L’indipendenza della fede della ragione

Guglielmo di Occam
Guglielmo di Occam – da un manoscritto della Summa Logicae – British Museum

Guglielmo di Ockham fu un importante teologo e filosofo francescano inglese. Nacque intorno al 1285 e morì nel 1349. Entrò nell’ordine mendicante fondato da San Francesco d’Assisi fin dalla giovane età e trascorse gran parte della sua vita ad Oxford; fu prima studente e poi professore. Fu accusato di eresia e per questo subì un processo da parte dell’Inquisizione, ad Avignone, nel 1324. Papa Giovanni XXII condannò, a seguito di questo evento, 51 sue enunciazioni teologiche. Fu assolto solo nell’anno della sua morte da Papa Clemente VI.

Egli era particolarmente convinto che l’armonia fra ragione e fede (messa in analisi da filosofi a lui precedenti) fosse pressoché inesistente. Dunque, il piano del sapere razionale (fondato sull’evidenza logica) si trova, secondo il suo pensiero, ben distinto da quello della fede.

Infatti Guglielmo considerava le verità di fede come un vero e proprio dono gratuito di Dio; esse sono “rivelate” e niente può renderle più trasparenti e chiare di quanto non possa la fede in sé. Esse devono quindi essere prese per vere per sola fede, e non dimostrate razionalmente.

Riassumendo questa parte del suo pensiero è quindi possibile affermare che l’ambito delle verità di fede (cosiddette “rivelate”) è sottratto completamente al regno della conoscenza razionale.

Motivo per cui, secondo Gugliemo di Ockham, la filosofia non è in alcun modo serva della teologia. Quest’ultima risulta non essere più una scienza, ma un insieme di verità che sono tenute insieme dalla sola forza della fede dell’individuo e non dalle dimostrazioni logiche (che sono proprie dell’ambito razionale).

È ora opportuno riportare ciò che la tradizione della Chiesa Cattolica dice in merito al rapporto tra fede e ragione: le verità della fede non possono essere colte in maniera immediata dallo spirito umano, poiché superano le capacità razionali dello stesso. Tuttavia l’aspetto razionale e la fede non sono in contrasto, ma si completano a vicenda. Bisogna infatti ricordare come la fede sia un atto razionale, in quanto esso è una decisione fondamentale dell’individuo umano, che è dotato di ragione; la certezza gli deriva dalla verifica delle verità della fede nella vita pratica: la fede è perciò sia una decisione, sia un progetto che interessa l’individuo umano e tutta la sua realtà.

Dunque Gugliemo di Ockham si trova in una posizione contrastante rispetto alla Chiesa, in questo ambito.

Mi sarei dichiarato in completa sintonia con quanto afferma il filosofo francescano, poiché ritengo che un vero fedele non debba porsi interrogativi sulla sua fede. Sarebbe sufficiente leggere la definizione fornita dal dizionario online Treccani per il termine “fede”: credenza piena e fiduciosa che procede da intima convinzione o si fonda sull’autorità altrui più che su prove positive. E, se si considerano come “prove positive” dei risultati soddisfacenti provenienti da dimostrazioni razionali, allora è possibile riassumere la definizione del termine “fede” in questo modo: credenza piena che si fonda sulla propria fiducia o sull’autorità divina (“Altrui”).

Ma , nell’introdurre quest’ultimo capoverso, ho usato dei tempi condizionali. Mi chiedo dunque se sia davvero giusto, in qualsiasi caso, accettare la fede senza alcun tipo di ragionamento sulle verità che essa fornisce. O se, invece, sia più giusto considerare il rapporto fra fede e ragione come complementare, come la tradizione della Chiesa Cattolica afferma.

2 commenti su “L’indipendenza della fede della ragione”

  1. Secondo me, il problema si pone circa l’ oggetto della discussione.
    Vale a dire:la certezza, convinzione o fede poggia su fatti reali o meno ?

    Potrei passar ore a disquisire di Teologia. Ma uno scienziato, non si metterebbe neanche dall’ inizio a seguire tale percorso.
    Poiché manca alla base il consolidamento concreto. La scienza procede da fatti dimostrati, indimostrati o potenzialmente dimostrabili; s’ interroga, dubita e si pone in discussione.

    Non riesco a comprendere in che modo, secondo Lei, l’ aspetto razionale e le fede si completerebbero a vicenda.

    Personalmente, ritengo che, il valore delle proprie convinzioni, sia positivo esclusivamente se adattato alla propria personalità e applicato in modi individuali verso la propria vita. Senza sentirsi in obbligo di convincer altri circa scelte, in sè soggettive e proprie.

    Saluti

  2. Buongiorno,
    trovo e leggo, oggi, con molto piacere una riflessione su Guglielmo da Occam e spero di non giungere troppo tardi a suggerire a brusb qualche spunto ulteriore.
    Mi è infatti piaciuto molto il suo atteggiamento di ricerca in tema di FEDE.

    All’epoca in cui Guglielmo visse non vi era dicotomia (riconosciuta) tra filosofia e teologia, poiché ogni speculazione (nel mondo culturale europeo) soggiaceva ai canoni di una società cristianizzata, in cui ogni sistema doveva rispecchiare le gerarchie consolidate: quindi papato, in primis, e poi impero.
    Inoltre, non vi era nemmeno (ancora) il concetto di scienza come la intendiamo oggi, perché emerse almeno due-tre secoli dopo di lui.

    Quindi, occorre premettere cosa s’intende per scienza: Guglielmo intendeva il campo di speculazione filosofica, noi oggi intendiamo le scienze galileiane ed il termine sta “attraendo” le discipline umanistiche.
    La disambiguazione, infatti, è cruciale e la leggo ben sottolineata nel blog anche dal Vs. egr. Prof. Paganini.

