresenta il più importante frammento pervenutoci del De re publica, in cui Scipione Emiliano racconta agli interlocutori di un sogno fatto anni prima, all’inizio della terza guerra punica. Egli aveva visto in sogno Scipione Africano che gli parlava dall’alto della via Lattea, sede dei grandi uomini, rivelandogli il destino delle anime dei defunti.

Il messaggio di Cicerone, così come si esprime per bocca dell’Africano, è duplice: gli uomini devono aspirare alle cose celesti; là, tra l’armonia di quelle sfere, le anime troveranno la vera ricompensa; la gloria umana, osservata dalle altezze del cielo, appare ben piccola cosa, quindi, finché essi saranno sulla terra il loro dovere sarà servire la patria, ma senza insuperbirsi. ma finché saranno sulla terra il loro dovere sarà servire la patria, senza insuperbirsi.

Da tutto ciò sappiamo che Cicerone era totalmente legato alla tradizione della res publica aristocratica. Per lui la fedeltà alla tradizione implicò anche scelte che oggi non sembrano condivisibili: leader degli oligarchici, egli per regola e abitudine metteva sempre al primo posto i boni cives, i possidenti (quelli che, invece, per Platone erano filosofi) e che erano anche i primi destinatari delle sue opere.

Dal confronto, fin qui condotto, tra il pensiero platonico e quello ciceroniano, è evidente come Cicerone, al contrario di Platone, abbia un’idea politica più concreta e chiara. Cicerone si appella sin dall’inizio ai cittadini romani affinché si impegnino politicamente, si sofferma sulla specifica costituzione della res publica romana e fa continui riferimenti a Roma. Il pragmatismo di Cicerone, dunque, costituisce il punto di forza della sua opera, laddove l’idealismo platonico è motivo di debolezza. Entrambi, però, hanno un limite: porre come unica guida dello Stato un’ èlite illuminata e individuare in modo netto ruoli e compiti di ciascuno.

Tutto questo, infatti, se applicato alla lettera potrebbe finire per escludere il popolo da una partecipazione attiva alla politica e per diventare all’interno degli Stati attuali un vero e proprio strumento di discriminazione e sopraffazione sociale.

Impero e papato al tempo di Dante

Dante Alighieri
Sandro Botticelli, Ritratto di Dante, tempera su tela, 1495, Ginevra, collezione privata


Sui contrasti fra l’autorità laica (l’imperatore) e l’autorità religiosa (il papa) prese posizione anche Dante Alighieri (1265-1321).

La sua vita fu strettamente legata agli avvenimenti della politica fiorentina. Quando la lotta fra Guelfi Bianchi e Guelfi Neri si fece più aspra, Dante si schierò col partito dei Bianchi che difendeva l’indipendenza del Comune e si opponeva alle tendenze egemoniche di Papa Bonifacio VIII.

Le guerre intestine a Firenze, riflesso di quanto accadeva in Europa, portarono il poeta a elaborare una profonda riflessione sui rapporti tra papato e impero. A suo avviso la chiesa doveva essere esclusa da ogni intervento a finalità politica. Il suo unico compito doveva essere quello di guidare il genere umano alla vita eterna, dedicandosi alla cura delle anime.

Dante era, perciò, un vero e proprio sostenitore del potere imperiale e così, intorno al 1310, compose il De Monarchia, un trattato scritto in latino dove ribadiva il concetto di impero universale e quello della separazione dei poteri, già accennati nel Convivio e nella Commedia.

L’incipit con cui si apre l’opera riassume già il pensiero del suo autore:

“Due fini l’ineffabile Provvidenza ha posto dinanzi all’uomo come mete da raggiungere: la Felicità di questa vita, che consiste nella piena attuazione delle sue capacità, ed è raffigurata nel Paradiso Terrestre, e la Beatitudine della vita eterna, la quale consiste nel godimento della visione di Dio ed è raffigurata nel Paradiso celeste”.

