In cosa sbagliava Zenone? La risposta a Platone

Scultura raffigurante la testa di Platone
Testa ritraente Platone, rinvenuta nel 1925 nell’area sacra del Largo Argentina a Roma e conservata ai Musei Capitolini. Copia antica di opera creata da Silanion. L’originale, commissionato da Mitridate subito dopo la morte di Platone, fu dedicato alle Muse e collocato nell’Accademia platonica di Atene.

Uno degli interrogativi rimasti aperti nella nostra classe è: “in cosa sbagliava Zenone?”. A questa domanda, rimasta irrisolta per un paio di lezioni e poi finita nel dimenticatoio, mi sembrava davvero difficile dare una risposta. Che ci fosse qualcosa che non andava nell’argomentazione dei suoi paradossi era chiaro, trovare “cosa” un po’ meno. Solo ora, compreso il pensiero Platonico, credo di aver capito in cosa sbagliasse il filosofo di Elea.
Allievo di Parmenide, Zenone cercava attraverso la dimostrazione per assurdo di appoggiare le posizioni del suo maestro, e gli argomenti che portava a sostegno della sua tesi vengono comunemente chiamati “paradossi”. Due sono i tipi di paradossi che questi formulò: i paradossi contro il movimento e quelli contro la molteplicità dell’essere. Per quanto riguarda la prima tesi,“l’essere è immobile”, Zenone sostiene che nessun uomo è in grado di raggiungere il proprio traguardo, in quanto prima sarà costretto a compiere la metà del suo percorso, poi la metà della metà e così fino all’infinito perché esisterà sempre una metà più piccola della precedente. Pertanto il movimento non può esistere. Uno dei più famosi tra questi paradossi è quello di “Achille e la tartaruga”, secondo cui, se Achille lascia alla tartaruga un margine di vantaggio, non riuscirà poi a raggiungerla perché questa sarà sempre, anche se in maniera infinitesima, più avanti di lui. Dal punto di vista matematico il discorso non fa una piega, ma cosa ne penserebbe Platone? Non credo che sarebbe molto d’accordo. Platone infatti cerca, attraverso la filosofia, di trovare, all’interno di un mondo in continuo movimento, delle verità solide e universali da potersi ritenere sempre vere e valide. Questo lo porta a formulare la cosiddetta “teoria delle idee”. Le idee, sostiene Platone, non sono altro che i caratteri universali, immateriali e sempre identici a se stessi, che si possono cogliere solo attraverso l’intelletto. E’ su queste idee che si basa la realtà sensibile, ma questa può soltanto imitarle, non potrà mai essere identica ad esse. Le idee stanno nel mondo dell’intelligibile, in quello che Platone chiama “iperuranio” e non trovano una rappresentazione perfetta nella realtà. Pertanto se diciamo che un qualcosa è bello non stiamo affermando che esso è in sé l’idea di bellezza, ma soltanto che esso vi partecipa e ne condivide una data caratteristica. Le idee sono solo dei “modelli”.
Ecco perché ciò smentisce in parte ciò che affermava Zenone: l’idea di punto senza dimensioni, di retta formata da infiniti punti non è applicabile in natura, dove lo spazio è finito e anche la più piccola parte di materia ha una dimensione. Si arriverà ad un certo punto ad una metà talmente piccola da risultare indivisibile e quindi la meta sarà raggiunta e anche Achille riuscirà prima o poi a raggiungere la tartaruga e addirittura a superarla. Non è vero quindi che non esiste il movimento.
Per quanto riguarda invece i paradossi contro la molteplicità dell’essere mi ha colpito in particolar modo quello in cui afferma che “se i molti fossero, dovrebbero essere tali e quali è l’uno, ingenerati, eterni e immutabili, ma siccome ciò non è vero, allora i molti non sono”. Per cercare di confutare questa argomentazione, è necessario appellarsi a un’altra delle “invenzioni” platoniche, la dialettica per unificazione e divisione. Nel Fedro infatti Platone afferma che la dialettica è l’arte di ricondurre il molteplice all’uno e l’arte di dividere l’uno nel molteplice. Trovare quindi ciò che unifica più idee ad un’idea più generale, ma anche fare il processo opposto, cioè dividere ogni idea in idee più specifiche, per scoprire quali idee comunicano fra di loro e quali no. A questo punto mi viene da pensare: “E se i molti facessero parte dell’idea di essere, ma non ne avessero tutte le caratteristiche?”. L’essere potrebbe essere l’idea generale che raccoglie tutto ciò che “esiste”, ma potrebbe poi dividersi in più idee specifiche come quella di ingenerato o infinito di cui non fa parte la nostra realtà. Del resto lo stesso Parmenide affermava che noi “siamo” “doxa”, opinioni, per poi concludere dicendo che non esistiamo in realtà perché l’essere è unico. Non è forse un po’ contraddittoria come affermazione? Se l’essere potesse avere più “sfumature”? Con questo Platone non vuole smentire Parmenide sul fatto che l’essere sia uno, sebbene il suo intento fosse quello, ma sicuramente la confutazione è un buon metodo per avvicinarsi alla verità, anche se a volte non basta.

