A partire dalla seconda metà del ‘700, ebbe inizio in Inghilterra un fenomeno noto come Rivoluzione Industriale, risultato di un insieme di innovazioni economiche e sociali finalizzate a mutare la vita umana in tutti i suoi aspetti. Esso segnò un punto di svolta da un’economia sostanzialmente agricola ad una basata sulla produzione di beni tramite l’uso di macchine, rendendo l’industria (settore secondario) la principale fonte di reddito della società.
Questo insieme di cambiamenti si originò in Inghilterra per una serie di fattori favorevoli al suo sviluppo economico futuro: la disponibilità di capitali da investire, la ricchezza di materie prime dell’isola (soprattutto ferro e carbone), l’efficienza della rete di trasporti, la possibilità di poter disporre di un mercato internazionale molto vasto, la migrazione di masse di contadini dalle campagne alle città e le innovazioni tecnologiche operate da tecnici e scienziati inglesi.
Il primo settore ad essere trasformato dalle innovazioni tecniche della Rivoluzione Industriale fu quello tessile, molto attivo nell’isola a causa dell’ abbondanza di materie prime come lana e cotone, quest’ultimo fornito dalle colonie d’oltremare inglesi. Nell’arco di qualche decennio l’intera produzione di tessuti venne completamente automatizzata, grazie all’utilizzo di telai meccanici funzionanti tramite ruote idrauliche. Ma la vera innovazione in ambito economico e sociale fu l’invenzione della macchina a vapore ad opera di Thomas Newcomen, la quale fu poi perfezionata da James Watt nel 1769. Dapprima utilizzata in ambito minerario, per prosciugare le gallerie allagate, essa fu poi applicata nel settore dei trasporti, rivoluzionando il modo di spostarsi della gente, grazie all’invenzione di battelli e treni a vapore.
Tuttavia, questa serie di innovazioni ebbe un impatto molto forte sulle condizioni della classe produttiva. In primo luogo con l’istituzione delle fabbriche, unità produttive nelle quali i beni erano prodotti in grandi quantità con l’utilizzo di macchinari, il che condusse ad una frammentazione del meccanismo di produzione. Ad operai non specializzati, infatti, spettava il compito di eseguire azioni semplici e ripetitive, anche per 15 ore al giorno, in condizioni lavorative pessime e in ambienti malsani. In quell’epoca non esistevano leggi che stabilivano la durata delle giornate lavorative e tutelavano i diritti della classe operaia: si può spiegare in questo modo il perché dello sfruttamento di donne e bambini all’interno delle fabbriche, e la presenza di bambini molto piccoli (5-7 anni) nelle miniere.
Anche le condizioni urbane della classe produttiva erano miserabili: dettate dal sovraffollamento, dovuto alla migrazione di manodopera dalle campagne, le città industriali sorte nei pressi delle fabbriche mancavano di servizi igenico-sanitari fondamentali, come il rifornimento d’acqua, le fognature e gli ospedali. In questi ambienti insalubri e fatiscenti era molto facile contrarre malattie infettive, e di conseguenza l’aspettativa di vita in quelle città subì un grosso calo.
Si può dunque affermare che con l’avvento della Rivoluzione Industriale la condizione dei lavoratori peggiorò, ma tuttavia negli anni Venti e Trenta del XIX secolo sorsero le prime organizzazioni sindacali a difesa dei lavoratori, e le loro condizioni di lavoro migliorarono gradualmente. In Italia, ad esempio, l’orario di lavoro di otto ore fu raggiunto solo nel 1919.
Diego Nesticò
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