Nonostante il fatto che molte delle sue teorie più famose siano oggi abbondantemente sorpassate, di Cesare Lombroso si parla ancora.
Nella sua opera più celebre, L’uomo delinquente, il criminologo sosteneva che ci fosse un rapporto diretto tra i tratti somatici di una persona e la sua indole; dunque studiando attentamente il volto se ne poteva dedurre la pericolosità.
L’antropologia criminale fondata da Lombroso riscosse grande successo fin da subito e fu al centro di numerosi dibattiti. Medici e psichiatri furono attratti dal problema e il mito lombrosiano sorse. Almeno per un ventennio fu il più significativo “prodotto scientifico d’esportazione” italiano. Egli divenne una figura centrale, posta in relazione di volta in volta con Galileo e Beccaria, con Pasteur e Darwin.
Partendo dagli studi delle personalità di numerosi detenuti dell’ospedale del carcere di Torino, diede un personale apporto alla criminologia che fino ad allora aveva preso in considerazione esclusivamente l’aspetto sociologico del malato; ne nacque una “scienza” che univa le diverse discipline.
Ma in cosa consiste esattamente l’antropologia criminale? È una teoria che si proponeva di individuare i delinquenti da alcune caratteristiche somatiche non per punire, ma soprattutto per prevenire i crimini. Fino ad allora la criminologia poteva essere letta come il tentativo di comprendere e giustificare la miseria e le diversità che il capitalismo aveva prodotto dietro ad affermazioni di principio, libertà ed uguaglianza per tutti. Dunque il criminale non è altri che un emarginato che non per colpa sua si trova costretto a commettere il reato; naturalmente questa è una spiegazione semplicistica, ma non si discosta molto dall’analisi che Lombroso faceva dello status quo della disciplina ai tempi della pubblicazione della sua opera.
Egli interpretò le diversità del criminale come fondate sulla natura. Sosteneva che esistessero comportamenti, come l’infanticidio, l’antropofagia o l’uccisione dei vecchi, che non sono altro che la risposta a bisogni primari ed elementari dell’uomo e che il loro ripresentarsi non è altro che la presenza di aspetti primitivi nella società moderna; molti di questi comportamenti verranno considerati delitti dalla società, ma il delinquente in realtà non fa altro che manifestare ciò che è insito nella natura dell’uomo e che la maggior parte delle persone riesce a comprimere, ma alcuni hanno il bisogno di esternare. Fin qui l’antropologia criminale non presenta nulla di rivoluzionario, il problema nasce quando il suo autore cerca di legare questo ragionamento psichiatrico all’aspetto più propriamente fisico. Lombroso individua il principale tratto somatico del criminale nell’atavismo, cioè nell’avere delle caratteristiche fisiche che ricordino l’uomo primitivo, scimmiesche in un certo senso. Dunque la fronte sfuggente, segno anche di poca intelligenza, i seni frontali, la forma parabolica dell’arcata dentaria, il naso trilobato, le anomalie di pelle, di colori, di peluria, l’occhio ferino e la fisionomia selvaggia. Questi caratteri, secondo gli studi lombrosiani, erano più frequentemente riscontrabili tra i criminali rispetto al resto delle persone.
Il delitto non va dunque considerato come un semplice fatto: occorre studiarne la genesi e soprattutto l’autore da un punto di vista scientifico, antropologico, psicologico, medico; è di per sé un dato naturale e sociale. Naturale perché il soggetto che delinque lo commette sotto la spinta di elementi che appartengono al proprio patrimonio biologico; sociale non soltanto in quanto si sviluppa in un ambiente favorevole, ma anche perché la società ha il diritto di difendersi. E dunque il criminale non sarà punito in rapporto esclusivamente al fatto specifico: dovrà piuttosto essere considerato un disgraziato o un malato dalla cui pericolosità occorre premunirsi.
Per queste sue teore, Lombroso fu prima di tutto un medico psichiatra e nella sua professione fu un luminare. Bisogna però sottolineare che non fu considerato né in Italia né all’estero un antropologo già dai suoi contemporanei: egli era troppo superficiale nei metodi e troppo estraneo ad una disciplina che tentava di giungere a nuove sicurezze ed a generalizzazioni limitate ma certe. Certo è che “L’uomo delinquente” fu pubblicato nel 1876 e, sebbene già negli anni Venti di questo secolo l’autore era considerato un ciarlatano, nel periodo della sua piena attività gli giungevano omaggi, scritti ed oggetti che ne fecero il punto di riferimento incontrastato dello studio di ciò che si pone al di fuori della norma.
Cesare Lombroso aveva perfettamente ragione
Sono d’accordo con lui… come gli occhi sono lo specchio dell’animo così anche il suo viso rispecchia la sua natura violenta… Al 90% dei casi nn mi sono mai sbagliato…