Risultati della quinta giornata del torneo di scacchi

  • Girone A: Siniscalco vince “a tavolino” (per assenza dell’avversario) e si qualifica per la fase successiva del torneo.
  • Girone E: Malcovati vince “a tavolino” (per assenza dell’avversario) e si qualifica.
  • Girone H: Cappellini vince contro Magri e si qualifica.
  • Alla fine di questa prima fase eliminatoria, risultano qualificati agli ottavi di finale:
  • Girone A: VITALE, SINISCALCO.
  • Girone B: NAN MEN, LISANTI.
  • Girone C: PREVEDINI, VANIN.
  • Girone D: TORNABENE F., SASSI.
  • Girone E: MALCOVATI.
  • Girone F: TORNABENE E., CAPPELLI.
  • Girone G: RATTENNI, VILLANUCCI.
  • Girone H: CAPPELLINI, ROSSICONE.

Per completare le qualificazioni relative al Girone E, Venerdì 14 verrà disputato lo spareggio tra Comini e Ferla.

scacchiera

Gorgia parlava e sapeva parlare…

I maggiori esponenti del movimento sofista sono due: Protagora e Gorgia.
I due filosofi scrissero molto di un tema, l’oratoria, e in maniera diversa.
Gorgia, in particolare, crede molto all’uso di quest’arte perciò pensa che anche la tesi più sbagliata possa essere trasmessa a un gruppo di ascoltatori se si amministra nel modo giusto l’arte del parlare, l’oratoria appunto.
Diciamo quindi che Gorgia pensava di poter spingere i suoi ascoltatori a credere e accettare il suo punto di vista grazie al suo modo di parlare.
Si potrebbe vederlo, in un certo senso, come un abile ingannatore, la cui unica arma era la comunicazione.
Una sola frase può riassumere la sua idea: “la parola sta all’anima come la medicina sta al corpo”.
Una proporzione particolare e non proprio matematica ma messa in questo modo potrebbe far sembrare l’oratore come dottore dell’anima di chi ascolta.
È quello in cui crede Gorgia ma è un concetto decisamente impensabile per molti. Proprio in questo sta la filosofia di Gorgia: portare l’ascoltatore a pensare che argomenti su cui una persona non ha mai ragionato sono facili e facilmente condivisibili.
Ed ecco perché la parola è medicina dell’anima. Un discorso può eliminare dubbi o pensieri contrastanti in una persona, sostanzialmente può fare del bene se “assunta” nel modo corretto. E “leggere attentamente il foglio illustrativo” potrebbe essere un’avvertenza da fare a coloro che si lasciano abbindolare troppo facilmente.
Infatti se un ascoltatore conosce l’intenzione di un oratore come Gorgia (o i politici di oggi) deve avere prima di tutto la consapevolezza di possedere delle chiare idee in testa, altrimenti sarebbe come un adulto che rimane stupito e crede ancora che un mago possa tirare fuori effettivamente un coniglio dal magico cilindro.
Gorgia parlava a tutti ma sapeva veramente parlare solo ad un pubblico di facili ascoltatori, non per questo la sua figura perde di importanza.

Santa Caterina da Siena: una donna determinata, un contributo importante per la Storia della Chiesa

Santa Caterina da Siena
Baldassare Franceschini, Santa Caterina da Siena, XVII sec.