Per Dante il fine ultimo dell’uomo è la felicità e Dio ha stabilito due somme autorità: il pontefice, che è la guida verso la felicità spirituale, ultraterrena, e l’imperatore, che è tutore della pace e della libertà. In tal modo l’imperatore e il pontefice appaiono come due autorità distinte e pienamente sovrane, ciascuna nel suo campo specifico di interesse, rispettivamente politico e spirituale.

L’imperatore, però, deve sempre al pontefice “quella riverenza che il figlio primo genito deve al padre”. In poche parole, papato e impero devono collaborare per garantire il pieno perfezionamento intellettivo e morale dell’uomo.

Dante con la sua idea di laicità dello Stato è un pensatore moderno e il suo contributo, rapportato al contesto storico in cui viveva, è stato di fondamentale importanza. La sua riflessione, sul tramonto del Medioevo, infatti, è un appello al rinnovamento e pone le basi alla rinascita del Quattrocento.

Concordo pienamente la critica rivolta da Dante al papato, in quanto è innegabile l’eccessivo e incessante desiderio di dominio da parte dei pontefici in quegli anni (e tuttora è evidente in alcuni casi l’interferenza dell’autorità religiosa in ambito strettamente politico), ma ritengo che, anche il ruolo giocato dagli imperatori il più delle volte fosse discutibile, poiché le loro pretese avevano spesso il potere di provocare disordini, confusione e indebolimento delle autorità civili, in particolar modo in Italia, dove le città erano dilaniate da lotte che vedevano parte dei cittadini schierati con l’imperatore e parte, invece, con il papa.

La lezione politica di Platone oggi

Qualche giorno fa mi sono imbattuta nella VII lettera di Platone, di cui mi ha colpito soprattutto questa frase: “Un tempo nella mia giovinezza, ho provato ciò che tanti adolescenti provano: avevo progettato, dal giorno in cui avessi potuto disporre di me, di dedicarmi subito alla vita politica”. La lettura del testo mi ha spinto ad alcune riflessioni.

Platone si poneva un problema politico ancora attuale.

Come nell’Atene di allora, anche oggi il mondo è attraversato da numerosi cambiamenti e sconvolgimenti politici, che hanno portato alla rottura di quell’equilibrio necessario al buon funzionamento dello Stato. Ai nostri giorni, infatti, molti uomini che partecipano alla vita politica sono disonesti, corrotti e incapaci di amministrare la giustizia. I cittadini vedono deluse le proprie aspettative e tradita la fiducia riposta in quelli che dovrebbero essere i propri rappresentanti. Di giorno in giorno si assiste alla dissoluzione delle leggi, dei costumi e di quei valori morali su cui dovrebbe fondarsi ogni sistema di governo. Ciò comporta, a sua volta, un decadimento generale della società, dal quale sembrerebbe non esserci più via d’uscita. Di fronte a una situazione del genere, un miglioramento, invece, deve essere auspicato e, a questo proposito, penso che  Platone avesse ragione nel sostenere che coloro che avevano il compito di governare dovevano essere sapienti.

In termini moderni ciò significa che ogni capo di Stato dovrebbe avere un’adeguata conoscenza – cosa che spesso viene a mancare – per meglio distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto,  l’opportuno dall’inopportuno. La conoscenza da sola, però, non basta. Credo che sia necessario che chi ci governa non debba avere interessi materiali, perché altrimenti, come spesso accade, finirà prima o poi con il rivolgere la sua attenzione verso questi interessi privati, piuttosto che verso quelli comuni, arricchendosi personalmente o favorendo alcune persone a scapito di altre.

Solo così, quindi, si otterrebbe uno Stato giusto e buono e, di conseguenza, anche quello che noi definiamo il ” bene comune”, ossia le aspettative di felicità di tutti i cittadini.

