Molti ricordano un celebre paragone marxiano tra l’ape e l’architetto. Andava di gran moda negli anni ’70.
Per i nostalgici cito direttamente il buon Marx.
Il nostro presupposto è il lavoro in una forma nella quale esso appartiene esclusivamente all’uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nell’idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale; egli realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà.
Oggi, però, i miei bravi studenti di quinta X sono andati ben oltre ed hanno colto il ben più profondo rapporto che lega l’ape ed il filosofo.
Stavo facendo un giro di domande su Schopenhauer quando si è fatta la luce ed ecco la grande novità interpretativa: «Un posto centrale nel pensiero di Arthur Schopenhauer è occupato dall’importante figura dell’Ape Maia e dal suo celebre velo…».
Domine non sum dignus.