La scorsa estate ho ricevuto una lunga lettera di critica ad un mio vecchio articolo. L’autore, un brianzolo trapiantato in Francia, mi scriveva, tra l’altro, a proposito dello Stato laico: « Ma in realtà questa è una conquista costantemente minacciata per l’appunto dal “ritorno del religioso”». Sarà vero? Qualche giorno fa mia moglie, che insegna alle elementari è tornata da scuola avvilita. «Sono così depressa: in quinta ho chiesto se sapevano qualcosa di San Paolo e mi hanno risposto che è quello che ha fondato la banca cui fanno pubblicità in TV. Ho fatto la faccia scura e qualcuno ha corretto: “No! É quello dell’Ospedale dove hanno ricoverato mia nonna”». Per consolarla, le ho raccontato di quel nostro alunno di terza Liceo che nel compito di storia ha scritto: «Secondo la teologia cattolica il papa è il sicario di Cristo». Il risultato del mio tentativo di darle conforto non è stato brillante: mi ha proposto di frequentare insieme un corso per idraulici. Che si ottengano risultati migliori?
PS Una collega che si è trasferita in un liceo sul mare mi ha scritto suggerendomi di consolare mia moglie ricordandole che, quando eravamo sezione staccata del Liceo Allende, molti studenti intendevano S. Allende come “Sant’Allende”. Chi sarà mai stato il postulatore della causa di Canonizzazione?
Arrivo a scuola presto. All’ingresso non ci sono bidelli. La sala prof. è buia come il ventre del pesce che inghiottì Giona. Alzo le tapparelle, ma il cambiamento non è significativo. Poi, pian piano, arrivano colleghi e colleghe. Oggi sembra che ognuno abbia il suo fagottino di dolore e si sente solo un parlare spento e un po’ annoiato. Non arriva neanche Caterina, la custode, con il consueto TIR di circolari. Armato dei registri raggiungo la quarta Z. L’appello passa quasi inosservato. Cerco di iniziare la lezione, ma continuano a conversare placidamente, come se il professore non fosse ancora entrato. Che sia diventato trasparente? Innalzo le mani, con un gesto di richiamo, per farmi notare. Niente. Vorrei quasi avere un fumogeno. Poi mi forzo e, trovando risorse inaspettate, faccio uscire una voce tonante: «Questo strano gesticolare è del vostro professore: pur sapendo che l’oblio lo porterà con sé, vorrebbe che ciò avvenisse un altro giorno». Si può cominciare. Poi, spiegando San Tommaso scopro che Fornero al teorema di Pitagora crede per fede, mentre la signorina Pugni sostiene che non vale sempre. Tutto sommato, avrebbe anche ragione, se soltanto sapesse spiegare perché. Zappa, che ha chiesto di andare ai servizi, rientra simulando dolori in tutto il corpo. Commento: «Consolati, se soffri sei vivo». «Professore, preferirei essere morto» è la sua risposta. Ma quando gli auguro soavemente: «Che Dio ti accontenti», la mano è lesta allo scongiuro.
15 settembre – quarta X Sono appena entrato ed arriva trafelato Tardini dalla terza. Ansimando, quasi senza parole, mi mostra un libro. Lo fisso con lo sguardo interrogativo. «L’Inferno – mormora – Professore, va bene l’Inferno?». La tentazione della battuta è troppo forte: «Non ce n’è bisogno, Tardini – gli rispondo – Sarò io il tuo Inferno». Ed è solo allora che capisce lo sbaglio.
Primo giorno di scuola dopo le vacanze, anche se solo per prof.
É bello rivedere le persone con cui abbiamo lavorato volentieri.
Ci sono anche tante facce nuove (alcune molto belle), qualche viso noto che ritorna e tanta voglia di lavorare.
L’anno si preannuncia buono.
