Lo storico Alberto Caracciolo ha individuato una sorta di “peccato originale”, che avrebbe segnato il destino dell’industria italiana. L’affermarsi della Rivoluzione industriale in Italia può essere collocato, in gran parte, nell’età giolittiana (1901-1914). L’intervento statale ebbe un ruolo fondamentale nell’incentivare questa fase di crescita. Fu inoltre attuata una politica protezionistica, con l’imposizione di alte tasse sui prodotti esteri. Questo provvedimento, tuttavia, danneggiò le imprese del Sud, poichè i mercati esteri reagirono chiudendo le porte ai nostri prodotti tipici come olio, vino e agrumi. Dopo una fase di rallentamento dell’economia internazionale, con l’inizio della prima guerra mondiale, l’industria italiana, non solo si risollevò, ma conobbe un eccezionale sviluppo, dal momento che, in una guerra per la prima volta combattuta in trincea, sarebbe stata decisiva la disponibilità di equipaggiamento militare e ausiliario. Lo Stato si trasformò infatti in un “insaziabile consumatore”. Venivano inoltre accordati larghi anticipi per coprire i costi della produzione e il reinvestimento dei capitali era fortemente incentivato, grazie a una severa tassazione su quelli non investiti. Le imprese non dovevano preoccuparsi di costi di produzione o del rischio di perdite, come in normali condizioni di mercato. Queste condizioni straordinarie consentirono straordinarie crescite, come quella del gruppo siderurgico Ansaldo. Oltre a consentire lo sviluppo di importanti gruppi industriali, questo particolare contesto rivitalizzò settori fino a quel momento trascurati, come quello chimico o quello estrattivo. È in questa fase che, secondo lo storico Alberto Caracciolo, è rintracciabile il “peccato originale dell’industria italiana”. Alla fine della guerra, infatti, le industrie erano ormai eccessivamente abituate all’appoggio economico dello Stato e ad una politica protezionistica che non permetteva di confrontarsi con il mercato internazionale;
esse continuarono quindi a non preoccuparsi dei costi di produzione, pretendendo l’intervento statale, private di una visione realistica del mercato. Lo Stato, d’altra parte, non permise la “selezione naturale”, che il mercato avrebbe autonomamente attuato, continuò invece a prestare soccorso alle imprese in difficoltà. Una della imprese che entrò in crisi fu il gruppo Ilva, che si era esteso a tal punto nel corso della guerra, da non riuscire più a sostenersi nel momento in cui le condizioni di mercato cambiarono. La Fiat, invece, riuscì a controllare la propria crescita, così da consolidarla nel dopo-guerra. Questi errori lasciarono una traccia profonda, visibile ancora oggi.