Qualche giorno fa mi sono imbattuta nella VII lettera di Platone, di cui mi ha colpito soprattutto questa frase: “Un tempo nella mia giovinezza, ho provato ciò che tanti adolescenti provano: avevo progettato, dal giorno in cui avessi potuto disporre di me, di dedicarmi subito alla vita politica”. La lettura del testo mi ha spinto ad alcune riflessioni.
Platone si poneva un problema politico ancora attuale.
Come nell’Atene di allora, anche oggi il mondo è attraversato da numerosi cambiamenti e sconvolgimenti politici, che hanno portato alla rottura di quell’equilibrio necessario al buon funzionamento dello Stato. Ai nostri giorni, infatti, molti uomini che partecipano alla vita politica sono disonesti, corrotti e incapaci di amministrare la giustizia. I cittadini vedono deluse le proprie aspettative e tradita la fiducia riposta in quelli che dovrebbero essere i propri rappresentanti. Di giorno in giorno si assiste alla dissoluzione delle leggi, dei costumi e di quei valori morali su cui dovrebbe fondarsi ogni sistema di governo. Ciò comporta, a sua volta, un decadimento generale della società, dal quale sembrerebbe non esserci più via d’uscita. Di fronte a una situazione del genere, un miglioramento, invece, deve essere auspicato e, a questo proposito, penso che Platone avesse ragione nel sostenere che coloro che avevano il compito di governare dovevano essere sapienti.
In termini moderni ciò significa che ogni capo di Stato dovrebbe avere un’adeguata conoscenza – cosa che spesso viene a mancare – per meglio distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, l’opportuno dall’inopportuno. La conoscenza da sola, però, non basta. Credo che sia necessario che chi ci governa non debba avere interessi materiali, perché altrimenti, come spesso accade, finirà prima o poi con il rivolgere la sua attenzione verso questi interessi privati, piuttosto che verso quelli comuni, arricchendosi personalmente o favorendo alcune persone a scapito di altre.
Solo così, quindi, si otterrebbe uno Stato giusto e buono e, di conseguenza, anche quello che noi definiamo il ” bene comune”, ossia le aspettative di felicità di tutti i cittadini.
Dunque, è innegabile che la bontà di uno Stato sia legata al fatto che chi comanda governi in nome del bene comune e non in nome dei suoi interessi privati.
Ora, però, rimane un interrogativo: una concezione della politica di questo tipo è davvero realizzabile o è pura e semplice utopia?
Di certo a questa domanda ancora tutt’oggi non possiamo dare una risposta certa. É innegabile, infatti, che la teoria politica di Platone delinei un modello di Stato, inesistente e difficilmente realizzabile nella realtà, ma ritengo che il filosofo possa ancora esserci d’aiuto e che la sua lezione possa essere tuttora attuale. Innanzitutto bisognerebbe considerare in positivo e non in negativo l’utopia platonica, intendendola come un mezzo che possa spingere al miglioramento. Mi spiego meglio: essa non si limita, infatti, a proporre un’idea di Stato perfetto, ma, così facendo, sottolinea anche le imperfezioni di Stati storici reali costituirebbe – letta in questo modo – uno stimolo a costruire, se non Stati perfetti, almeno in parte migliori. In secondo luogo, l’utopia fornisce, seppur sul piano centrale, un modello organizzativo di Stato e di politica. Basterebbe, quindi, ripulirla delle sue ristrettezze dottrinali e guardare a essa come un progetto da sviluppare, tenendo ovviamente conto del contesto di riferimento. In terzo e ultimo luogo, bisognerebbe riuscire a tradurre in azione tale progetto. Come? Io penso che ciò non sia completamente impossibile, ma sia possibile solo a certe condizioni. In primis si devono educare gli uomini ad essere buoni cittadini; tale compito spetta in parte alla famiglia, in parte alla scuola in modi diversi: la famiglia educando al bene, la scuola fornendo delle nozioni pratiche attraverso lo studio delle diverse discipline.
Cittadini giusti, poi, a loro volta, formeranno uno Stato giusto, perché saranno in grado di scegliere tra loro i migliori a governare. Infine, quest’ultimi, in quanto tali, adempirebbero convinti al proprio compito, operando per il benessere collettivo.
Detta in questi termini, la soluzione apparirebbe ovvia e scontata; in realtà, si tratta di un percorso lungo e difficile da attuare, che prevede in un primo momento un cambiamento di mentalità – e qui entrerebbe in gioco quella che in senso lato si definisce “la cultura di un popolo” – e solo in un secondo momento il passaggio dal sapere alla pratica. Solo così, allora, si otterrebbero dei buoni risultati e, forse, si metterebbe fine alla degenerazione politico-sociale che domina il nostro tempo.