Santa Caterina da Siena (1347-1380) fu dichiarata dottore della Chiesa da papa Paolo VI, patrona principale d’Italia (assieme a San Francesco d’Assisi) da Pio XII e compatrona d’Europa da Giovanni Paolo II.

A soli sedici anni entrò a far parte del Terz’ordine domenicano delle Mantellate, dopo molto tempo passato in preghiera e in penitenza.

Caterina ebbe un ruolo decisivo nel ritorno a Roma della sede papale, trasferita ad Avignone dal 1309 al 1377, durante la cosiddetta Cattività avignonese.

Circa un anno prima, Caterina aveva cominciato la corrispondenza con il papa allora in carica, Gregorio XI, col quale scambiava opinioni riguardanti la riforma della Chiesa, insistendo fortemente per il suo ritorno nella sede scelta da Pietro.

Nel 1375, la repubblica di Firenze, che si trovava in conflitto con la Santa Sede, era per questo motivo in grave crisi economica e la donna fu incaricata di fare da mediatrice di pace col papato. Caterina quindi raggiunse la Francia e Avignone, dove fu ricevuta dal pontefice, col quale insistette nuovamente riguardo la questione della Sede papale. Finalmente, il 13 settembre del 1376, partirono tutti alla volta di Roma ma, arrivati a Genova, colpiti dallo sconforto per la notizia delle disfatte delle truppe pontificie mandate a riportare ordine alle rivolte scoppiate nella capitale, molti cardinali insistettero per tornare indietro. Ancora una volta l’intervento di Caterina, che riuscì a rassicurare Gregorio, fu decisivo e, dopo quasi settant’anni, la sede papale tornò al suo luogo originario.

Nonostante i disordini che ne seguirono, il ritorno del papa a Roma fu un avvenimento molto importante e, probabilmente, senza l’insistenza della Santa, non sarebbe mai avvenuto.

La sua determinazione l’accompagnò sempre nell’arco della sua vita. Grazie ad essa, infatti, riuscì ad entrare a far parte dell’ordine laico delle Mantellate molto giovane e senza una dote che potesse aiutare a mantenere il Convento. La sua forza le permise di lottare contro una grave malattia, si prodigò in numerosi atti benefici e, anche in punto di morte, si recò spesso a San Pietro a pregare incessantemente per l’unificazione della Chiesa, divisa dallo scisma.

Reputo Caterina da Siena una grande Donna, forte e determinata, animata da una fortissima fede che la portò al raggiungimento dei propri obiettivi. Una donna, insomma, degna di essere patrona del nostro Paese.

La potenza della parola.

Un grande esponente del movimento sofistico è Gorgia.

Come Protagora, anche Gorgia scrisse molto e i suoi scritti erano per lo più orientati verso l’oratoria.

Egli nutriva un grande interesse per l’uso retorico, ovvero persuasivo, della parola. Non usava la parola per comunicare come stanno le cose: lo riteneva impossibile. Se ne serviva, invece, per manipolare i suoi interlocutori e spingerli ad accettare il suo punto di vista. Agiva sulle passioni, sulle paure, sui sentimenti…

Gorgia esaltava la potenza ingannatrice della parola.

Qualche interprete sostiene che non si tratta di un inganno nel senso morale del termine. Gorgia si riferirebbe alla finzione letteraria, propria dei poeti, e capace di coinvolgere i lettori: sarebbe un ascoltatore davvero sciocco colui che ascoltando una poesia non si lascia influenzare dalle parole di essa o non desta un brivido.

Questa interpretazione sembra ben poco conciliabile con altre sue parole:

Dalla magia e dalla potenza ingannatrice della parola si sono ricavate due arti, quella di traviare la mente e l’altra di ingannare l’opinione pubblica.

Gorgia equipara la potenza della parola alla potenza dei farmaci: come infatti certi farmaci eliminano dal corpo tumori, altri troncano la malattia e altri ancora la vita; così anche nei discorsi, le parole producono dolore, altre paura e altre ancora, addirittura, incutono terrore, altre infine, con qualche persuasione perversa, stregano e avvelenano l’anima. Esse restano vive anche nel corso degli anni e, nei momenti meno opportuni, ti colpiscono.

