ll giorno 26 Febbraio le classi terze, quarte e quinte si sono recate al penitenziario di Opera per assistere e partecipare al secondo incontro con il Gruppo della trasgressione. Dopo aver superato le complicate procedure di sicurezza, siamo stati accompagnati in una sorta di teatro all’interno del carcere. Subito non mi ha convinto la presentazione dell’incontro da parte del dott. Angelo Aparo, psicologo e guida di questo gruppo, il quale sostanzialmente ha chiesto a noi e in particolare alla professoressa Tamarozzi, che cosa desiderassimo discutere. Insieme si è dunque deciso di porre delle domande ai detenuti e si è così sviluppato un dialogo nel quale i carcerati hanno esposto il loro percorso interiore, concentrandosi ad esempio sul senso di colpa o sul fatto che tutti noi, secondo la loro opinione, trovandoci in una determinata situazione saremmo dei potenziali assassini o criminali.
Personalmente speravo con questa uscita di poter conoscere meglio una realtà (fortunatamente) sconosciuta e che mi incuriosisce come quella del carcere, invece, a parte le tante procedure di sicurezza, andare al teatro Fellini di Rozzano sarebbe stata la stessa cosa.
Mi ha colpito in particolare un pensiero che accumunava i detenuti; essi infatti sostenevano di esser stati degli assassini nel momento in cui hanno commesso l’omicidio, ma di non esserlo più ora grazie al percorso seguito col il Gruppo della trasgressione. Assurdo. Io e i miei compagni ci chiedevamo se quelle persone avrebbero avuto il coraggio di dire le stesse cose di fronte alle famiglie delle vittime dei loro omicidi. Sicuramente è sbagliato catalogare una persona per tutta la vita come “criminale”, ma il delitto resta, non può essere cancellato, nessuno può rimediare all’uccisione di una persona e quindi non puoi considerarti un assassino solo nel momento in cui uccidi, ma dopo averlo fatto lo resti per tutta la vita.
Mi piace:
Mi piace Caricamento...
S. Tommaso d’Aquino spiega che l’uomo non sarebbe pienamente uomo se non mirasse a qualcosa che sta al di sopra dell’uomo stesso. La ragione umana può dimostrare che Dio esiste risalendo quindi a Dio dalla realtà, ma l’uomo non può arrivare al suo destino se non attraverso la sua libertà. La libertà è la capacità che l’uomo ha di essere arbitro, cioè padrone delle proprie azioni, scegliendo tra varie possibilità e alternative: di agire oppure di non agire, di fare una cosa piuttosto che un’altra. Se l’uomo fosse portato al suo destino senza libertà, non potrebbe essere felice, non sarebbe una felicità sua, non sarebbe il suo destino. E’ attraverso la sua libertà che il destino, il fine, lo scopo, l’oggetto ultimo può diventare risposta per lui. Il destino è qualcosa di fronte al quale l’uomo è responsabile, è frutto della libertà. La libertà dunque ha a che fare non solo con l’essere protesi a Dio come coerenza di vita ma anche con la scoperta di Dio. Ci sono tanti scienziati, letterati che approfondendo la loro esperienza, hanno scoperto Dio, e tanti che invece hanno creduto di eliminare Dio attraverso i loro studi. Questo significa che riconoscere Dio non è un problema né di scienza né di sensibilità estetica o filosofica, ma è un problema di libertà. La volontà dell’uomo impone delle scelte buone o cattive seguendo un proprio giudizio. La grazia divina “infonde” virtù che portano l’uomo ad una felicità che in questa vita non si potrà trovare. Nel fare ciò, la grazia non distrugge la libertà umana perché ciascuno si muove secondo la propria volontà, liberamente. La grazia divina è dunque indispensabile perché l’uomo voglia il bene e raggiunga la felicità, ma è una grazia che l’uomo vuole liberamente e che quindi “non ha luogo senza un movimento del libero arbitrio”. Ciò significa che ogni uomo decide o meno di chiedere la grazia per sé, e quando la chiede lo fa perché è cosciente di non essere in grado, senza di essa, di raggiungere il proprio destino.
Mi piace:
Mi piace Caricamento...
Il Blog per chi studia, insegna, lavora all'Istituto Calvino