    Nell’indagine, egli formulò un’ipotesi, nota col nome di “rasoio di Occam”, per indurre lo studio all’essenziale, volta per volta, senza coinvolgere riflessioni in campi estesi: si rese conto del fatto che la reductio ad unum è spesso una forzatura che paralizza il progresso di un’indagine.

    I dubbi che sollevò nell’Inquisizione non furono tanto inerenti alla proposta di distinguere, per sé, gli ambiti d’indagine tra teologia e filosofia, poiché già naturalisti, storici, matematici alleggerivano le formalità “probatorie” a beneficio di una più celere pratica (e progresso) delle loro ricerche, perché col metodo del rasoio non si faceva altro che restringere detti campi, quanto nell’eventualità che dal riconoscimento della distinzione si passasse a mettere in discussione la gerarchia tra le discipline, cosa inaccettabile dal punto di vista del potere temporale della Chiesa.

    Salvaguardare piuttosto la teologia da derive razionalistiche come quelle gnostiche, per fare un esempio, mediante l’indipendenza virtuale delle discipline permetteva di affrontare diversamente altri problemi.
    Forse per questo beneficio, credo, gli venne risparmiato il rogo.

    Ma guardiamo adesso al tema centrale dell’intelligibilità della fede.
    Anche gli “interrogativi sulla fede” quindi vanno “disambiguati”.
    Un dizionario darà una definizione il più possibile laica, o addirittura sincretista, per tenersi il più poossibile ampiamente dentro il significato, in tutte le accezioni che si possano trovare. Per quetso parlerà di convinzioni personali, ponendo l’accento sul soggettivismo di fede ed oggetto di fede, ammettendo “prove positive”, laddova non si capisce nemmeno bene se s’intendano come prove secondo i canoni del positivismo, o come prove gradevoli e soddisfacenti.

    MA Guglielmo era un francescano, quindi il primo canone di fede va cercato nell’alveo cristiano (e non strettamente “cattolico”, poiché anche qui, dovremmo confrontare il contenuto dottrinale del “cattolicesimo” del XIV secolo con quello del XXI secolo).

    Se ci confrontiamo con la Bibbia, dunque, incontriamo descrizinoi operative della fede, commenti sulla fede, come pure una definizione in Ebrei 11:1 “Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono”.
    Intanto, emerge l’elemento costitutivo della fede, come atteggiamento: una certezza. Poi, si legge l’oggetto (il più generico possibile) della fede: cose che si sperano.
    In secondo luogo, la fede è definita come una dimostrazione, cioè come la consapevole percezione di comprensione a livello umano di realtà che non si vedono; quest’affermazione a dir poco ardita inferisce significato anche nell’ambito dell’intelletto umano.

    Dunque, si può fare un’auocritica della propria fede tramite questa definizione. Allora è banale che quando si è certi, non si dubita.
    Ma è proprio vero che non si può dubitare?

    Un conto è il dubbio dato dalla propria sobrietà: “quanto è solida la mia fede?”; ciò equivale a porre la propria coscienza sotto esame.
    Altro è invece sottoporre a disamina onesta le proposizioni dottrinali, vuoi che siano i dogmi del magistero della Chiesa Cattolica, vuoi le Sacre Scritture (qualora ci si voglia confrontare con la Bibbia). Questo è fortemente caldeggiato dalla Bibbia stessa, come attesta la vicenda di Paolo a Berea, descritta in Atti 17:10-12, in cui i Bereani “ricevettero la Parola con ogni premura, esaminando ogni giorno le Scritture per vedere se le cose stavano così”.
    La ragione, quindi, è utile per accertarsi che i fatti siano corrispondenti alle Scritture profetiche ed alle Scritture dottrinali e quindi fortificare la fede, informarla a criteri sobrii, razionali e conformi a scritture che per fede, allora, si possono chiamare Parola di Dio.

    Questo era noto a Guglielmo, il quale non sottrae le verità di fede alla disamina, ma al contrario depura le indagini naturalistiche di altre istanze sol suo rasoio, promuovendo un modo più snello ed efficace di studiare la natura (intendendo qui anche fisica, geologia, ecc…).
    La fede non è prodotta dalla ragione, tuttavia, ma dev’essere difesa dalla ragione quando è sottoposta a prova o ad attacco da avversari; così insegna la 1 Lettera di Pietro 3:15, infatti: “Siate sempre pronti a render conto della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni”.
    In questo contesto, la fede è la certezza per cui il cristiano spera e la si motiva anche razionalmente con la comprensione delle realtà che si vedono e che non si vedono alla luce dell’insegnamento che si riceve dalle Scritture.
    Quindi la ragione è utile a titolo apologetico, e sicuramente può venir utile a tutti i credenti, perché il capitolo 3 della lettera di Pietro si rivolge a tutti i credenti nei loro contesti sociali (pagani) dell’epoca, ma non, per sé, necessaria a titolo soteriologico, come spiega invece Paolo nella lettera agli Efesini 2:8-10, dove spiega: “Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio”. Se il magistero cattolico consideri la ragione complementare alla fede (per ottenere la salvezza) d’altra parte la Parola di Dio è chiara nell’attribuire alla sola fede l’effetto di salvare. Per grazia, non per meriti propri dell’uomo.

    Ecco allora come si spiegano le remore di Occam ad armonizzare la ragione (la “ratio” speculativa soteriologicamente) con la fede, ottenuta per grazia. Ecco perché il sapere razionale può spiegare la natura con l’evidenza logica. Ecco perché le discipline di studio vanno rese autonome nel metodo e negli scopi.
    Saluti

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