Anche durante le vacanze i professori pensano alla scuola. Qualche giorno fa, mentre passeggiavo sul crinale tra la Val Parma e la Val Magra, ho incontrato una collega di un’altra scuola, in tuta mimetica: «Mi sto allenando – mi dice – per essere efficiente all’inizio delle lezioni!» La professoressa Marzia Squadroni, sarà per via del nome, pensa che la scuola sia una guerra, una dura lotta, senza esclusione di colpi, da condurre contro selvaggi infidi, che potranno essere portati alla civiltà solamente attraverso il vaglio purificatore della sofferenza. Per lei lo studente è, per definizione, un subdolo mentitore da smascherare. Se pare che uno studente sappia, indaga bene: troverai l’errore. Se uno studente sembra comportarsi bene, è meglio diffidare: sotto sotto si sta prendendo gioco dell’insegnante. A questa regola fanno eccezione soltanto le poche vittime della sindrome di Stoccolma, sempre pronte a compiacere la docente padrona, ma anche per loro vale la legge fondamentale: la scuola è e deve essere dolore oppure non è scuola. Per fortuna si dice che da noi non ci sia nessuno così…
Finiti gli esami. Tempo di addii. Vi rivedrò a settembre, quando verrete a vendere i libri usati (non vendete, vi prego, lo Strumia). Poi vedrò solo qualcuno sempre più saltuariamente o, magari, vi incrocerò al supermercato e ci saluteremo con la fretta di chi è pressato dal correre della vita. Così ve lo dico adesso: è stato bello! Ringrazio Dio e voi per il dono ricevuto: tre anni gioiosi, anche quando fingevo di voler cambiar mestiere. Ora, andate e non lasciatevi intimidire da nessuno: meritate tanto. E non dico per i risultati scolastici; quelli sono secondari: un voto non vi misura. Vale anche per chi non ha avuto il successo sperato e dovrà pazientare ancora per un anno: anche ottimi colleghi, amatissimi dai loro studenti, hanno impiegato più tempo del previsto per concludere la scuola superiore.
Vatti a fidare degli amici!
Colavolpe mi ha ridotto che neanche Gregor Samsa.
Nemmeno Kafka sarebbe arrivato a tanto.
E poi dicono delle armi! Le matite sono più pericolose. Bisognerà introdurre un permesso speciale: il porto di matita.
Almeno, però, mi ha lasciato il computer: mi consolerò pensando che sono al centro del web.
Sono anni che propongo al Consiglio di Classe un lavoro di approfondimento interdisciplinare sul tema della Felicità: niente da fare. Mi prendono anche un po’ in giro, come se la mia richiesta fosse motivata dalla personalissima esigenza di non affogare nella sfiga. Forse gioca tra i colleghi anche la paura di dover riconoscere le proprie infelicità: 40, 50, 60 anni e una piega amara sulla bocca; molto meglio non parlarne. Eppure tutti abbiamo provato la felicità. Com’è che ci vien difficile definirla? Perché il “che cos’è” della felicità sembra sfuggire alla nostra presa? I più sembrano pensare che abbiano ragione gli inglesi, che la felicità sia happiness, qualcosa che accade (to happen) e dunque non è in nostro potere. La fortuna è cieca e la sfiga ci vede benissimo. Altri pensano, credono, sperano che la felicità si possa costruire o si possa raggiungere. Altri altro ancora. Come sarà? Anche quando sono felice, non so ben rispondere. però voglio proporvi una storia: la storia dell’uomo felice, una storia raccontata da Italo Calvino, che faccio un po’ mia e, dunque, mi permetto di cambiare, ma poco poco. Eccola.