Gorgia nega che le parole possano esprimere la realtà e ne sottolinea, invece, la potenza persuasiva. Ma le parole, per fare tanto effetto sulle persone, devono avere un significato. La loro forza non sta solo nel suono o nel modo di pronunciarle, ma soprattutto nel loro significato, cioè, in quel riferimento alla realtà che Gorgia vorrebbe negare.

Gorgia dunque fa un uso improprio della parola, perché tiene conto solo di una sua funzione secondaria, ovvero quella sentimentale-emotiva, ed esclude, invece, la sua funzione principale, quella razionale.

Tuttora le parole vengono usate in modo improprio, come ad esempio nelle pubblicità dove esse colpiscono il desiderio delle persone e non l’intelletto.

Impariamo a difenderci.

La giustizia di Socrate

Socrate
Testa di Socrate, scultura di epoca romana conservata al Museo del Louvre

Socrate, grande filosofo del V secolo a.C., afferma nel Critone che: “È meglio patire ingiustizia che commetterla”.

Egli fa questa affermazione mentre cerca di persuadere l’amico Critone che è andato a trovarlo in carcere, a non corrompere i giudici che lo hanno condannato a morte, rimanendo fedele alla sua etica eudemonistica, ovvero l’uomo può ottenere la felicità solo agendo in modo buono e giusto.

Ha ragione lui oppure no?

Molti, davanti a questa affermazione, sarebbero inclini a criticarla poiché portati a pensare prima al proprio tornaconto personale, poi a quello della comunità, e quindi disposti a commettere un’ingiustizia verso gli altri, se a proprio vantaggio.

Però, così facendo si innescherebbe un sistema di atti empi a catena per vendicare quelli subiti e non si finirebbe più; perciò credo che Socrate abbia ragione dicendo che non si devono commettere ingiustizie ed è meglio subirle piuttosto che farle. Anche se non si può fare a meno di pensare per se stessi, certe volte bisogna pensare anche al bene del prossimo come se fosse il tuo e sopportare gli atti ingiusti di altri.

C’è da dire inoltre, sempre secondo Socrate, che anche coloro che commettono il male non lo fanno in modo consapevole, ma lo fanno pensando che sia il bene per la propria anima. Questo perché?

Perché l’uomo non sa quale sia il vero bene e, nel cercare di capirlo, spesso commette peccati e quindi provoca sofferenze ad altri. Non possiamo sapere con precisione quale sia il bene comune, ma di certo sappiamo bene qual è il nostro bene personale e, nel tentare di realizzarlo, si può fare del male ad altri.

Se non si conosce il bene, si pecca. Questa convinzione di Socrate è dovuta al fatto che egli considera l’anima umana solo come razionale, mentre, se si considera l’anima così come fece Platone cioè composta da tre parti, una razionale, una animosa e un’altra concupiscente, si può capire più facilmente perché un uomo pecca: perché in quel momento la parte di anima “dominante” nell’essere non era quella razionale, ma una delle altre due parti.

Il torto di Socrate fu quello di non considerare tutti gli aspetti dell’animo umano.

Inoltre secondo Socrate, sembra che le leggi siano assolutamente da non trasgredire e quindi egli accetterà il suo destino in base a ciò che esse dettano (finirà per bersi la cicuta).

Trovo giusto il fatto di dover rispettare una legge, ma non credo che la si debba prendere per “oro colato” perché, essendo stata fatta da altri uomini, non sempre si può definire giusta. Bisogna rispettare tutte le leggi che si reputano giuste e cercare di fare qualcosa per cambiare quelle che si reputano ingiuste. Quindi è giusto l’insegnamento di Socrate per cui bisogna rispettare le leggi, ma con il buon senso di saper contestare quelle sbagliate.

Limiti alla libertà di parola? Inaccettabili!… O forse no…

Oggi studiavo storia per la famigerata simulazione di terza prova. Argomento: primo dopoguerra e fascismo.

Leggendo di quest’ultimo ho iniziato a pensare a che periodo dovesse essere e a come sia stata possibile l’instaurazione di un simile regime.

