Tutti gli articoli di Giuso

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Con un giorno d’anticipo alla manifestazione di domani, di Domenica; quella che vedrà nell’intestino delle città italiane tante e tante pagine firmate col profumo dell’orgoglio del proprio sesso, pubblico la fotografia di un mondo intero, di una nuova società, raccontata con gli occhi socchiusi dal sole ed il cuore leggero per un amico.

E’ un anno che verrà. Secoli sono passati da quando l’umanità ha combattuto per l’ultima volta, l’ultima guerra, con i pugni. La civiltà non ha avuto bisogno d’essere sotterrata né di rinascere da ceneri. E’ risorta; in un modo che solo scrittori avevano immaginato: prostitute che scavalcano le pistole strette dai calli. Un anno più in là di quelli fino ad allora vissuti. E’ il periodo del potere delle donne, liberate dal costume del rosa e del dolce. Hanno raccolto le salme delle menti stanche ad ingannare le altre ed hanno costruito un nuovo mondo. Uno in cui non ci sono guerre, dove la competizione non esiste. E’ un mondo di schiavitù. Una dittatura femminile. Il negativo di tutti quei secoli, vissuti nei continenti fin’allora conosciuti. Le donne hanno compreso l’essenza del maschio: ed è per ciò che questo vada lavato della follia della lussuria; s’è capito che la radice d’ogne male contro l’umanità sta lì: dalla necessità del petrolio, dalla contesa dei prati, dal lancio dei proiettili; tutti hanno davanti a loro lo spettro del sesso e della protezione delle proprietà private, sintesi delle ragioni che le mogli spuntavano nelle loro menti, già programmate ad irrigidire gli arti, al peso dello spartano che scolpisce concubine nei regali terreni di Mefistofele. L’uomo è ora solo un muscolo della società. Un bue. E un intero organismo statale si preoccupa di affievolire l’ìmpeto che vuole spaccare con il collo la corda del suo guinzaglio. E’ un mondo migliore; che si possa bruciare l’opera di quello che contò con il suo secolo le parti di sangue e di lacrime gocciolanti dallo scettro (caro Ugo,) perché scettro non c’è più. Bastava così poco a sistemare ogni cosa. Eppure nessun Principe ha mai ceduto alla tentazione, prima d’allora s’intende, di farsi da parte e guardare quanto più in là arrivi la palpebra truccata.

Sentimento ripreso; additività di infiniti: l’amore al tempo di Dalì

Ah, dolcezza del mio cuore.
Quanta gola sprecherei per sciogliere il vetro che ci separa. Quante fatiche ti dedicherei per il contatto che la paura ci nega.
Il démone dello spazio ci stringe contro la piana azzurra, saporita di vernice fresca. Davanti a ‘sto schifo d’immagini disturbanti. Vomito applaudito da una massa  di odianti della bellezza autentica, attendenti altro senònché immagini più veloci del genio umano, della retina della mente. Regalo di un prestigiatore dalla bacchetta setolata.
Il tuo sospiro nascosto, massa di petalo, pesa tonnellate sui polmoni, vero organo dell’amore negli uomini. Scoppietta l’olio caldo mentre frigge le ferite; persino il soffio, placebica inutilità a pelle fresca, [..]: sei un amore.

Indiscutibile

L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera

Capitolo 28

“La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cadere in mezza alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso.”

Se gli dei sognassero sarebbero straccioni allo specchio.

E’ tutto un sogno. Vi sveglierete fra qualche istante e dovrete ricominciare da capo. Si sà. L’impressione che désta i sogni ha un’impronta enorme rispetto alla durata del processo cerebrale che li genera. Di questo sogno diciottenne potrebbe rimanere una briciola; la stessa insignificante sensazione che lasciano i sogni dopo qualche ora dal risveglio. Tutto intorno è sogno. Immaginatevi non più fermi esseri umani, ma pòllini dispersi nel bordello del magnaccia aereo: nessun appiglio, nessun riparo. La nostra speranza starebbe nel non svegliarsi mai.

Questo c’è però dopo la morte: un altro sogno. Questo quaderno, questa matita, la mia immagine ritratta sullo specchio lucido, voi, amici, le femmine che amo; voi, siete desideri del mio io assetato. Intorno a me girate come cancri, ballando con gli occhi rivolto al perno, manovrati da un annoiato marionettista, figlio mio, barbaro, già disconosciuto e disamato, mio licenziato ex-dipendente.

