Il ministro e l’antilingua

il professor Paganini


Quale ministro? Che cos’è l’antilingua?
Il ministro è ancora una volta Fioroni, ma la mia non è una polemica politica. L’antilingua è quella del decreto di modifica dello statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria.
Il nostro paese ha un record negativo per l’astrusità del linguaggio legislativo ed amministrativo. Il decreto del presidente della repubblica n. 235 del 21 novembre 2007 è soltanto una conferma, ma è ugualmente un grave errore. Perché?


I più interessati lettori di questa norma dovrebbero essere, come è ovvio, gli studenti: un’ottima occasione per contribuire con l’esempio alla semplificazione del linguaggio, come,da decenni, raccomanda il governo stesso.
Invece troviamo espressioni come «con riferimento alle fattispecie di cui al comma 9», «ove non siano esperibili interventi per un reinserimento responsabile» e le sanzioni sono sempre irrogate.
Capite ora che cos’è l’antilingua?

PS
Il termine antilingua fu usato da Italo Calvino in un articolo comparso sul Giorno nel 1965. Vale la pena di leggerlo.

L’antilingua

Il Giorno” | 3 febbraio 1965
Di Italo Calvino
Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma  attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: “Stamattina presto andavo in cantina ad  accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata”. Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele  trascrizione: «Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante».
Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua.
Caratteristica principale dell’antilingua è quella che definirei il «terrore semantico», cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se «fiasco» «stufa» «carbone» fossero parole oscene, come se «andare» «trovare» «sapere» indicassero azioni turpi.
Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente.
Abbiamo una linea esilissima, composta da nomi legati da preposizioni, da una copula o da pochi verbi svuotati della loto forza, come ben dice Pietro Citati che di questo fenomeno ha dato un’efficace descrizione.
Chi parla l’antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: «io parlo di queste cose per caso, ma la mia «funzione» è ben più in alto delle cose che dico e che faccio, la mia «funzione» è più in alto di tutto, anche di me stesso ».
La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza d’un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi. La lingua invece vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa l’antilingua – l’italiano di chi non sa dire ho «fatto», ma deve dire «ho effettuato» – la lingua viene uccisa. (…)

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