Facile, mi direte voi: gli oppositori vengono eliminati, si controllano i mezzi di comunicazione e la cultura, si promuovono eventi e organizzazioni che facciano scomparire il singolo a favore di un sentimento collettivo di unione e nazionalità. In sostanza viene a mancare la libertà di parola e quindi non si hanno più diversi punti di vista, l’informazione viene controllata e sottoposta a pesante censura.

Libertà di parola: penso sia questo il concetto-chiave. Al riguardo Voltaire diceva:

Non sono d’accordo con le tue opinioni, ma difenderò sempre il tuo diritto ad esprimerle.”

Credo che siamo tutti d’accordo con lui, no? Le libertà di parola e di pensiero sono dei diritti fondamentali di ogni individuo.

Eppure…

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Non è giusto morire “per sbaglio”

E la storia continua, continua come sempre, va avanti ma in realtà fa solo dei passi indietro. La storia è sempre quella: altre morti innocenti, altre vite spezzate, altro sangue, altro dolore nella terra di nessuno, anzi no quella terra è oramai proprietà della criminalità organizzata, tutto appartiene a loro direttamente o indirettamente.

Comandano loro tutto: questa è la camorra!

Ovviamente non agiscono da soli ma con l’aiuto di gente normale, con persone che possono essere i tuoi vicini di casa, tutti ormai sono assuefatti dal clima che li circonda e ne sono consapevoli.

Molte volte però si da la colpa alla stessa vittima innocente solo perché colpevole di vivere in quei luoghi, solo perché nonostante tutto ama quei posti, ama la sua casa, ama la sua Napoli.

Il 15 ottobre è stato messo un altro nome a quel lungo elenco di vittime “per sbaglio” lui è o meglio era Pasquale Romano, detto Lino, ucciso per errore, per uno scambio di persona cosa che succede spesso in provincia di Napoli.

La storia fa notizia per qualche giorno e poi cala nuovamente il sipario su quei luoghi, su quella gente.

A lanciare un grido di giustizia a nome di tutti è Pasquale Scherillo un familiare di un’altra analoga vittima di otto anni fa. Sono passati ben otto anni dalla perdita del fratello e giustizia non è stata ancora fatta. E ora siamo qui a parlare della stessa vicenda ma con un protagonista diverso, purtroppo.

Pasquale Scherillo però non si è fatto travolgere dall’odio o dal dolore, ha usato quella sete di giustizia per fondare un’associazione a nome del fratello per le vittime innocenti della criminalità organizzata.

Grazie a quest’associazione sensibilizza la gioventù nelle scuole dalle elementari alle superiori, e proprio in quest’ultimo campo che trova la più grande ostilità. Solo con la scuola, la cultura e la saggezza si può ripartire e dare un forte segnale allo Stato, che in queste meravigliose terre c’è gente che chiede aiuto e speranza nella giustizia.

Riguardo quest’argomento i familiari delle vittime non solo non trovano conforto nella giustizia ma anche la Chiesa e in particolare la “strana” omelia del vescovo di Aversa ai funerali di Lino.

Nelle parole del vescovo non compare mai la parola “camorra” sembra che ci sia un macigno troppo pesante e che non si riesce a togliere, è una parola “tabù”.

A mio parere questo masso pesantissimo incomincerà a sollevarsi e a diventare più leggero solo quando finiranno queste morti “per sbaglio”, solo quando la gente per bene quella che abita quei paesi malfamati comincerà a sollevare la testa e a guardare in faccia la realtà e cioè che la gente è molta di più rispetto ai camorristi!

Solo quando si comincerà a pensare in questo modo, i mafiosi avranno paura e si dovranno nascondere perché ormai in minoranza.

 

Crisi del Trecento: le cause

Il Trecento  fu un secolo caratterizzato da una profonda crisi sociale, economica e demografica. Le cause di questo profondo cambiamento furono principalmente tre: Il cambiamento del clima, la frequenza di guerre molto spesso represse col sangue e, il fattore più influente di tutti, la presenza e conseguente diffusione della peste.