Domani mattina vivrò un’altra volta la realtà delle quattro stagioni, del profumo degli umori umani, della Terra tonda, degli aerei e dei sottomarini, dell’imbuto e dei computer. Della s***** e delle macchine da scrivere. Del sangue. E della linfa. Della morte, dipinta ad olio, popolare, democratica, selettrice, che porta via a vagonate gomme nere consumate e bruciate.
Tutti morirete. A parte me.

Sono un essere immortale che sogna Sogni dalla durata finita che collassano in sè. Voi non vedrete la mia morte. Quando smetterò di esistere, tutto smetterà di esistere e come sabbia cadrete dentro un densissimo buco spazio-temporale. La matrice creativa che ci ha creato muterà algoritmi, con gli stessi strumenti del primo sogno, et voilà: un altro me e un altro voi. Come barchette paraffinate danzanti, cadute per sbaglio nell’Oceano; àlbatros dalle ali bucate. Ridicoli ballerini di Classica col culo basso, il collo grosso e i piedi piatti.

Il disperato, e senza potenza, amore di Encolpio

La cultura apre la mente.
La passione che spacca il filtro delle parole di Petronio scorre sul materiale patinato delle carte da gioco. Una soffiata carezza e la figura lascia scivolare la veste.
Un baccano fa eco di migliaia di finestre di legno che sbattono contro il muro della mente piatta, aprendosi con forza.
Un mazzo di carte che si mischia, esplodendo.
Nella polvere che si agita discreta: che sia il godimento dei due corpi simmetrici la fronte del piacere? Che una volta l’uno e una volta l’altro descriva la ricetta dell’arazzo macchiato del peccato? Che questo tessuto intrecciato da mille fili sia più tenero dello straccio sputato dall’ospitalità di Eva? Questo?!
Questo amore che ci educano a sfocare disgustoso e promiscuo. In quale passaggio storico ce lo siamo persi? Quando abbiamo acceso il primo lumino per il sesso e abbiamo modellato con lame e martelli la necessità di riprodursi?

Scimmie.

Tomarchio natura

Giugno 1999

E’ mattino. Mi sveglio prima con la mente che con il corpo e sono immobilizzato sul materasso.
La schiena poggia sul lenzuolo celeste di cotone, rotolandomi nel nido. Quando richiudo gli occhi, mi permetto d’invitare la coscienza a casa di Morfeo.

Sono arrivato ieri quì. Superavo i miei cugini che m’inseguivano in bicicletta, e spingevano i primi calletti contro il manubrio. Rumore anatresco del cambio Shimano.
Stavo seduto ‘dietro’ io; nella Tempra rosso lucida, con gli interni spugnosi e secchi, sporchi di polvere, sabbia e sale. Residui di focacce. L’odore dei sedili cotti dai raggi solari, inserrati dal vetro che sulla faccia colora le ultime gocce della stagione, mi faceva tenere il sacchetto di plastica a portata di mano; lo spirito dei mozziconi spenti è difficile da esorcizzare. Sono in macchina da più di 10 ore; ho le labbra screpolate, la lingua che sa di aceto e i piccoli muscoletti delle gambe atrofizzati.
Quel cancello nero però mi ha fatto entrare in paradiso.

Il viale sul quale, strisciando con la gomma, facevo compagnia al lento martello del Parkinson, raccogliendo di notte gelsomini bianchi, unica luce naturale in quell’aria di zafferano diffuso.

I grandi dicono sia un paesino in provincia di Palermo e non una zattera fra le nuvole.

Ritorno sul cuscino. Mi accarezzo i capelli. Corti e chiari. Il vigore del mattino quando il sole dà il bacio del buongiorno mi spinge fuori dal letto e sulla scalinata di marmo bianco, rinfresco la pianta nera, pronta a formarsi sull’asfalto.
Sento il profumo del mare e della sicilia arancione.

L’anime triste di coloro che vissero senza infamie e senza lodo

Quale degli dei dobbiamo pregare perché nasca una politica fatta di soluzioni e progetti interi? Piena di filosofi e di sogni.
Che ci vuole ad esporsi? A presentare un piano completo, che abbia il coraggio di discutere ogni elemento di opinione nella nostra società?

Dire che sull’acqua, sulla giustizia, sul commercio, sull’industria, sulla scuola, sul lavoro, sui sindacati e sul turismo; sulla guerra, sul meridione, sul trasporto pubblico, sui treni, sugli aerei, sulla Russia, sull’America e sulla Cina la si pensi così.
Possibile che la nostra singolarità di cittadini sia daltonizzata in destra e sinistra. Bene e male. Anzi; male e bene; in ordine.

