Sono settimane che subisco la tensione del nerbo contro lo sfòcio dei sospiri, al ricordo della spuma di cielo che riempì la stanza di blu di Prussia; nella quale, avvolti dal manto slavato, disfacevamo il gomitolo degli intrecci profondi fino a toccarti i brividi che irruvidivano la schiena, ora nuda.
Affondi schermistici; le braccia che trattengono il capo che si scrolla all’indietro, nel tentativo di far cadere i pensieri sotto al letto; labbra che cancellano le gocce del profumo femminile e fiotti di lava fredda tra le gambe.
Bruciasti l’ultima capocchia di cera -che prese fuoco dall’aura brillante del tuo aspetto come risvegliato: scacco al viaggiatore cieco curioso di labirinti- pronta a soffiare vortici contro le sottili fondamenta delle costruzioni di carta, in piedi solo per un gioco di pressioni -ora soprattutto mentali.
Istanti dopo, il sole espirava il cinguettìo dell’alba, seduto sui campi,
mentre per svegliarci lasciava cadere, dai pugni semichiusi della sabbia bianca finissima delle spiagge sarde sui nostri corpi divini; con i capelli, biondi, spaiati sui cuscini; raggi di ciocche sul cotone sbattuto.
La luce aveva richiamato la maréa dell’acqua oceanica che fino alla notte prima immergeva di nebbia il cantuccio di Bologna.
Fu come assistere alla sublimazione del ghiaccio in nuvole, attorno ad una fontana innevata abbandonata.
Tante le notti in attesa di tornare a scrivere poesie notturne, mute, recitate dalle tempie; adorando il piccolo spazio fra i seni, profumato di fiori bianchi di bergamotto; infiammandomi come un seme d’amento, risecchito dalla primavera, ai piedi del pioppo.