Il primo fattore citato è il cambiamento climatico: cosa è successo?
All’inizio del Trecento c’è stato un peggioramento delle condizioni climatiche. Molti storici hanno definito questo periodo come la fine del “periodo caldo medievale”, il quale aveva permesso lo scioglimento dei ghiacci, la coltivazione della vite e abbondanti raccolti facilitati dalle piogge scarse e regolari. Nel corso di questo secolo, però, non c’è stato un notevole abbassamento del clima (in contrapposizione al caldo medievale), come ci si aspetterebbe, ma un consistente aumento delle piogge.

Secondo fattore è la numerosa presenza di guerre devastanti: esse si sono ripercosse su molti centri abitati, soprattutto sulle povere abitazioni dei contadini, che venivano depredate e distrutte.
Guerra di particolare rilevanza, di questo secolo, è quella che fu definita come “guerra dei cent’anni”, guerra che complessivamente durò 116 anni (1337-1453). In realtà non furono 116 anni ininterrotti di guerra, infatti, all’interno di questa ci furono numerose interruzioni e periodi di tregua che la divisero in tre fasi principali: la guerra edoardiana (1337-1360), quella carolina (1369, 1389) e quella dei Lancaster (1415-1429), alle quali si aggiunse alla fine la fase conclusiva della guerra (1429-1453).
Questa lunga guerra scaturì fra Regno di Francia e Regno d’Inghilterra per motivi di successione al trono.

Terzo e ultimo, ma non meno importante, fattore è la peste: come si era diffusa?

Sepoltura delle vittime della peste a Tournai – dettaglio di una miniatura da «Chroniques et annales de Gilles le Muisit», abate di Saint-Martin de Tournai, Bibliothèque royale de Belgique,

La peste è una malattia che gli uomini del tempo non riuscivano a spiegarsi, poiché non avevano abbastanza conoscenze a riguardo. È una malattia per cui uomini, donne, bambini (nessuno poteva sfuggire dalla malattia ad eccezione di chi “scappava” dal territorio) morivano numerosi ogni giorno. La peste che caratterizzò questo secolo fu definita “peste nera” (1347-1353) e si era diffusa dopo essere stata importata da commercianti asiatici che navigavano verso l’Europa. Il contagio era stato molto facilitato dalle scarse condizioni igieniche presenti nel territorio e dalla totale assenza di un sistema di fognature.
La popolazione, durante questi anni, subì dure conseguenze: un terzo della popolazione europea fu colpita da questa malattia, anche se non con la stessa intensità in tutte le zone. Infatti era possibile che alcune zone fossero fortemente colpite mentre in alcuni territori ad esso confinanti fossero rari i casi di contagio.

Libertà: un diritto solo “teorico”?

Libertà: esiste?!
Libertà: esiste?!

La libertà è la condizione per cui un individuo può decidere di pensare, esprimersi ed agire senza costrizioni, usando la volontà di ideare e mettere in atto un’azione, ricorrendo ad una libera scelta dei fini e degli strumenti che ritiene utili a metterla in atto. Questo afferma Wikipedia, uno dei siti di ricerca più visitati al mondo.

Ma è davvero così?  Secondo me non è affatto vero perché nessuno ha l’occasione di vivere questa ideale condizione di libertà. C’è sempre qualcuno che ci “spinge” verso “strade” non scelte da noi. Che si tratti di scelte riguardo fatti poco importanti, che presto si dimenticheranno, o riguardo fatti molto più rilevanti, che ci condizioneranno per il resto della nostra vita.

Dal mio punto di vista la libertà di una persona, a maggior ragione se si tratta di un adolescente, è molto limitata. Infatti, un ragazzo sarà sempre influenzato, nei casi più estremi obbligato, dai genitori o dalla famiglia a fare delle scelte specifiche per paura di deluderli, di farli soffrire o di non essere più considerati come prima.
L’adolescenza, già di per sé, è un periodo in cui i ragazzi sono molto insicuri (chi più, chi meno) e questa “pressione” da parte di chi, in teoria, ha il compito di aiutarli a crescere certamente non aiuta. Per fortuna questa situazione non riguarda tutti gli adolescenti, ma una gran parte potrebbe rispecchiarsi in queste poche righe.

Quindi io mi chiedo: esiste realmente la libertà?
Perché nella mia “breve” vita ancora non l’ho potuta vedere così come è definita.