"La vera 'porcata' di Mirafiori sta nel fatto che la grande impresa, il governo, i partiti, i sindacati, le istituzioni scaricano su 5400 lavoratori la responsabilità di decidere su qualche cosa che va ben oltre il confine della loro fabbrica,il loro posto, il loro salario." Rinaldo Gianola, l'Unità 12.1.11

Quanta paura che ha il leone vecchio ad alzarsi dalla terra. Il rischio di non trovare la seggiola. Vertigini guardando il branco dall’alto; serenità invece, sentendo gli schiamazzi fra uno sbadiglio e l’altro, mentre le palpebre riposano.

Scili (e Cariddi)

E invece no! Mai dobbiamo smettere di indignarci. Ma sempre, anche la moneta più piccola, deve tuonare come il baccano delle piume scivolate a terra nella notte. Non solo per noi dev’essere di fastidio; seppelliamo con spade d’inchiostro la nostra sete di libertà.
‘Sciò’ le accuse di banalità.
E quando mai il dolore si piega sotto la frusta del tempo? Nel sentimento? Ma quì non siamo al cospetto di Amore. Quì il sangue che lasciamo sui marciapiedi, noi, scavati da cazzotti nello stomaco, non torna indietro.
Mai il carpe diem oraziano fu più necessario d’ora.
S-cateniamo gli animi dal nastro adesivo sporco di petrolio.

Da una conferenza di Evgenij Evtušenko

Mi dicono: “Amico
sei proprio coraggioso!”
E non lo sono – tra i miei vizi non ho mai avuto il coraggio.
Solo non mi sentivo meschino al punto d’essere così vigliacco come altra gente che mi vedo intorno.
Ma non ho mai tentato di deviare l’orbita del mondo.
Ho scritto e basta.
E allora?
Ma non ho mai fatto l’informatore.
E ho sbeffeggiato quando la misura era colma – mi sono burlato del Falso –                                                                        [ho cercato di dire quello che pensavo –                                                                        forte abbastanza da farmi sentire.
Ma verrà il giorno da ricordare
e ardere di vergogna:
Quando l’avremo finita con la disonestà e le menzogne
con quei tempi bizzarri quando un uomo soltanto sincero
era chiamato ‘coraggioso’!

L’inverno muto.

Lascio aperta la finestra e lascio seccare le tracce di caffè del fondo della tazzina sulla scrivania.
Il freddo ghiaccia la pelle e la rende pallida.
Ma dentro, nonostante il frèmito dei muscoli, anche se gli incisivi sbattono, richiamando le nocche dentro alle maniche, l’animo si scalda di Scirocco romantico.
L’Olimpo ha messo in pausa la natura. E così l’autunno decora gli alberi che paiono addobbati di zirconi luminosi, brillando del sole zittito dalla nebbia.
Giovani amanti vorrebbero essere giovani dèi, e sotto una di queste fronde di fantasia godere dei loro corpi.

‘Ngiulina

‘Ngiulina – Antonio De Curtis

Chisto è ‘o ritratto e chiste so’ ‘e capille:
na ciocca ‘e seta nera avvellutata.
E cheste songo ‘e llettere: cchiù ‘e mille;
lettere ‘e ‘na guagliona nnammurata.

Ngiulina se chiammava sta figliola
ch’è stata ‘a primma nnammurata mia.
Trent’anne sò passate… Mamma mia!

‘A tengo nnanze a ll’uocchie, pare aiere:
vocca ‘e curallo, ‘na faccella ‘e cera,
‘nu paro d’uocchie verde, ‘e cciglie nere,
senza russetto… semplice e sincera.

Teneva sidece anne e io diciotto.
Faceva ‘a sartulella a ‘o Chiatamone.
Scenneva d’ ‘a fatica ‘mpunto ll’otto,
e mm’aspettava a me sotto ‘o purtone.

Senza parlà, subbeto sotto ‘o vraccio
nce pigliavemo e ghievemo a ffà ammore.
Vicino ‘a casa soia, ‘ncoppa Brancaccio,
parole doce e zucchero int’ ‘o core.

Mettennoce appuiate ‘nfaccia ‘o muro,
a musso a mmusso, tutt’ e dduie abbracciate:
dint’ ‘a penombra ‘e n’ angulillo oscuro,
quanta suspire e vvase appassiunate!

‘A tengo nnanze a ll’uocchie, pare aiere:
vocca ‘e curallo, na faccella ‘e cera;
nu paro d’uocchie verde, ‘e cciglie nere,
senza russetto… semplice e sincera.

Quanta dolcezza..