Nel Duecento in Spagna incominciò la Reconquista, ossia la riconquista cristiana dei territori iberici occupati dai musulmani.
Dopo quasi tre secoli di combattimenti la guerra santa indetta da Innocenzo III finì nel 1492 con la caduta dell’ultimo presidio musulmano in Spagna, la roccaforte di Granada.
La vittoria cristiana diede però inizio a una serie di persecuzioni contro gli ebrei.
Le intolleranze incominciarono alla fine del XIV secolo con semplici seccature amministrative, diventando poi veri massacri nel 1391, quando intere comunità ebraiche furono uccise a Barcellona, a Valencia e a Siviglia dalla popolazione perché considerate responsabili della carestia e delle conseguenti epidemie.
Nel XV secolo i sovrani smisero di proteggere gli ebrei.
Con la fine della Reconquista alla fine del XV secolo la persecuzione diventò espulsione: nell’aprile del 1492 Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona imposero a 200.000 ebrei di lasciare il regno entro il 1° di luglio.
Gli ebrei dovettero lasciare tutti i loro averi o barattarli con altri oggetti, poiché non potevano uscire dal regno con denaro contante; solo i più esperti barattarono i propri averi con titoli validi in tutta Europa.
Nel XVI secolo le persecuzioni si spostarono su tutti quelli che avevano anche solo un antenato ebreo: si riteneva avessero ereditato con il sangue l’odio per Gesù Cristo.
Dal 1540, per molte cariche pubbliche e religiose, divenne obbligatorio dimostrare la “purezza di sangue”, la limpieza de sangre appunto, attraverso una certificazione che assicurasse, risalendo fino ai nonni, l’assenza di antenati ebrei. La limpieza de sangre è il primo esempio di persecuzione degli ebrei non fondato su appartenenza religiosa, ma razziale, che avrà la massima eco nel XX secolo, dove produrrà gli effetti peggiori.
Il razzismo ebbe effetti negativi anche per la Spagna: con gli ebrei, perse un’elitè borghese che faceva girare l’economia spagnola e dava un notevole contributo alle casse dello Stato.
Il rispetto per le differenze è indispensabile in una società civile ed è l’unico modo per vivere insieme nel modo migliore.
Tutti gli articoli di luk zuzu
La politica di Platone
Platone per tutta la vita rifletté sulla politica e su quali dovessero essere le perfette virtù del politico e il tipo migliore di governo per una città.
Come può essere considerato oggi il sistema politico di Platone?
Platone nei suoi ultimi due discorsi, il Politico e soprattutto le Leggi, tratta del suo modello di “città seconda”, ossia la città realizzabile che più si avvicina alla città perfetta immaginata dal filosofo, a differenza della Repubblica dove lo stesso Platone ammette di parlare di una realtà utopistica non realizzabile.
Nel Politico indica quali devono essere le caratteristiche del politico, ossia del governante della città: la scienza politica diventa “arte della misura” dove il governante deve essere un “abile tessitore”, che sa intrecciare i diversi elementi di cui è composta la città nella “giusta misura”.
Inoltre nel Politico Platone espone i sei diversi tipi di costituzione; i primi tre rispettosi delle leggi, buoni, e i secondi tre derivati dalla violazione delle leggi, cattivi; nonostante in questo discorso il filosofo pensi ancora che il buon politico non abbia bisogno di leggi perché consigliato dall’arte della misura.
Le costituzioni buone sono la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia, mentre quelle cattive sono la tirannide, l’oligarchia e sempre la democrazia, notando che per questa ultima Platone da lo stesso nome sia che si tratti della buona sia che si tratti della cattiva forma di governo.
Solo nelle Leggi Platone afferma la centralità delle leggi nel governo di una comunità e pensa a una costituzione mista, come Sparta e Creta, dove la monarchia (il re), simbolo di unità, l’aristocrazia (il Consiglio o il Senato), simbolo di saggezza, e la democrazia (il popolo), simbolo di libertà, si uniscono.
E’ interessante notare come Platone, anche se non immediatamente, ma dopo un cambiamento graduale, arrivi tuttavia ad un modello di politica molto simile al sistema di governo dei principali stati mondiali.
Una nota negativa del pensiero del filosofo, secondo il mio punto di vista, è il fatto che ripone troppa importanza nella monarchia e di come questa sia una condizione necessaria in un buon governo.
Secondo la mia opinione la forma di governo corretta comprende un ristretto gruppo di persone competenti delegate ad amministrare la comunità, ma il vero potere decisionale deve essere del popolo, che democraticamente elegge tutti i suoi rappresentanti.
In realtà però un governo non è o buono o cattivo solo perché la forma è una monarchia anziché una democrazia; l’elemento fondamentale che rende un governo giusto è la componente umana, perché sta nell’abilità del governante, uno o tanti che siano, amministrare la comunità in modo che tutti diano il loro contributo e che tutti possano essere felici, usando come diceva Platone l’arte della misura.
Socrate: il tafano di Atene
Una delle metafore più celebri che hanno per oggetto Socrate è quella, scritta nell’Apologia di Socrate e pronunciata dal filosofo stesso, del tafano: infatti Socrate era “il tafano che punzecchia la vecchia cavalla”, dove l’insetto era ovviamente il filosofo, mentre la vecchia cavalla era l’antica città di Atene.
Perchè paragonare un grande filosofo come Socrate ad un fastidioso insetto come il tafano?
Come ben sappiamo dalle principali fonti socratiche, Platone e Senofonte, Socrate pensava che la verità potesse essere scoperta solo attraverso il dialogo e la maieutica, aiutando le persone che interrogava a tirar fuori la verità.
Non a caso Socrate soleva paragonarsi a sua madre Fenarete, che per anni fu una brava e vigorosa levatrice: come Fenarete aiutava le gestanti a partorire i bambini, così Socrate aiutava le anime “gravide” a partorire la verità.
Inoltre Socrate affermava che così come le donne rimangono incinte dopo essersi accoppiate con un uomo, anche le anime per essere “gravide” devono prima accoppiarsi con un’altra anima, ossia mediante il discorso e il confronto orale.
Quindi Socrate camminava per le strade di Atene (rigorosamente a piedi scalzi), andando a interrogare gli uomini più importanti e le persone più erudite della città, chiedendo loro di spiegargli un concetto generale, che gli interrogati pensavano di conoscere a fondo, come coraggio, bellezza o virtù.
Arrivati alla fine del discorso Socrate riusciva sempre a dimostrare al suo interlocutore che questo non conosceva veramente il concetto a fondo, imbarazzando anche pubblicamente la persona.
Il filosofo divenne perciò un uomo scomodo, da evitare, a tratti fastidioso, ma non per antipatia, bensì per paura: le persone erudite avevano il terrore che Socrate sbriciolasse le loro certezze dimostrando la loro ignoranza su un argomento riguardo al quale si sentivano esperti.
Per questo motivo si soprannomina “il tafano”; ma non come un insetto visse e morì, bensì come un vero uomo: pensante, razionale e rispettoso delle leggi.
Rispetto per le quali portò un grande uomo ad una morte onorevole ma ingiusta.