Giugno 1999
E’ mattino. Mi sveglio prima con la mente che con il corpo e sono immobilizzato sul materasso.
La schiena poggia sul lenzuolo celeste di cotone, rotolandomi nel nido. Quando richiudo gli occhi, mi permetto d’invitare la coscienza a casa di Morfeo.
Sono arrivato ieri quì. Superavo i miei cugini che m’inseguivano in bicicletta, e spingevano i primi calletti contro il manubrio. Rumore anatresco del cambio Shimano.
Stavo seduto ‘dietro’ io; nella Tempra rosso lucida, con gli interni spugnosi e secchi, sporchi di polvere, sabbia e sale. Residui di focacce. L’odore dei sedili cotti dai raggi solari, inserrati dal vetro che sulla faccia colora le ultime gocce della stagione, mi faceva tenere il sacchetto di plastica a portata di mano; lo spirito dei mozziconi spenti è difficile da esorcizzare. Sono in macchina da più di 10 ore; ho le labbra screpolate, la lingua che sa di aceto e i piccoli muscoletti delle gambe atrofizzati.
Quel cancello nero però mi ha fatto entrare in paradiso.
Il viale sul quale, strisciando con la gomma, facevo compagnia al lento martello del Parkinson, raccogliendo di notte gelsomini bianchi, unica luce naturale in quell’aria di zafferano diffuso.
I grandi dicono sia un paesino in provincia di Palermo e non una zattera fra le nuvole.
Ritorno sul cuscino. Mi accarezzo i capelli. Corti e chiari. Il vigore del mattino quando il sole dà il bacio del buongiorno mi spinge fuori dal letto e sulla scalinata di marmo bianco, rinfresco la pianta nera, pronta a formarsi sull’asfalto.
Sento il profumo del mare e della sicilia arancione.