Dunque, è innegabile che la bontà di uno Stato sia legata al fatto che chi comanda governi in nome del bene comune e non in nome dei suoi interessi privati.

Ora, però, rimane un interrogativo: una concezione della politica di questo tipo è davvero realizzabile o è pura e semplice utopia?

Di certo a questa domanda ancora tutt’oggi non possiamo dare una risposta certa. É innegabile, infatti, che la teoria politica di Platone delinei un modello di Stato, inesistente e difficilmente realizzabile nella realtà, ma ritengo che il filosofo possa ancora esserci d’aiuto e che la sua lezione possa essere tuttora attuale. Innanzitutto bisognerebbe considerare in positivo e non in negativo l’utopia platonica, intendendola come un mezzo che possa spingere al miglioramento. Mi spiego meglio: essa non si limita, infatti, a proporre un’idea di Stato perfetto, ma, così facendo, sottolinea anche le imperfezioni di Stati storici reali costituirebbe – letta in questo modo – uno stimolo a costruire, se non Stati perfetti, almeno in parte migliori. In secondo luogo, l’utopia fornisce, seppur sul piano centrale, un modello organizzativo di Stato e di politica. Basterebbe, quindi, ripulirla delle sue ristrettezze dottrinali e guardare a essa come un progetto da sviluppare, tenendo ovviamente conto del contesto di riferimento. In terzo e ultimo luogo, bisognerebbe riuscire a tradurre in azione tale progetto. Come? Io penso che ciò non sia completamente impossibile, ma sia possibile solo a certe condizioni. In primis si devono educare gli uomini ad essere buoni cittadini; tale compito spetta in parte alla famiglia, in parte alla scuola in modi diversi: la famiglia educando al bene, la scuola fornendo delle nozioni pratiche attraverso lo studio delle diverse discipline.

Cittadini giusti, poi, a loro volta, formeranno uno Stato giusto, perché saranno in grado di scegliere tra loro i migliori a governare. Infine, quest’ultimi, in quanto tali, adempirebbero convinti al proprio compito, operando per il benessere collettivo.

Detta in questi termini, la soluzione apparirebbe ovvia e scontata; in realtà, si tratta di un percorso lungo e difficile da attuare, che prevede in un primo momento un cambiamento di mentalità – e qui entrerebbe in gioco quella che in senso lato si definisce “la cultura di un popolo” – e solo in un secondo momento il passaggio dal sapere alla pratica. Solo così, allora, si otterrebbero dei buoni risultati e, forse, si metterebbe fine alla degenerazione politico-sociale che domina il nostro tempo.

Socrate, “Chi era costui”?

La figura di Socrate è fondamentale per lo sviluppo non solo della filosofia greca, ma di tutto il pensiero occidentale.

Il suo insegnamento, infatti, ha aperto la strada alla ricerca del sapere ed esercita tutt’oggi una grande influenza su filosofi e intellettuali.

Quella di Socrate, nell’Atene del V sec.  a.C. fu una vera e propria “missione”, un esame incessante su se stesso e sugli altri condotto sempre con umiltà propria di chi  “sa di non sapere”. È proprio questa consapevolezza che funziona come uno stimolo alla ricerca, una ricerca, però, portata avanti con quel gioco di parole comunemente conosciuto con il nome di eironeia.

Così in un “variopinto teatro” di finzioni, il maestro, perché soprattutto questo era in fondo Socrate, spinge i suoi discepoli ad aprire le menti e a liberarle da quelle pseudo – certezze che le imprigionano.

Ecco appunto il filosofo simile alla levatrice che con la sua abilità e con il suo assillante “Che cos’è?” aiuta gli uomini a “partorire” quelle verità che tengono nascoste da tempo dentro di sé.

Così grazie a Socrate ciascuno ha imparato anche il mestiere di vivere, a distinguere il bene dal male.

Insomma, in poche parole, a essere un uomo.

David - La morte di Socrate