Un re aveva un figlio unico e gli voleva bene come alla luce dei suoi occhi. Ma questo Principe era sempre scontento. Passava intere giornate affacciato al balcone, a guardare lontano. – Ma cosa ti manca? – gli chiedeva il Re. – Che cos’hai? – Non lo so, padre mio, non lo so neanch’io. – Sei innamorato? Se vuoi una qualche ragazza dimmelo, e te la farò sposare, fosse la figlia del Re più potente della terra o la più povera contadina! – No, padre, non sono innamorato. E il Re a riprovare tutti modi per distrarlo! Teatri, balli, musiche, canti, ma nulla serviva, e dal viso del Principe di giorno in giorno scompariva il color di rosa. Il Re emanò un editto e, da ogni parte del mondo, venne la gente più istruita: filosofi, dottori e professori. Vennero persino dall’Istituto Calvino. Il re mostrò il Principe e domandò consiglio. Quelli si ritirarono a pensare, poi tornarono e dissero: – Maestà, abbiamo pensato, abbiamo letto le stelle. Ecco cosa dovete fare. Cercate un uomo che sia felice, ma felice in tutto e per tutto, e cambiate la camicia di vostro figlio con la sua. Quel giorno stesso il Re mandò ambasciatori per tutto il mondo a cercare l’uomo felice. Gli fu condotto un prete: – Sei felice? – gli domandò il Re. – Io sì, Maestà! – Bene. Avresti piacere di diventare il mio vescovo? – Oh, magari, Maestà! – Va’ via! Fuori di qua! Cerco un uomo felice e contento del suo stato, non uno che voglia star meglio di com’è. E il Re si mise ancora in attesa. C’era un altro Re, suo vicino. Gli dissero che era proprio felice e contento: aveva una moglie bella e buona, un mucchio di figli, aveva vinto tutti i nemici in guerra e il paese stava in pace. Subito il Re, pieno di speranza, mando gli ambasciatori a chiedergli la camicia. Il Re vicino ricevette gli ambasciatori e: – Sì, sì, non mi manca nulla. Peccato, però, che quando si hanno tante cose, poi si debba morire e lasciare tutto! Con questo pensiero soffro tanto che non dormo la notte! così gli ambasciatori pensarono bene di tornarsene indietro. Per sfogare la sua disperazione, il Re andò a caccia. Tirò a una lepre e credeva d’averla presa, ma la lepre, zoppicando, scappò via. Il Re le tenne dietro e s’allontanò dal seguito. In mezzo ai campi sentì una voce d’uomo che cantava allegramente. Il Re si fermo: – Chi canta così non può che esser contento! Seguendo il canto si infilò in una vigna e, tra i filari, vide un giovane che cantava potando le viti. – Buon dì, Maestà, – disse quel giovane – così di buon’ora già in campagna? – Benedetto te, vuoi che ti porti con me alla capitale? Sarai mio amico. – Ahi, ahi, Maestà, no, non ci penso nemmeno, grazie. Non mi cambierei nemmeno col Papa. – Ma perché, tu, un così bel giovane? – Ma no, vi dico. Sono contento così e basta. – Finalmente un uomo felice – pensò il Re. – Giovane, senti: devi farmi un piacere. – Se posso, con tutto il cuore, Maestà. – Aspetta un momento, – e il Re, che non stava più nella pelle per la contentezza, corse cercare il suo seguito: – Venite! Venite! Mio figlio è salvo! Mio figlio è salvo – e li porta da quel giovane. – Benedetto giovane, – dice, – ti darò tutto quello che vuoi, ma dammi, dammi… – Che cosa, Maestà? – Mio figlio sta per morire! Solo tu lo puoi salvare. Vieni qua, aspetta! – e lo afferra, comincia a sbottonargli la giacca. Tutt’a un tratto si ferma, gli cascano le braccia. L’uomo felice non aveva camicia.
Morale della favola? Due interpretazioni Interpretazione pessimistica: è proprio vero, la felicità non è in nostro potere. Se capita, bene, altrimenti… Interpretazione ottimistica: la felicità non sta nel possedere qualcosa, beni o privilegi o, persino, una camicia e, se non dipende dall’avere, allora può esser per tutti. Quale sarà la risposta giusta? Silenzio, per favore. Forse riusciremo a sentirla.